mercoledì 30 aprile 2008

l'italia alla deriva

dal "Corriere Online"

Energia, l'Italia dei no

Eolico, nucleare, rigassificatori: tutti bocciati. I consumi? Come mezzo miliardo di africani

L'impianto eolico di Castiglione Messer Marino, Chieti (Ansa)
Lo «scienziato» Giovanni Paneroni era sicuro di se stesso: «Come il giovane Davide / decapitò Golia / il Paneroni impavide / cambiò l'astronomia». Girava per le sagre paesane della Lombardia degli anni Trenta vendendo arance, torroni, ciambelle e tiramolla illustrando urbi et orbi la sua teoria scientifica. Primo: «È il sole che ruota intorno alla terra e non il contrario, o bestie!». Secondo: «Il sole ha un diametro di 2 metri, pesa 14 chili, gira a 1000 chilometri fissi dalla terra e ha un calore così strapotente che costringe i mari a svaporare come una pignatta bollente». Terzo: «La terra non gira. E chi l'ha scoperto? Me! E dunque io sono uno dei dieci uomini più interessanti della terraferma». (..) Mai avuto un dubbio, il Paneroni. Beato lui.

Alberto Asor Rosa, invece, un rovello ce l'ha: «A fronte della minaccia di scempio del paesaggio non è da escludersi il ricorso alle centrali nucleari». E come lui, uno dei protagonisti dell'intellighenzia di sinistra italiana, cominciano ad averlo in tanti. Piuttosto che distese immense di pannelli solari e sconfinate foreste metalliche di mulini a vento, non sarà il caso di tornare all'energia atomica? Ma per carità, s'infiamma Alfonso Pecoraro Scanio: «Chernobyl ha dimostrato che le dimensioni del rischio nucleare sono inaccettabili e immorali. Per difendere il bello non c'è bisogno di giocare alla roulette dell'atomo». Meglio le centrali a carbone? No, le centrali a carbone no. Meglio le centrali a petrolio? No, le centrali a petrolio no. Meglio il gas, che però chiede i rigassificatori, cioè impianti che riportino il combustibile dalla forma liquida a quella gassosa? Ma per carità! È vero che si potrebbero usare le piattaforme dove un tempo si estraeva metano, già allacciate ai metanodotti e abbandonate in mare aperto nell'Adriatico, ma prima «bisogna preparare una valutazione sugli impatti ambientali insieme con i nostri vicini, soprattutto con la Slovenia, ma anche con la Croazia ».

Allora l'eolico? Adagio: «Alcuni impianti si possono fare. Però non dobbiamo installare torri gigantesche proprio sulle rotte degli uccelli migratori, che vengono sterminati dalle pale». Di più: «L'Europa ci condannerebbe». L'Europa, a dire il vero, ha fatto scelte diverse. Tenendo conto sì degli uccelli migratori, ma non solo. Anche la Francia restò atterrita davanti al disastro di Chernobyl, ma si è tenuta 59 centrali atomiche. Anche la Germania ammutolì vedendo le immagini dell'incendio al reattore numero 4, ma i suoi 17 impianti non li ha affatto chiusi seduta stante neppure negli anni in cui i verdi erano fortissimi e avevano agli Esteri Joschka Fischer, che mediò un'uscita dal nucleare (oggi tutta da rivedere) nell'arco di vent'anni. (..) E così tutti gli altri Paesi europei, che si sentirono come noi appestati dalle radiazioni che venivano da lontano e scossi dall'idea di non poter mangiare l'insalata o il basilico contaminati, ma non si affrettarono a mettere i lucchetti alle turbine. Risultato: siamo esposti a tutti i rischi di 158 centrali europee altrui, alcune delle quali sono a poche decine di chilometri dai nostri confini, e senza avere per contro uno straccio di elettricità. Di più: siamo alla mercé dei capricci degli altri. Il che, se l'Italia fosse una comunità di Amish della Pennsylvania che si alzano al levar del sole, si coricano al tramonto e vivono rifiutando la modernità, non sarebbe un problema enorme. Il guaio è che non lo siamo. Consumiamo ogni anno, tra imprese, uffici, negozi e famiglie, 338 miliardi di chilowattora. Una quantità impalpabile. Della quale fatichiamo a capire le dimensioni se non grazie a dei paragoni. Che mettono i brividi. Secondo Eurostat, l'Italia «brucia» tanta energia elettrica quanto Turchia, Polonia, Romania e Austria le quali messe insieme hanno 136 milioni di abitanti. O se volete (stavolta i dati sono dell'Aie, l'Agenzia internazionale dell'energia) quanto mezzo miliardo di africani. E avanti di questo passo nel 2025 consumeremo il 5,3% di tutta l'energia prodotta nel pianeta con lo 0,7% della popolazione mondiale. Bene: esaurita ogni possibilità di sfruttare ancora di più le risorse idriche (ogni salto, dalle Alpi valdostane ai monti Nebrodi, è già stato usato) e poveri come siamo di materie prime, la nostra autonomia è pari al 12% del totale. Per il resto dipendiamo dall'estero.

Il 12% lo compriamo direttamente dai Paesi vicini, il che significa, spiega l'ingegner Giancarlo Bolognini, «che all'estero ci sono 8 centrali nucleari della potenza di quella di Caorso che lavorano a pieno regime per noi». Il 75% ce lo facciamo da noi ma solo grazie a materie prime acquistate da governi e società stranieri (gas dalla Russia e dall'Algeria, petrolio da più parti).

Risultato finale: l'energia elettrica prodotta in Italia costa il 60% più della media europea, due volte quella francese e tre volte quella svedese. Si pensi che per produrre elettricità, spiega l'Aie, l'Italia brucia in un anno tanto olio combustibile quanto l'India in un anno e mezzo. Per l'esattezza in 551 giorni. E tanto gas quanto tutta l'America Latina in 439 giorni. Va da sé che siamo il Paese europeo che (nonostante il gas naturale copra ormai la metà del settore) dipende di più dal petrolio. Nel solo 2005 ne abbiamo consumato nelle centrali circa 6 milioni e mezzo di tonnellate, pari a 32 superpetroliere come la Exxon Valdez che anni fa affondò in Alaska causando un disastro ecologico. Sei volte di più che la Germania o la Francia, dodici volte più che il Regno Unito.

Una «bolletta» pazzesca. Di oltre 30 miliardi di euro l'anno. (…) Un Paese serio, davanti a un quadro così fosco di dissesto energetico e alla minaccia di blackout come quello che paralizzò ore e ore l'Italia il 28 settembre del 2003 per un guasto dovuto alla caduta in un albero in Svizzera, non si darebbe pace nella ricerca di vie d'uscita. Nucleare o solare, eolica o geotermica: ma una soluzione. La cronaca di questi anni, invece, è un impasto di veti, controveti, velleitarismi, fughe in avanti, viltà e retromarce. Nel caos più totale. (…) Se abbiano ragione o torto, ad avere tanta fiducia nel nucleare, non lo sappiamo. Lo stesso Carlo Rubbia, in un'intervista ad «Arianna editrice», conferma che «il nucleare di oggi produce scorie radioattive da far paura» e che «in realtà avevamo il modo per produrre energia bruciando proprio le scorie, anzi l'Italia era leader nel mondo in questa tecnologia» ma ora «ce la stanno copiando i giapponesi ». Insomma, la questione è aperta. E non ha senso, tanto più dopo aver visto le reazioni sconvolte sul tema delle scorie a Scanzano Jonico o in Sardegna, andarsi a impiccare in discussioni nelle quali sono spaccati gli stessi scienziati.

Ma resta il tema: o facciamo qualcosa o restiamo appesi, con le nostre fabbriche e le nostre lampadine, ai capricci degli stranieri che ci tengono in pugno. Ed è lì che si vede la disastrosa incapacità della nostra classe dirigente, non solo dei «signor no» dell'ambientalismo talebano, di fare delle scelte. Anche gli svedesi, per dire, votarono a favore del progressivo abbandono del nucleare. Molto prima di noi, nel 1980. Ma dandosi scadenze lunghe lunghe. Per spegnere completamente la centrale di Barsebäck hanno aspettato venticinque anni e l'ultima chissà quando la chiuderanno davvero dato che tutti i sondaggi dicono che la stragrande maggioranza dei cittadini ha cambiato idea: piuttosto che finire ostaggio degli stranieri, meglio il nucleare. In ogni caso, si sono mossi. Cercando sul serio le alternative possibili. Come hanno fatto tutti i governi seri in tutto il mondo. Compresi quelli che il petrolio ce l'hanno. Noi invece…

Sergio Rizzo
Gian Antonio Stella

30 aprile 2008

martedì 29 aprile 2008

italia alla deriva 2

dal "Corriere Online"

Nei porti italiani le navi non entrano più

Vecchi per le portacontainer. Traffico a rischio

Siamo un popolo di poeti, santi ed ex navigatori. Certo, siamo pieni di yacht di lusso, motoscafi e barchette cacciapesca. E c’è da credere a quanto ha raccontato pochi anni fa Silvio Berlusconi: «Dalla mia villa in Sardegna ho un gran bel panorama, davanti a Punta Lada noto anche quest’anno molte barche. Se sono barche da ricchi vuol dire che ne abbiamo proprio tanti. Gli stipendi crescono più dell’inflazione, la ricchezza delle nostre famiglie non ha eguali in Europa». Sarà... Ma sulle navi grosse, quelle che dominano i mari di oggi e del futuro, quelle che hanno in pugno la polpa del traffico mondiale delle merci, siamo quasi tagliati fuori.

Un'operazione di carico di container nel porto di Genova in un'immagine d'archivio del 28 giugno 2005 (Ansa)
Fino a una dozzina di anni fa i bastimenti più grandi portavano duemila container standard da 13 metri che in gergo internazionale sono chiamati Teu. Dal 2000 ne portano quattromila e poi è partita una gara mostruosa a chi fa le navi più immense. Un rapporto di Brs-Alphaliner, una società di monitoraggio che tiene d’occhio l’evoluzione della flotta commerciale planetaria, riferisce che il mondo è pieno di giganteschi cantieri dai quali entro il 2010 usciranno complessivamente 311 bestioni in grado di portare oltre 7.500 Teu e 95 in grado di portarne oltre 10.000. Bene: non una di queste navi smisurate, che «pescano» più di 15 metri e mezzo sotto il pelo dell’acqua, potrà mai entrare, salvo che a Trieste sul quale però pesano altri handicap, in un porto italiano. Oddio, al molo di Genova ha attraccato la danese Emma Maersk, che è lunga 397 metri cioè quanto quattro campi da calcio e porta 11.400 container con 13 (tredici!) uomini di equipaggio.

Ma era solo una simulazione al computer: i fondali del porto ligure, infatti, non sono abbastanza profondi per accogliere l’Emma né le sue dieci sorelle che la Maersk ha messo in cantiere con capacità perfino maggiori. Una volta, quando il mare era «nostrum», le facevamo noi le navi più grosse. I romani arrivarono a dominare il Mediterraneo con le muriophortoi, alla lettera «portatrici di diecimila anfore», bestioni da 500 tonnellate. Per non parlare di certe imbarcazioni eccezionali come quella fatta fare apposta da Caligola per portare a Roma l’obelisco che oggi svetta in piazza San Pietro. Quanto ai veneziani, l’Arsenale è stato a lungo il più importante stabilimento industriale del mondo.

Così grande da impressionare Dante Alighieri che nella Divina Commedia magnifica la catena di montaggio: «Chi fa suo legno novo e chi ristoppa / le coste a quel che più vïaggi fece; / chi ribatte da proda e chi da poppa; / altri fa remi e altri volge sarte». Nei momenti di punta ci lavoravano in diecimila a ritmi tali che nel solo maggio 1571, alla vigilia della battaglia di Lepanto, riuscirono a varare 25 navi. Quasi una al giorno. E da lì uscivano le «galee grosse da merchado» lunghe 50 metri, dotate di tre alberi per vele latine e spinte nei giorni senza vento da 150 vogatori disposti a terzine su banchi a spina di pesce. Eravamo forti, allora. Commercialmente e militarmente. E lo siamo rimasti, con le nostre flotte e i nostri porti, fino a non molti decenni fa. Il declino, però, è stato rapidissimo. Nel 1971, ha scritto Bruno Dardani, che prima sul Sole 24 Ore e poi su Libero Mercato cerca da anni di lanciare l’allarme, «i quattro porti di Genova, Marsiglia, La Spezia e Livorno coprivano il 20% del traffico europeo» e di questa quota Genova rappresentava quasi i due terzi facendo da sola il 13% del totale continentale.

Tredici anni dopo, nel 1984, il traffico sotto la Lanterna era crollato al 4 e mezzo per cento. Scarso. Colpa dei costi: nel momento chiave in cui i porti dell’Europa del Nord si giocavano tutto per arginare l’irruzione della concorrenza orientale, a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta, movimentare un container pieno costava a Rotterdam il 56% in meno di quanto costasse a Genova. Colpa degli spazi perché, fatta eccezione per Gioia Tauro, i nostri porti sono antichi e hanno le case che incombono sulle banchine. Colpa dei partiti, che hanno occupato anche questi territori se è vero che almeno 18 sulle 24 autorità portuali sono in mano a persone di origine diessina. E colpa della sordità della nostra classe dirigente, che non ha ancora capito come sulle rotte marittime transiti quasi il 95% del commercio estero del continente. Commercio dal quale, nonostante ci riempiano la testa di chiacchiere sull’«Italia piattaforma portuale d’Europa», stiamo finendo progressivamente ai margini. Basti dire che nel 2005, dopo qualche anno di «ripresina» seguita alla legge che nel ’94 liberalizzò un po’ di banchine, siamo stati l’unico Paese Ue a perdere quote nel traffico dei container, calato di oltre il 3% mentre cresceva del 10% in Spagna e del 14% a Rotterdam.

Le statistiche del centro studi del porto di Amburgo sono implacabili. E dicono che dei primi venti porti del mondo nel 2006 neppure uno era italiano. E che anche il successo abbastanza casuale di Gioia Tauro, che era nato come polo industriale e si era ritrovato a essere tra i primi porti europei per container grazie ai fondali e agli spazi nonostante le sgarrupate infrastrutture di collegamento con la disastrata Salerno-Reggio Calabria, appare compromesso. Era arrivato a essere nel 2004 il 23˚ scalo mondiale con 3 milioni e 261.000 container. Ma da allora non ha fatto che arretrare fino a scendere sotto i 3 milioni, per essere via via sorpassato nel 2006 da Giacarta, Algeciras, Yokohama, Felixstowe per non parlare della cinese Xianem che allora stava 400.000 container indietro e adesso sta un milione abbondante più avanti. Certo, nel 2007 c’è stata una ripresa. Però... Ed è idiota maledire il cielo e i limiti della Vecchia Europa: è tutta colpa nostra. Dal 2000 al 2006 a Genova il traffico di container è aumentato del 10%. E intanto cresceva a Rotterdam del 54%, a Brema e ad Algeciras del 61%, a Barcellona del 65%, ad Anversa del 71%, a Valencia del 99% e ad Amburgo del 108%.

Cosa c’entra l’invettiva contro la Vecchia Europa? Niente. Solo che gli altri, coscienti che sul container si gioca il futuro, ci investono. E noi no. Prendi la Spagna. Mentre noi tagliavamo, spiega Bruno Dardani, loro in soli due anni, 2007 e 2008, hanno deciso di investire sui porti quasi 3 miliardi di euro. Risultato: loro sono in vertiginosa ascesa, noi sommando tutti e sette i principali porti italiani catalogati dall’ufficio statistico di Amburgo (Gioia Tauro, Genova, La Spezia, Taranto, Livorno, Venezia e Trieste) arriviamo a movimentare 7.818.974 container. Cioè poco più della sola Anversa e 2 milioni in meno della sola Rotterdam. O se volete un terzo del solo porto di Singapore. A Barcellona, consapevoli di essere obbligati ad ampliare il porto per tenere il passo del mondo, hanno deviato la foce del fiume Llobregat, preservato un’oasi faunistica per far contenti gli ambientalisti e creato spazi per 30 chilometri di banchine.

A La Spezia la richiesta di dragare i fondali è stata tenuta ferma per anni finché è stata sbloccata nel 2007 solo a una condizione: tutti i fanghi rimossi, considerati da certi verdi integralisti tossici e pericolosissimi, devono essere messi in migliaia di costosi sacchi speciali con l’interno in pvc assorbente e portati da un’altra parte. Risultato: li spediamo, pagando, ai belgi. Che incassano 100 euro a tonnellata, prendono i nostri «spaventosi» fanghi tossici consegnati a domicilio e li usano per fare nuove banchine ad Anversa con le quali aumentare il loro vantaggio già abissale su La Spezia e gli altri porti nostrani. Ridono di noi, all’estero. Ridono e si portano l’indice alla tempia: italiani picchiatelli! E come potrebbero non ridere, davanti a certi sproloqui? Le «autostrade del mare »! Il primo a parlarne fu addirittura Costante Degan, un vecchio democristiano veneto piazzato alla Marina mercantile. Ministero, tra l’altro, non solo abolito a partire dal primo governo Berlusconi ma scomparso perfino come delega a qualche straccio di sottosegretario. Come se il mare che bagna 7.458 chilometri delle nostre coste esistesse solo per scaricare liquami o farsi una nuotata nei giorni di solleone… (2 - Continua)

Sergio Rizzo
Gian Antonio Sella

sinistra chic, adieu

dal "Corriere Online"

La Roma «piaciona» e festaiola
dice addio ai vertici in spiaggia

Basta nomine decise a Capalbio, salotti snob verso il declino. E si prepara il congedo dalla Festa del cinema

ROMA — Addio per sempre, soffice e dorata Roma piaciona, salottiera, cinematografara, capalbiesca e sabaudiana, lontana anni luce dalle insicure periferie convertite ad Alemanno. La sconfitta chiude una stagione politico-cultural-mondana nata l’8 dicembre 1993 col primo insediamento di Francesco Rutelli in Campidoglio. Addio, un esempio tra i tanti, alla lunga catena dei Comitati organizzatori. Mai più si vedrà Giovanni Malagò animarne un altro come quello per le Olimpiadi 2004 a Roma: si insediò nel 1996 e il manager romano (storica concessionaria capitolina di Bmw, Ferrari e Rolls Royce) organizzò raffinatissimi ricevimenti per i commissari olimpici internazionali esibendo Sabrina Ferilli e Maria Grazia Cucinotta.

Piovvero proteste per i costi e per l’eccesso di glamour sexy: «Non vedo cosa ci sia di male nell’aver coinvolto cultura e spettacolo, erano testimonial». Il fatto che Roma poi venne sconfitta da Atene il 5 settembre 1997 con 66 voti contro 41 sembrò quasi un dettaglio. Era il ritratto del gusto di un’epoca durata quindici anni, la profezia dei tappeti rossi della futura Festa del cinema, la prova della fiducia ormai consolidata del centrosinistra capitolino per l’immagine e la ribalta. In questo humus affondò le radici la lista Beautiful per il Rutelli bis nel 1997 con l’inclusione della principessa Alessandra Borghese, ai tempi ben lontana da Pier Ferdinando Casini.

Addio per sempre all’efficacia politica di certi vertici al vino bianco sotto gli ombrelloni de «L’ultima spiaggia» di Capalbio ben più importanti di tante riunioni di partito: mettere insieme a una sdraio di distanza Fabiano Fabiani, Claudio Petruccioli, Furio Colombo ai tempi della direzione de «L’Unità», magari con l’aggiunta di Chicco Testa, poteva valere la presidenza di una fresca ex municipalizzata o un corposo giro di poltrone alla Rai. Blocchi di potere che, tra il berlusconiano palazzo Chigi e l’alemanniano Campidoglio, conteranno quasi nulla. E parallelamente avranno rilevanza zero (sempre per Rai, Campidoglio, universo del cinema) certe serate sotto la luna di Sabaudia, magari serviti ai tavoli del decantatissimo «Saporetti » spesso indicato come un «Fortunato al Pantheon» in versione estiva (fu lì che il 13 agosto 1996 Stefania Craxi insultò il candidato sindaco sconfitto per aver disonorato, secondo lei, la memoria di papà Bettino). Tra le dune ancora Rutelli, Malagò e poi ogni tanto Bernardo Bertolucci, passaggi di Fabio Mussi e qualche apparizione di Francesco De Gregori.

Altro addio. Nessuno sentirà mai più parlare di effetto Clinton per Francesco Rutelli né l’ex sindaco potrà più sbarcare a Manhattan (visita del giugno 1998) per proporre l’adozione dell’area dei Fori imperiali come simbolo del mondo da salvare. Le modelle del negozio Fendi a Manhattan impazzirono per lui («he’s so cute», è così carino). Ora tocca ad Alemanno, ed è già partita la gara per individuare un suo doppio internazionale come Bill fu per Francesco. La Roma piaciona e festaiola dovrà approntare un doloroso congedo dalla «sua» Festa del cinema. Chissà se Alemanno la abolirà o la affiderà, come si insinua, a Pasquale Squitieri. Il red carpet dei divi conoscerà le suole di altre scarpe. In quanto ai salotti romani, resisterà certamente (con alleggerimenti di ex potenti romani del centrosinistra) il fortino di Maria Angiolillo a piazza di Spagna. Prevedibile il declino di quello (non piacione ma progressista- snob) pilotato da Sandra Verusio di Ceglie che tempo fa dichiarò: «Quelli di destra sono maschilisti. Fanno ironia volgare. Pensano che il massimo della vita sia far fessi gli altri». Vallo a raccontare a chi ha portato Alemanno in Campidoglio.

Paolo Conti
29 aprile 2008

lunedì 28 aprile 2008

la televisione di sinistra sempre più estranea alla realtà

da "dagospia" e "la stampa"
Paolo Martini per La Stampa


Più che all'editto bulgaro numero 2, siamo al Monito Moderato numero 1. Dagli ex Margherita di «Europa» ai laburisti dalemiani del «Riformista» ai cattolici che si ritrovano nell'Agorà culturale del quotidiano «Avvenire», la parola d'ordine mediatica post-elettorale è la stessa: la sconfitta vien dal video. Ma non perché la sinistra televisiva sia morta. Anzi, se si parla di puro e semplice mercato della tv, «questi professionisti dell'informazione unidirezionale sanno fare benissimo il loro mestiere, conducono trasmissioni collaudate e godono di una certa quota di audience che li mette al riparo», scrive Domenico Delle Foglie nell'editoriale del giornale dei vescovi. Ma, scende in campo Stefania Carini su «Europa», tutti insieme ci costruiscono davanti proprio «un'altra realtà alterata, fatta di tanti AnnoZero, Che tempo che fa, Parla con me», cui alla fine addirittura «il Pdl e la Lega devono dire grazie», chiosa Silvano Stoppa dal «Riformista».

Persino personaggi storici di riferimento, come il consigliere Rai di Rifondazione Sandro Curzi, ora se la prendono con una sinistra televisiva che «non ha saputo applicare l'idea di decentramento e ha perso il collegamento con il territorio». Per non dire del tema dell'immigrazione: «Una tv che non riesce a capire cosa succede nel nostro Paese, quali enorme differenze sociali e culturali si sono determinate» prosegue l'indimenticabile direttore di Telekabul: «Con i poveri così poveri che si rifugiano in idee (che chiaramente non condivido) basate sulla difesa della persona e del territorio».

Curzi, oltretutto, ha scelto di schierarsi così già nella prima intervista post-elettorale ad Articolo 21, il sito dell'associazione animata da un altro leader della «gauche mediatique» Beppe Giulietti. Da mesi è lui che protesta quasi ogni giorno per l'assordante silenzio di tutta la tv rispetto alle grandi cause sociali, dalle morti bianche ai diritti umani nel mondo. Storico sindacalista dei giornalisti Rai, già parlamentare diessino, Giulietti è stato ripescato per un soffio da Di Pietro. E adesso addirittura, al suo caro ex Comitato di Redazione che protesta per difendere l'onorabilità del TgUno, Giulietti sembra preferire l'ariete delle V-piazze Beppe Grillo. Articolo 21 infatti riprende come primo editoriale proprio il feroce pezzo in cui Marco Travaglio sbeffeggia di rincalzo a Grillo il malcapitato «Johnny Raiotta».

Anche le polemiche e i risentimenti alimentano l'insopportabile aura «di superbia e distacco dal popolo», rimprovera l'editorialista di «Avvenire». Ma non è il solo a riecheggiare il celebre monologo di Satov contro lo sprezzo dell'intellighenzia di sinistra, che chiude il primo capitolo dei «Demoni». Quel Dostoevskij si poteva ritrovare tradotto bruscamente sabato sera a Otto e mezzo, alla fine di una singolare puntata di battibecco su Padre Pio, quando un impietoso Lanfranco Pace ha sibilato verso una scettica Ritanna Armeni: «Dovresti andare una volta anche tu a Lourdes, così saresti un po' meno acida».

L'elegantissima ex portavoce bertinottiana è assurta al ruolo di fatto di conduttrice, dopo l'uscita di Ferrara, ma non se la passa tanto bene. E poi non si sa se il programma sopravviverà al siluramento del direttore Antonio Campo Dell'Orto. Già, il difficile momento della sinistra televisiva s'intuisce anche guardando alla crisi de La7 con disincanto, nonostante il grande sconforto dei salotti democratici e del «Corriere della Sera». Vantando l'intero catalogo degli show post-progressisti, dalla «nuova Gabanelli» Ilaria D'Amico all'irrefrenabile Maurizio Crozza, dalle Markette chiambrettiane alla purezza di una Guzzanti, questa era la tv-recinto modello. Ma, alla fin fine ha perso più di 200 milioni di euro in due anni, che con meno del 3 per cento di share è un bel rosso in bilancio, aggravato dal rischio di non trovare nemmeno più una concessionaria pubblicitaria.

«La sinistra ha perso perché è come certa tv» taglia corto il titolo di «Europa», sopra una vistosa foto di Santoro. E una delle star televisive citate che accetta, a patto dell'anonimato, di ragionarci sopra, spiega: «E' vero, siamo tutti fuori tempo massimo. Nessuno è stato in grado d'interpretare e rappresentare la realtà in movimento: nemmeno Giovanni Floris, così attestato sull'economico, sul sindacato, sulle classi. Di certo non Lucia Annunziata, con la linea liberal all'americana di picchiare sul conflitto d'interessi. Santoro e Travaglio sono ancora lì con la mafia e la camorra e Berlusconi e il Padrino. Per non parlare del sapore da gauche-caviar in salsa veltroniana che promana dai salotti di Fabio Fazio, Serena Dandini o Daria Bignardi, più o meno radical-chic che siano...».

La questione del successo e degli ascolti, ovviamente, non c'entra niente. Nessuno, a sinistra o al centro, si permette di discutere dell'Auditel. Infatti, Fazio e Floris sono spacca-share da capogiro per Raitre, Santoro è riuscito benissimo a riprendersi la cresta dell'onda, «In 1/2 ora» dell'Annunziata raccoglie a volte la domenica pomeriggio più spettatori di Vespa o di Mentana, la Dandini si è ripresa sopra il 12 per cento e la Bignardi ha sempre veleggiato sopra la media di rete. E un maestro d'info-cult come Gad Lerner sembra persino aver resistito all'abbraccio mortale con la politica politicante e i vari Prodi.

In effetti l'ultima puntata de «L'Infedele» ha toccato il più che ragguardevole 4,4 per cento su La 7. Peccato che non si parlasse, alla Lerner-original, di donne iraniane o altri temi poco frequentati dal grande fiume mediatico. Ma del solito, invincibile Beppe Grillo, che quest'anno ha fatto impennare lo share a tutti, da Santoro a Giovanni Minoli, con doppio album grillesco per La Storia siamo Noi. Ecco, Grillo e i grillanti sono i convitati di pietra anche del discorso sulla sinistra tv.

E' su questa presenza-assenza del Vaffa-Guru, si affanna a ripetere da mesi Carlo Freccero, che l'informazione di sinistra rischia adesso il tutto per tutto. Veltroni però vuole ancora giocarsela all'americana, con l'annuncio di una rete tv vigilante, genere governo-ombra. Ma gli spettatori digitali di sinistra attendono casomai che s'illumini la freschissima Current tv di Al Gore, al 130 di canale sul telecomando, non certo il novello «Ualter-channel», che se va bene finirà dalle parti della «Tv delle libertà», all'818 o giù di lì.


Dagospia 28 Aprile 2008

la deriva dell'Italia

dal "Corriere Online"


Dalle infrastrutture agli ordini professionali, dal turismo all’università, cronaca della crisi

Dai bidelli agli onorevoli, un’Italia alla deriva

Privilegi intoccabili e tagli impossibili

C’erano una volta le impiraresse che perdevano gli occhi a infilar perline, le filandine che passavano la vita con le mani nell’acqua bollente e le lavandere che battevano i panni curve sui ruscelli sospirando sul bel molinaro.

Una scuola in provincia di Napoli (Fotogramma)
Ma all’alba del Terzo Millennio, al passo col resto del mondo che produceva ingegneri elettronici e fisici nucleari e scienziati delle fibre ottiche, nacquero finalmente anche in Italia delle nuove figure professionali femminili: le scodellatrici. Cosa fanno? Scodellano. E basta? E basta. Il moderno mestiere, per lo più ancora precario, è nato per riempire un vuoto. Quel vuoto lasciato dalle bidelle che, ai sensi del comma 4 dell’art. 8 della legge 3 maggio 1999, n. 124, assolutamente non possono dare da mangiare ai bambini delle materne. Detta alla romana: «Nun je spetta».

C’è scritto nel protocollo d’intesa coi sindacati. Non toccano a loro le seguenti mansioni: a) ricevimento dei pasti; b) predisposizione del refettorio; c) preparazione dei tavoli per i pasti; d) scodellamento e distribuzione dei pasti; e) pulizia e riordino dei tavoli dopo i pasti; f) lavaggio e riordino delle stoviglie. Scopare il pavimento sì, se proprio quel pidocchioso del direttore didattico non ha preso una ditta di pulizie esterna. Ma scodellare no. Ed ecco che le scuole materne e primarie, dove le bidelle (pardon: «collaboratrici scolastiche») sono passate allo Stato, hanno dovuto inventarsi questo nuovo ruolo. Svolto da persone che, pagate a parte e spesso riunite in cooperative, arrivano nelle scuole alle undici, preparano la tavola ai bambini, scoperchiano i contenitori del cibo, mescolano gli spaghetti già cotti con il ragù e scodellano il tutto nei piatti, assistono gli scolaretti, mettono tutto a posto e se ne vanno. Costo del servizio, Iva compresa, quasi un euro e mezzo a piatto. Mille bambini, 1.500 euro. Costo annuale del servizio in un Comune di media grandezza con duemila scolaretti: 300.000 euro.

Una botta micidiale ai bilanci, per i Municipi: ci compreresti, per fare un esempio, 300 computer. Sulla Riviera del Brenta, tra Padova e Venezia, hanno provato a offrire dei soldi alle bidelle perché si facessero loro carico della cosa. Ottocento euro in più l’anno? «Ah, no, no me toca...». Mille? «Ah, no, no me toca...». Millecinque? «Ah, no, no me toca...». Ma ve lo immaginate qualcosa di simile in America, in Francia, in Gran Bretagna o in Germania? (...) E sempre lì torniamo: chi, se non la politica, quella buona, può guidare al riscatto un Paese ricco di energie, intelligenze, talenti straordinari, ma in declino? Chi, se non il Parlamento, può cambiare le regole che per un verso ingessano l’economia sul fronte delle scodellatrici e per un altro permettono invece agli avventurieri del capitalismo di rapina di muoversi impunemente con la libertà ribalda dei corsari? (...)

Giorgio Napolitano ha ragione: «Coloro che fanno politica concretamente, a qualsiasi schieramento appartengano, devono compiere uno sforzo per comprendere le ragioni della disaffezione, del disincanto verso la politica e per gettare un ponte di comunicazione e di dialogo con le nuove generazioni ». Ma certo questa ricucitura tra il Palazzo e i cittadini, necessaria come l’ossigeno per interrompere la deriva, sarebbe più facile se i partiti avessero tutti insieme cambiato quell’emendamento indecente infilato nell’ultimo decreto «milleproroghe» varato il 23 febbraio 2006 dalla destra berlusconiana, ma apprezzato dalla sinistra. Emendamento in base al quale «in caso di scioglimento anticipato del Senato della Repubblica o della Camera dei Deputati il versamento delle quote annuali dei relativi rimborsi è comunque effettuato». Col risultato che nel 2008, 2009 e 2010 i soldi del finanziamento pubblico ai partiti per la legislatura defunta si sommeranno ai soldi del finanziamento pubblico del 2008, 2009 e 2010 previsto per la legislatura entrante. Così che l’Udeur di Clemente Mastella incasserà complessivamente 2 milioni e 699.701 euro anche se non si è neppure ripresentata alle elezioni. E con l’Udeur continueranno a batter cassa, come se fossero ancora in Parlamento, Rifondazione comunista (20 milioni e 731.171 euro), i Comunisti italiani (3 milioni e 565.470), i Verdi (3 milioni e 164.920). (...)

E sarebbe più facile se i 300 milioni di euro incassati nel 2008 dai partiti sulla base della legge indecorosa che distribuisce ogni anno 50 milioni di rimborsi elettorali per le Regionali (anche quando non ci sono), più 50 per le Europee (anche quando non ci sono), più 50 per le Politiche alla Camera (anche quando non ci sono: quest’anno doppia razione) e più 50 per le Politiche al Senato (doppia razione) non fossero un’enormità in confronto ai contributi dati ai partiti negli altri Paesi occidentali. (...) Certo che ha ragione Napolitano, a mettere in guardia dai rischi dell’antipolitica. Ma cosa dicono i numeri? Che la legge attuale, che nessuno ha voluto cambiare, spinge i partiti a spendere sempre di più, di più, di più. Per la campagna elettorale del ’96 An investì un milione di euro e fu rimborsata con 4, in quella del 2006 ne investì 8 e ne ricevette 64. E così tutti gli altri, dai diessini ai forzisti. Con qualche caso limite come quello di Rifondazione: 2 milioni di spese dichiarate, 34 incassati. Rimborsi per il 2008? C’è da toccar ferro. (...) «Un fantastilione di triliardi di sonanti dollaroni». Ecco a parole cos’hanno tagliato, se vogliamo usare l’unità di misura di Paperon de’ Paperoni, dei costi della politica. A parole, però. Solo a parole. Nella realtà è andata infatti molto diversamente.

Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano (Ap)

E si sono regolati come un anziano giornalista grafomane che stava anni fa al Corriere della Sera e scriveva ogni pezzo come dovesse comporre un tomo del mitico Marin Sanudo, il cronista veneziano che tra i 58 sterminati volumi dei Diarii e i 3 delle Vite dei Dogi e il De origine e tutto il resto, riuscì a riempire l’equivalente attuale di circa 150.000 pagine. Quando il vecchio barone telefonava in direzione per sapere della sua articolessa, il caporedattore sudava freddo: «Tutto bene il mio editoriale, caro?». «Scusi, maestro, dovrebbe tagliare 87 righe». «Togliete gli asterischi». Questo hanno fatto, dal Quirinale alle circoscrizioni, nel divampare delle polemiche sulle spese eccessive dei nostri palazzi, palazzetti e palazzine del potere: hanno tolto gli asterischi. Sperando bastasse spargere dello zucchero a velo per guadagnare un po’ di tempo. Per tener duro finché l’ondata d’indignazione si fosse placata. Per toccare il meno possibile un sistema ormai così impastato di interessi trasversali alla destra e alla sinistra da essere diventato un blocco di granito. (...)

Almeno una porcheria, i cittadini italiani si aspettavano che fosse spazzata via. Almeno quella. E cioè l’abissale differenza di trattamento riservata a chi regala soldi a un partito piuttosto che a un’organizzazione benefica senza fini di lucro. È mai possibile che una regalia al Popolo della Libertà o al Partito democratico, a Enrico Boselli o a Francesco Storace abbia diritto a sconti fiscali fino a 51 volte (cinquantuno!) più alti di una donazione ai bambini leucemici o alle vittime delle carestie africane? Bene: quella leggina infame, che avrebbe dovuto indignare Romano Prodi e Silvio Berlusconi e avrebbe potuto essere cambiata con un tratto di penna, è ancora là. A dispetto delle denunce, dell’indignazione popolare, delle promesse e perfino di una proposta di legge, firmata a destra da Gianni Alemanno e a sinistra da Antonio Di Pietro. Proposta depositata in un cassetto della Camera e lasciata lì ad ammuffire. Ma se non ora, quando?

Sergio Rizzo Gian Antonio Stella (1- Continua)

venerdì 25 aprile 2008

gossip come terrorismo?

secondo questa legge, il "Sun" inglese potrebbe essere paragonabile ad Al Quaeda


i mezzi di informazione russi potranno essere sospesi o chiusi dall'autorità

Russia, giro di vite contro i mass media

Dopo la nuova pubblicazione di notizie sulla relazione tra Putin e Kabaeva la Duma vota una legge su diffamazione

MOSCA - Diffamazione e calunnia: d'ora in avanti i mezzi di informazione russi potranno essere sospesi o chiusi dall'autorità con queste accuse. Lo ha deliberato la Duma, Camera bassa del Parlamento, votando una legge a favore di nuove restrizioni sui mass media. Ufficialmente è un provvedimento come un altro, ma il fatto che negli ultimi mesi si sia molto parlato - e non solo in Russia - della presunta relazione tra il presidente Putin e la campionessa olimpica Alina Kabaeva, fa sorgere il dubbio che esista un nesso. Recentemente anche il tabloid russo Moskovskij Korrespondent ha parlato del presunto divorzio tra Vladimir Putin e la moglie Ljudmila, "sostituita" dalla 24enne, che è anche deputata di Russia Unita. Pochi giorni dopo l'editore del quotidiano ha licenziato il direttore. Lo spinoso argomento era stato trattato a bruciapelo anche durante la visita di Putin a Villa Certosa, ospite di Berlusconi: una giornalista aveva chiesto lumi sulla vicenda e il Cavaliere aveva mimato il gesto del mitra rivolto verso di lei. Il provvedimento è stato votato dalla Duma quasi all'unanimità (un contrario e 339 a favore).

SANZIONI - Ai sensi della nuova norma, la calunnia e la diffamazione consistono nella «diffusione di informazioni false deliberatamente dannose all’onore e alla dignità». Con sanzioni parificate a quelle previste per la promozione del terrorismo, l’estremismo e l’odio razziale. Il disegno di legge passa ora al Senato dove è più che probabile l’approvazione. Toccherà poi a Putin la firma definitiva. La bozza era stata presentata a gennaio dal parlamentare Robert Schlegel, ex attivista del Nashi (movimento giovanile pro Putin). La Duma ha respinto la prima proposta, ma ha approvato la nuova versione presentata da Schlegel dopo che il tabloid russo ha pubblicato il gossip su Putin. Ma chiaramente nel presentare il disegno di legge, il deputato non ha citato l'episodio.


missing mirror


missing mirror © 2001-2008 giovanni caviezel

l'immagine di Sordi

dal "Corriere online"

«Salviamo l'immagine di Sordi».
Stop agli spot abusivi

L'avvocato Assumma avvia una campagna per fermare l'uso illecito del volto dell'attore

Una delle pubblicità con ALberto Sordi
ROMA — «Alberto aveva rifiutato offerte di pubblicità miliardarie da famose case automobilistiche giapponesi proprio perché teneva moltissimo alla sua immagine e non voleva abbinarla a iniziative che odorassero di sfruttamento lucrativo. E poi dicono fosse attaccato al denaro. Figuriamoci se avrebbe tollerato l'inflazione del suo viso a uso e consumo di ristoranti... ». Giorgio Assumma, presidente della Siae e famoso avvocato romano (tra i suoi clienti Pippo Baudo e Maurizio Costanzo) venne nominato tempo fa tutore dell'immagine di Alberto Sordi dalla famiglia dell'attore scomparso il 23 febbraio 2003. Per qualche tempo ha seguito con crescente apprensione la comparsa di pubblicità in cui appariva il volto di Albertone: prima piccole trattorie, poi case vinicole, infine fabbriche di salumi. Nemmeno a dirlo, il fotogramma più sfruttato viene da «Un americano a Roma», diretto nel 1954 da Steno: «Macaroni... m'hai provocato e io te distruggo, macaroni io me te magno».

Il fenomeno dilaga in Italia, ma anche negli Stati Uniti dove Sordi conta una vastissima platea di fan, in gran parte figli e nipoti di emigrati italiani. E persino in Australia, dove cresce il fenomeno della «Sordimania», e non solo tra gli emigrati. Ma adesso Assumma si è ribellato. Ha sentito il parere di Aurelia, ultima sorella ormai novantenne di Alberto che vive ancora nella splendida villa romana a piazzale Numa Pompilio, e di Annunziata Sgreccia, storica segretaria del-l'attore (sono loro a comporre di fatto «la famiglia» rimasta). E ha annunciato una «campagna legale senza sconti e senza confini» che verrà combattuta in Italia, Europa, Stati Uniti e Australia. Si tratta, dice Assumma, «di un uso assolutamente non autorizzato dalla famiglia, fatto nella convinzione che le sembianze del personaggio celebre e amato possano essere liberamente usate per promuovere generi commerciali». Invece Sordi in vita «non aveva mai voluto mettere la sua notorietà al servizio della pubblicità di qualsiasi prodotto». Secondo Assumma la legge è chiara e «vieta tassativamente l'uso a fini commerciali dell'immagine e del nome a meno che non sia concesso dal diretto interessato o dai parenti stretti».

La legge 633 del 22 aprile 1941 non permette l'esposizione del ritratto di una persona dopo la sua scomparsa a meno che gli eredi, dal consorte e via via fino ai parenti di quarto grado, non rilascino un permesso. Sempre quella legge inibisce l'uso di un'immagine per scopi commerciali «anche se di persona nota quando rechi pregiudizio al suo decoro». La campagna, definita da Assumma «preventiva e repressiva », è stata decisa proprio per evitare il sospetto che la famiglia Sordi possa guadagnare qualcosa da un'utilizzazione che, al contrario, è un autentico illecito. L'unica attività autorizzata e legata all'immagine di Sordi è quella della Fondazione Alberto Sordi che ha creato a Trigoria il Cesa, Centro per la salute dell'anziano, sui terreni donati dall'attore già nel 1998. Sempre lì è stato inaugurato poche settimane fa la nuova megastruttura dell'università Campus Bio Medico dell'Opus Dei, di cui la Fondazione Sordi è socio sostenitore. Esiste anche una seconda Fondazione, ma di indirizzo culturale e destinata alla formazione dei giovani, in particolare di addetti allo spettacolo. Può disporre dei diritti d'autore de «La storia di un italiano », la serie tv realizzata da Sordi per la Rai. Tutto il resto è abuso. D'ora in poi Nando Moriconi apparirà solo nella versione originale del film. Con buona pace di certi ristoratori che dovranno inventarsi un nuovo simbolo per decantare i loro «macaroni ».

Paolo Conti

giovedì 24 aprile 2008

sempre connessi

dal "corriere online"

L'obiettivo Migliorare la vita e la produttività. Maxi investimenti e aiuti di Stato

Telefoni del futuro, la ricetta giapponese

Con 15 euro tutti connessi, in qualsiasi luogo. La fibra ottica sarò il nuovo motore dell'economia nipponica

E' nelle telecomunicazioni il futuro dell'economia giapponese. Nella foto, un cellulare a batteria solare (Reuters)
Negli anni Ottanta, il Giappone è stato preso a modello in America e in Europa per aver reinventato la sua possente industria manifatturiera su due pilastri: la qualità dei prodotti e l'organizzazione del lavoro in tempo reale. Nel primo decennio del Duemila, l'Impero del Sol Levante tornerà a far scuola con l'Ubiquitous Society, lanciata dal governo Koizumi nel dicembre del 2004 e ora in fase di avanzata costruzione a opera soprattutto di Ntt, l'ex monopolista Nippon Telegraph and Telephone? Il punto di domanda è d'obbligo perché, come mostra il grafico del rapporto dell'Ofcom, l'Authority britannica, i Paesi occidentali stanno prendendo strade assai meno impegnative, gli europei in particolare. E però, se la seconda potenza economica del pianeta investe l'equivalente di 31 miliardi di euro tra il 2005 e il 2010 nelle next generation networks, seguita da due tigri asiatiche come la Corea e Singapore e dalle principali metropoli cinesi mentre il resto del mondo sta a guardare, l'affare è troppo serio per liquidarlo come dirigismo orientale senza averlo prima capito.

Il Giappone potrà dirsi pronto a costruire l'ubiquità quando tutti i suoi 128 milioni di cittadini, continuando a pagare una tariffa base attorno ai 15 euro, potranno collegarsi alla velocità di 100 megabit al secondo, passando dalla rete fissa alla mobile e viceversa, in qualsiasi luogo del Paese a qualsiasi ora, in superficie e in galleria. Il progetto si intitola u-Japan. Lo slogan è: Anytime, Anywhere, by Anything and Anyone. L'infrastruttura dovrà essere pronta nel 2010. Per una nazione, dove si vive in media fino a 82 anni, e si nasce sempre meno, la vita in banda larghissima dovrebbe diventare più agevole per i vecchi e più stimolante per i giovani grazie a un uso facile e pervasivo dell'Ict ( Information communication tecnology). Cambierebbero il modo di lavorare, la cura della salute, l'educazione scolastica e l'aggiornamento professionale, i trasporti pubblici e privati, la sicurezza e la prevenzione degli effetti di terremoti e tifoni, si utilizzerebbero meglio i materiali e le fonti energetiche. Infine, aumenterebbe la produttività del sistema e si potrebbe contrastare molto meglio la concorrenza dei paesi emergenti nella manifattura, che resta il cuore del Paese.

Secondo le stime fatte dal ministro Takuo Imagawa tre anni fa, il fatturato delle attività connesse alle comunicazioni in banda larghissima arriverà nel 2010 a 87 trilioni di yen, ovvero a 534 miliardi di euro, quasi il triplo rispetto al 2003, quando ancora si stava ultimando il dispiegamento della banda larga. Le ricadute sull'intera economia in termini di nuovi business e di maggior efficienza delle attività esistenti determineranno, sempre nel 2010, un incremento del prodotto interno lordo nipponico di 120,5 trilioni di yen, ovvero di 734 miliardi di euro. Poiché il Pil del Giappone è stato di 430 trilioni di yen nel 2006, le reti di prossima generazione dovrebbero indurre in 4-5 anni una crescita del Pil di circa un terzo. Questa esplosione dell'economia a ritmi cinesi, in verità, non si è ancora vista. Probabilmente, il governo ha fatto un po' di propaganda per giustificare il suo intervento. E' vero però che u-Japan è stato deciso dal premier riformista Junichiro Koizumi come rimedio contro il declino dell'economia giapponese rispetto a quella americana.

Guarda la grafica

Secondo il White Paper del Nomura Research Institute, il Giappone deve recuperare proprio nell'Ict che, pur avendo un'incidenza diretta sul Pil limitata, è già adesso uno dei principali motori della crescita e potrebbe diventarlo molto di più. Tra il 1990 e il 2005, infatti, gli investimenti americani in Ict sono cresciuti a velocità più che tripla rispetto a quelli giapponesi e nel quinquennio 2000-2005 questo ha determinato un aumento della produttività del lavoro americano più che doppio rispetto a quello nipponico. Che peraltro, con vizio piuttosto italiano, è ottimo nella manifattura e pessimo nei servizi. Ma proprio Nomura dall'Ubiquitous Society si attende più realisticamente un incremento aggiuntivo del Pil pari a un punto percentuale l'anno. Che, cumulandosi nel tempo, non è comunque da disprezzare: stiamo parlando di una finanziaria italiana o quasi. Su questo fronte l'impegno del governo non cambia, anche se Koizumi ha ceduto la poltrona a Shinzo Abe. Basta guardare alle parentele di Taro Aso, il ministro dell'Interno e delle Comunicazioni che tenne a battesimo u-Japan: il padre, Takakichi, era presidente della Aso Cement Company e sodale del vecchio primo ministro Tanaka; la madre era figlia di un altro primo ministro, Shigeru Yoshida; il padre della moglie è un terzo premier, Zenko Suzuki, mentre la sorella è sposa di un cugino primo dell'imperatore.

Il rilancio dell'economia dovrebbe far leva sugli operatori di telecomunicazioni che, entro il 2010, devono raggiungere 50 milioni di abitazioni e uffici con le fibre ottiche veloci e superveloci, dotate di una potenza cinque volte superiore quella disponibile in Italia nei centri di Milano e Roma. Il traguardo è a portata di mano, visto che la copertura è già arrivata al 90%. Naturalmente non tutti i giapponesi si abboneranno subito al nuovo servizio, ma l'Adsl ormai comincia a perdere abbonati, mentre la fibra ottica ne conquista al ritmo di 6-700 mila al trimestre. Il capo della Ntt, Satoshi Miura, aveva promesso 9,5 milioni di clienti entro il marzo 2008, il secondo operatore nipponico, la Kddi, 900 mila. In realtà, sono un po' sotto e gli analisti si dividono sul futuro. Kenji Nishimura, della Deutsche Bank, prevede 20 milioni di clienti per Ntt al 2010 invece dei 30 messi a piano. Neale Anderson, della Hong Kong Shangai Banking Corporation, spiega il rallentamento con l'attesa degli imminenti, nuovi servizi su fibra come l'Iptv per le aree metropolitane di Tokio e Osaka, e attribuisce 14 milioni di abbonati a Ntt, ovvero il 69% del nuovo mercato. Ma se è chiaro che il Giappone presto o tardi ricaverà importanti vantaggi dalla fibra, e se le multinazionali domestiche fornitrici di tecnologie e contenuti ne avranno di ancor più sicuri e immediati, rimane oscuro il ritorno economico per chi le nuove reti deve costruire: Ntt in prima fila, ma anche Kddi e Softbank, le compagnie elettriche e le tv via cavo che offrono telecomunicazioni.

Nishimura sostiene che, seppure i ricavi da fibra stanno rapidamente aumentando (dal 2006 al 2007 sono passati dal 6 al 12% in Ntt), i profitti arriveranno non prima del 2012. E qui emerge — emerge si fa per dire, perché i numeri non vengono resi pubblici — il ruolo dello Stato. Per incentivare questo investimento strategico, il governo ha assicurato tre sussidi: finanziamenti della Development Bank of Japan a zero interessi per Ntt e a interessi molto bassi per gli altri; recuperi fiscali tra il 6 e il 18% sull'imposta societaria e la diminuzione dell'aliquota del 20-25% sulle immobilizzazioni; garanzie pubbliche sui debiti accesi per l'investimento. L'effetto sui bilanci potrebbe diventare rilevante con il tempo. Le prossime, vere decisioni riguardano il quadro regolatorio e gli assetti di Ntt: se e come le nuove reti verranno inserite nel servizio universale, che oggi procura modesti rimborsi a Ntt; se e come il ministero delle Finanze resterà per legge sopra il terzo del capitale e stranieri sotto. Ma su questo punto si comincerà nel 2012.

Massimo Mucchetti

l'analisi di Sartori

dal "corriere online"

Le elezioni dirompenti


di Giovanni Sartori

Le elezioni del 13 e 14 aprile sono da interpretare come una svolta speciale? Sì e no; ma direi più sì che no. Enzo Bettiza sulla Stampa minimizza: «La Seconda Repubblica non è morta per il semplice fatto che non era mai esistita. È morta invece definitivamente la Prima, di cui la Seconda non era che un'ombra storta e contorta». Neanche io, come Bettiza, ho una alta opinione del periodo 1994-2008; ma quel periodo è pur sempre contrassegnato da una sua peculiare identità. Intanto ha avuto un illustre defunto: il potere democristiano. E poi una svolta c'è stata. Non tanto in chiave di distribuzione bipolare del voto (che c'era anche tra Pci e Dc) ma in chiave di alternanza bipolare dei governi. Una svolta danneggiata, purtroppo, dalla frammentazione- frantumazione del sistema partitico. Questa volta abbiamo invece una felice controsvolta: da decine di partiti e partitini (tanti da essere difficili da contare) siamo scesi a 4-6. Inoltre c'è un fatto nuovo: la Lega che sembra diventata definitiva al Nord e che sfonda anche in direzione Sud. Il che complica di parecchio la competizione partitica, che oramai si dispiega lungo due assi: destra- sinistra, ma anche Nord-Sud, e cioè centro- periferia.

Comincio da alcune riflessioni sulla Lega. Passo poi alla scomparsa della sinistra alternativa. Per concludere sulle prospettive della sinistra riformista.
La Lega.
A naso direi che nel suo successo convergono tre fattori: 1) l'elemento centrifugo (via da Roma ladrona); 2) l'elemento della protesta antipolitica (in alternativa all'astensione, voto un partito estraneo al sistema); 3) il federalismo fiscale (a sé stante rispetto al federalismo istituzionale). Direi anche, sempre a naso, che l'elemento che sfonda al Sud è il terzo: alle regioni ricche piace l'idea che ognuno abbia diritto di tenere per sé i soldi che fa (una contabilità difficile da attuare ma appetitosa come slogan). Il che prelude a uno scontro con la lega siciliana in pectore di Raffaele Lombardo, il Mpa. Al momento lo scontro è rinviato: Lombardo non chiede allo Stato le risorse che Bossi vuole tenere al Nord, ma già chiede di trattenere le accise sulla benzina raffinata in Sicilia (uno scippo di un miliardo di euro).

La sinistra alternativa.
La sua scomparsa in Parlamento fa versare a tutti copiose lacrime di coccodrillo, e cioè lacrime ipocrite. Ipocrite perché chi chiede la governabilità non può volere i partitini che la impediscono. Né la scomparsa dei «nanetti» in generale viola le istanze della rappresentanza. Questo argomento confonde la rappresentatività come somiglianza con la rappresentanza come tecnica costituzionale di trasmissione del potere. Per esempio, dire che io sono rappresentativo dei cretini non vuol dire che io sia rappresentante dei cretini. D'altronde il mondo delle democrazie è pieno di minoranze che non sono rappresentate.

Il caso più clamoroso è quello degli Stati Uniti, che non hanno mai avuto un partito socialista senza che la sinistra si ritenga non rappresentata per questo.
La sinistra riformista. La sconfitta è stata secca. All'inizio della campagna elettorale quasi tutti i sondaggi stimavano il Pd sotto di circa 7 punti: più o meno la stessa distanza che nel 2006 separava Berlusconi da Prodi. Ma allora Berlusconi risalì la china, mentre Veltroni è restato al palo e semmai ha perso 2 punti percentuali. Perché? Eredità negativa di Prodi a parte, a mio avviso anche Veltroni è colpevole di avere sbagliato la sua campagna elettorale. Veltroni ha combattuto un'elezione senza combatterla; si è disperso in 104 province invece di concentrarsi sulle regioni in bilico e sul connesso premio di maggioranza; e ha puntato troppo sul programma mentre il Cavaliere puntava soltanto su poche ma efficaci parole d'ordine. Un'idea: quando sarà (tra 12 anni?) in ozio, la sinistra dovrebbe reclutare Berlusconi come consigliere elettorale. Con lui vincerebbe.

Il discorso serio è che non credo — come si sente dire in giro — che la sinistra di governo sia sempre destinata a perdere. In Gran Bretagna, Germania, Spagna e in tutte le piccole democrazie nordiche, la socialdemocrazia governa e torna regolarmente a governare. Perché in Italia no? Secondo me è perché su di noi pesa ancora l'eredità di un Pci che è stato il primo della classe del comunismo internazionale. Ne consegue che Veltroni si trova ancora in mezzo al guado, e cioè gravato da un bagaglio ideologico che le altre socialdemocrazie hanno da tempo ricusato.

Per esempio, si sapeva che moltissimi elettori chiedevano sicurezza e mano ferma sugli extracomunitari clandestini. Due richieste che di per sé non sarebbero né di destra né di sinistra, ma che i nostri catto-comunisti hanno trasformato in richieste «repressive» di destra. Così su questi punti il governo Prodi si è incartato, e anche Veltroni non li ha messi in sufficiente evidenza. Non raccomando, s'intende, una sinistra puramente opportunista e «acchiappatutto ». Ma in democrazia l'elettorato ha diritto di farsi valere. Se no ti fa perdere.

24 aprile 2008

mercoledì 23 aprile 2008

vita extraterrestre

dal "Corriere Online"


«La decisione di emigrare nello spazio cambierebbe completamente il futuro della razza umana»

Hawking: alieni esistono, ma sono stupidi

L'astrofisico inglese: «La vita intelligente è molto rara. Giusto colonizzare pianeti per la nostra sopravvivenza»

Stephen Hawking (Epa)
LONDRA - Gli alieni esistono. Ma sono stupidi. Non lo dice un visionario con la collezione di foto degli Ufo, ma Stephen Hawking, celebre astrofisico inglese che spesso fa discutere per le sue posizioni anticonformiste. Dunque i «marziani» esistono, ma sono forme di vita assai rudimentali. Hawking, intervenuto alla George Washington University per le celebrazioni del cinquantenario della Nasa, ha cercato di spiegare perché il genere umano non è mai riuscito a entrare in contatto con forme di vita extraterrestri. Tre le possibili spiegazioni: qualunque forma di vita è raramente presente in tutto l'universo; organismi rudimentali sono abbastanza comuni nello spazio ma le forme di vita intelligenti sono al contrario molto rare; gli esseri viventi, quando dotati di intelligenza, tendono ad autodistruggersi molto velocemente.

COLONIZZARE LO SPAZIO - «Per quanto mi riguarda - ha detto Hawking - io propendo per la seconda ipotesi: la vita intelligente è un fenomeno molto raro. Tanto che secondo alcuni è un evento che ancora deve manifestarsi persino qui, sulla Terra - ha scherzato il professore di Cambridge -. Se mai vi dovesse capitare di incontrare un alieno, state comunque attenti: potreste essere contagiati da un virus contro il quale non possedete alcun anticorpo». Come capitò ai nativi americani quando vennero a contatto con i conquistatori venuti da Vecchio Mondo. Un paragone che lo stesso Hawking ha evocato, incoraggiando il genere umano a gettarsi alla conquista dello spazio e colonizzare altri pianeti. «La decisione di emigrare nello spazio cambierebbe completamente il futuro della razza umana e da questa scelta potrebbe dipendere anche la sopravvivenza stessa della nostra specie». Chi si oppone alla colonizzazione dei corpi celesti - come la Luna e Marte - si comporta come coloro che intralciarono Cristoforo Colombo. Parola di Hawking.

venerdì 18 aprile 2008

il corto più visto del mondo

scaricato da youtube 64milioni di volte

Il cortometraggio più visto del mondo

“Lo que tu quieras oir” girato da uno sceneggiatore tv spagnolo di appena 28 anni, Guillermo Zapata

MADRID – Dura 7 minuti in tutto ed è stato scaricato da Youtube 64 milioni di volte. A conti fatti, il cortometraggio più visto del mondo ha accumulato quasi 7 milioni e mezzo di ore di visione, battendo tutti i record del suo settore e classificandosi al terzo posto tra i video più visti della storia. Non male, per essere opera di uno sceneggiatore televisivo spagnolo di appena 28 anni, Guillermo Zapata, noto in patria soprattutto come uno degli autori di Hospital Central, una serie di Telecinco incentrata, appunto, sulle avventure di una équipe medica ospedaliera.

TUTTO SUL WEB - Per lanciare il suo cortometraggio, intitolato “Lo que tu quieras oir” ("Ciò che tu vuoi sentire"-Guarda), Zapata ha deciso di non iscriversi a festival, non partecipare a concorsi né a rassegne specializzate. Semplicemente ha appeso i suoi sette minuti di storia, la vicenda d’amore di una ragazza, Sofia, e gli imprevedibili confini tra realtà e fiction, nella più frequentata “banca” di video virtuale, Youtube.

SUCCESSO - L’esperimento si è rivelato un successo imprevisto e il cortometraggio è stato scaricato da 64 milioni di internauti in un anno, prima ancora di essere presentato ieri in un cinema di Madrid. La protagonista è Fatima Baeza , 34 anni, interprete anche di Hospital Central, attrice teatrale e cinematografica. Con “Lo que tu quieras oir” è anche la protagonista dell’unico clip di fiction nella classifica Top 20, dove predominano i video di curiosità. Il secondo cortometraggio di Zapata, dopo il primo successo, s’intitola, e forse non è un caso, “Y todo va bien”, "E tutto va bene"…

Elisabetta Rosaspina

martedì 15 aprile 2008

emotional rescue


By Richard R. Carlton (Ada, MI United States)

Emotional Rescue was originally released June 24, 1980, it went to #1 in both the UK & US. The album includes the single hits Emotional Rescue and She's So Cold. Most people know the music, so in my reviews I try to give you data on the sessions and interesting facts connected with the songs and the album. Here we go:

Interesting notes include:
.....the vinyl album was released with a large color poster of images taken of the Band with a thermographic camera that imaged the body heat instead of light.....a video was also done with thermographic cameras
.....the tracks on the album were recorded while Keith started his band The New Barbarians to fulfill his drug conviction sentence in Toronto by playing a benefit for the blind, which he did with Ron Wood and the rest of the Stones, and then did a tour (which made no money because the drug expenses were so high)....John Belushi was with the Band for most of the tour
.....Band members Ronnie Wood, Mick Taylor, and Ian McLagan all released albums (with accusations that their best work had gone into their solo efforts)

The sessions for Emotional Rescue were very productive with many unreleased songs. They started in Nassau and continued in Paris with overdub and final mixing at Electric Lady Studios in NYC during Nov & Dec of 1979 and in April 1980.
Jan 18 - Feb 12, 1979 at Compass Point Studios in Nassau
.....She's So Cold
.....All About You
Jun 10 - Aug 25 & Sep 12 - Oct 19, 1979 at Pathe Marconi/EMI Studios in Paris
.....Dance
.....Summer Romance
.....Send It To Me
.....Let Me Go
.....Indian Girl
.....Where The Boys Go
.....Down In The Hole
.....Emotional Rescue

Also recorded during the Emotional Rescue sessions were:
.....Little T & A (released on Tattoo You)
.....Hang Fire (released on Tattoo You)
.....Worried About You (released on Tattoo You)
.....If I Was A Dancer (Dance, Pt. 2) (released as a 12" single)
.....Black Limousine (released on Tattoo You)
.....No Use In Crying (released on Tattoo You)

Tracks from these sessions that were never released included Gangster's Moll, I'll Let You Know, Linda Lu, Lonely At the Top, It Won't Be Long, Still In Love, Sweet Home Chicago, What's The Matter, You're So Beautiful (But You Gotta Die Someday), Break Away, and Sands Of Time.

This information comes from "It's Only Rock And Roll: The Ultimate Guide To The Rolling Stones" by Karnbach and Bernson and from my own collection, with some of the notes from Davis' "Old Gods Almost Dead." Both books are available from amazon.com.



nota elettorale


Chiunque abbia vinto, che governi. Credo che la graduale costruzione di un solido bipolarismo (e di questo dobbiamo ringraziare Veltroni) sia la soluzione giusta per la nostra italietta. Una piccola rivoluzione da queste urne è uscita: ha spazzato via i partitelli vari, i vari ismi del no a tutti i costi, i portabandiera del pacifismo violento, della spesa pubblica totalizzante. Il resto, lo vedremo, comunque sono ottimista: un processo di lento ma inesorabile rinnovamento finalmente si è innescato. Difficile da vedere al momento, forse, ma ineluttabile nel lungo termine.
gmc

nina hagen

domenica 13 aprile 2008




















A Pippa

Abito bianco
per andare a nozze con la tua morte
e con quella di noi tutti
Ti sei vestita di bianco
ma siccome la tua anima mi sente
ti vorrei dire che la morte
non ha la faccia della violenza
ma che è come un sospiro di madre
che viene a prenderti dalla culla
con mano leggera
Non so cosa dirti
io non credo nella
bontà della gente
ho già sperimentato tanto dolore
ma è come se vedessi la mia anima
vestita a nozze
che scappa dal mondo
per non gridare

Alda Merini

giovedì 10 aprile 2008

il potere delle immagini

DAVID HOCKNEY - IL DECLINO DELLA CHIESA INIZIA CON LE MACCHINE FOTOGRAFICHE – NUOVA SVOLTA: DAI MASS MEDIA ALLE IMMAGINI DI MASSA: TUTTI POSSONO PRODURRE IMMAGINI - E CHI HA IL CONTROLLO DELLE IMMAGINI HA POTERE…

David Hockney per il “Corriere della Sera” (© Guardian News and Media - Traduzione di Maria Sepa)


David Hockney

Michael Curtis, uno dei fondatori di Hollywood, regista di Casablanca e di molti dei film avventurosi di Errol Flynn, racconta di aver avuto il suo primo assaggio di cinema verso il 1908, al Cafe New York di Budapest. Quel che l'aveva affascinato, ricorda, non era stato tanto il film, quanto il fatto che tutti stessero a guardarlo. Aveva capito che mentre a teatro o all'opera non vanno in molti, il cinema avrebbe avuto un richiamo di massa. Nel 1920 era a Hollywood, che allora rispetto a Budapest era un villaggio, ma in California c'erano i soldi, la luce e la tecnologia. Aveva visto giusto.

Andiamo indietro di 350 anni, ai tempi dello studioso napoletano Giambattista Della Porta, che pubblicò un libro, Magia naturalis, sulle proiezioni ottiche di oggetti naturali. Era un uomo del Rinascimento: scienziato e commediografo. Allestì spettacoli che impiegavano delle semplici proiezioni e la Chiesa lo portò dinanzi al tribunale dell'Inquisizione.
A quei tempi la Chiesa era l'unica a produrre immagini. Conosceva il loro potere e Della Porta doveva essersi reso conto, come Michael Curtis, di quanto fossero attraenti le proiezioni ottiche. Lo sono tuttora. La Chiesa controllava la società. Chi aveva il controllo delle immagini aveva potere. È ancora così. Il controllo sociale è stato legato alla lente e allo specchio per gran parte del Ventesimo secolo.

Ora il controllo sociale è esercitato dai cosiddetti mass media, non più dalla Chiesa, ma stiamo entrando in una nuova era, poiché la produzione e la distribuzione delle immagini sta cambiando. Tutti possono produrre e distribuire immagini con un telefono cellulare. Gli strumenti per farlo sono ovunque.


Non vi sono molte discussioni sulle immagini. Il loro ambito è separato da quello dell'arte, ma il potere sta nelle immagini, non nell'arte. Sorge un problema ovvio. Il mondo delle immagini pretende di essere in relazione con la realtà visibile (vedi il caso della televisione e del cinema), ma questa pretesa non è più sostenibile. Se non rifletteremo su questo punto saremo sempre più confusi.

Facciamo un esempio: il National Health Service britannico aveva pubblicato l'immagine di un ragazzo (o forse una ragazza) con un amo in bocca. Si trattava di una campagna contro il fumo e una scritta diceva, «Non abboccare». Ci furono proteste perché l'immagine, che veniva mostrata in televisione e alle fermate degli autobus, era scioccante. Dovettero toglierla. L'immagine sembrava una fotografia, e con questo intendo riferirmi a un evento verificatosi di fronte a una macchina fotografica in un dato momento e in un dato luogo. Se fosse stato davvero così, il fotografo avrebbe dovuto essere perseguito dalla legge — in Gran Bretagna mostrare un atto di crudeltà verso un essere umano è vietato, ma naturalmente si distingue tra pittura e fotografia: i quadri della crocifissione, infatti, sono «permessi».

Nessuno è stato denunciato. Perché? Perché nessuno ha creduto che il fatto fosse realmente accaduto. Era stato costruito al computer con un programma come Photoshop. Ci sono oggi persone perseguite per possesso di immagini. Ma come si fa a sapere se queste immagini hanno effettivamente a che fare con la realtà?

Il Parlamento discuterà della produzione di immagini, ma non di arte. Siamo in un periodo di confusione. Il declino della religione in Europa è considerato anche un riflesso della rivoluzione «scientifica». Ma io dubito sia così: penso piuttosto che abbia a che fare con le immagini. Il declino della Chiesa va di pari passo con la produzione di massa di macchine fotografiche. I due fenomeni sono profondamente collegati. In un recente viaggio in Italia ho notato che pochi italiani andavano nelle chiese per vedere immagini. Le vedono a casa, non fatte da Botticelli, ma da Berlusconi. Pensateci.


Dagospia 10 Aprile 2008

chi comanda in Alitalia

IN ALITALIA COMANDANO I SINDACATI (NEL 2005 SCIOPERI PER 496 ORE: 3 ORE OGNI 24)
GLI INCREDIBILI PRIVILEGI DI PILOTI E HOSTESS: VOLANO IN MEDIA 98 MINUTI AL GIORNO
IL TASSO DI EFFICIENZA PER DIPENDENTE È PARI A METÀ DI QUELLO DELLA LUFTHANSA


Vivono in un mondo a parte, dove tutto è dorato. Da sempre veri padroni dell'azienda, piloti e assistenti di volo si sono dati delle norme di lavoro consone al loro status (a proposito: i capintesta dei sindacati degli autisti dei cieli hanno una speciale indennità economica che percepiscono anche se se ne stanno incollati a terra tutto l'anno). Secondo il regolamento dell'Enac, dove è specificato che hanno diritto a riposare su poltrone con una reclinabilità superiore al 45% e munite di poggiapiedi regolabile in altezza, non devono volare più di cento ore nel corso del mese.

Anzi nei 28 giorni consecutivi, come hanno preferito scrivere: e si vede che per loro è sempre febbraio. Nell'intero anno, cioè nei dodici mesi (se non hanno modificato a loro uso e consumo pure il calendario) il tetto non è, come da calcolatrice, mille e 200 ore (100 per 12) ma 900, e vai a sapere perché. Nel contratto, che l'azienda si rifiuta di fornire ai giornalisti, come del resto qualunque altro dato sulla produttività dei dipendenti, l'orario però si riduce. Nel medio raggio, la barriera scende a 85 ore al mese. Che nel trimestre non diventano 255, ma 240. E nell'anno non arrivano, come l'aritmetica sembrerebbe suggerire, a mille e 20, ma a 900.

Ma non è neanche questo il punto: fosse vero che volano così tanto (tra gli assistenti di volo l'assenteismo è all'11%). I numeri tracciano un quadro un po' diverso e dicono che nel medio-corto raggio gli steward e le hostess (alla fine del 2007, 480 di queste ultime su 4300, cioè l'11%, erano praticamente fuori gioco perché in maternità o in permesso in base alla legge che consente di assistere familiari gravemente malati) restano tra le nuvole per non più di 595 ore l'anno. Vuol dire 98 minuti al giorno, il tempo che molti Cipputi impiegano per fare su e giù tra casa e fabbrica. A titolo di raffronto, un assistente di volo della Lufthansa vola 900 ore, uno della Iberia 850 e uno della portoghese Tap 810. Restando in Italia, una hostess di AirOne si fa le sue belle 680 ore.
I piloti, poi, alla cloche sembrano quasi allergici: la loro performance non va oltre le 566 ore, che significano 93 minuti al giorno. I loro pari grado riescono a pilotare per 720 ore all'Iberia, per 700 alla Lufthansa e all'AirOne, per 680 alla Tap e per 650 all'Air France. I nostri, insomma, non sono esattamente degli stakanovisti: in media fanno, tra nazionale e internazionale, 1,8 tratte al giorno, contro le 2,4-2,75 dei colleghi di AirOne. In compenso, sono molto più cari di tutti gli altri. Un assistente di volo con una certa anzianità può arrivare a costare ad Alitalia 86 mila e 533 euro, contro i 33 mila che deve mettere nel conto la compagnia di Toto (AirOne, ndr ).

Il comandante di un Md80 dell'azienda della Magliana ha un costo del lavoro annuo pari a 198 mila e 538 euro. Per la stessa figura professionale i concorrenti italiani non sborsano più di 145 mila euro. Sempre restando allo stesso tipo di aereo, per pagare il pilota Alitalia ha bisogno di 108 mila e 374 euro, tra i 28 e i 33 mila in più di AirOne o di un'altra azienda italiana. Il mix di orari da impiegati del catasto e stipendi da superprofessionisti crea un cocktail che risulterebbe micidiale per qualunque azienda: facendo due conti viene infatti fuori che alla fine dell'anno Alitalia spende per ogni ora volata da un suo comandante qualcosa come 350,8 euro. Contro i 207,1 di AirOne. Una differenza del 69,4% che manderebbe fuori mercato chiunque. Soprattutto se si considera anche che un aereo della ex compagnia di bandiera viaggia con un equipaggio superiore di un buon 30% rispetto alla media dei concorrenti.

Il risultato finale è che in Alitalia il tasso di efficienza per dipendente è pari, secondo i calcoli dell'Association of European Airlines, a poco più della metà di quello che può vantare la Lufthansa. Che i passeggeri trasportati sono 1.090 per dipendente, contro i 10 mila e 350 di Ryanair. E che nel 2004 il ricavo medio per ogni lavoratore impiegato non andava oltre i 199 mila euro, poco più di un terzo rispetto a quanto registrava ad esempio Ryanair (513 mila euro).

In Alitalia comandano i sindacati (che nel solo primo semestre del 2005 hanno proclamato scioperi per 496 ore: quasi 3 ore ogni 24). E si vede. Il contratto in vigore dal 1° gennaio 2004 dice che, nel medio raggio, una hostess o un pilota non possono essere utilizzati per più di 210 ore al mese (che, con il solito giochino, diventano 600 nel trimestre e 1.800 nell'anno). Ebbene, se uno di loro parte da Roma per andare a prendere servizio a Milano la metà della durata del viaggio che lo vedrà impegnato nelle parole crociate viene considerata servizio.

Francesco Mengozzi

La tabella dell'Enac che stabilisce, a seconda dell'orario di inizio del turno, su quante tratte continuative può essere impiegato il personale navigante prevede cinque diverse ipotesi. Che salgono a diciassette nell'accordo sottoscritto da azienda e sindacato. Dove è stabilito per il personale navigante il diritto a 33 giorni di riposo a trimestre (ad AirOne sono 30), che aumentano fino a 35 per chi è impegnato nel lungo raggio. In base al contratto, al termine di ogni volo deve essere garantito un riposo fisiologico di 13 ore, che sul lungo raggio deve risultare invece pari al numero dei fusi geografici attraversati moltiplicato per otto, con un minimo però di 24 ore. Boh.

Semplicemente geniale è poi il nuovo sistema retributivo, in vigore dal 1° gennaio 2005. Sono rimasti, ovviamente, lo stipendio base (quattordici mensilità) e l'indennità di volo minimo garantito: quaranta ore, che uno le faccia o meno. Le dieci voci che componevano la parte variabile della retribuzione di un pilota (compreso il cosiddetto «premio Bin Laden» corrisposto, dopo l'attentato alle Torri gemelle di New York, a tutti quelli che viaggiano in Medio Oriente e dintorni) sono state tutte sostituite da un'unica indennità di volo giornaliera (per un comandante è pari a 177 euro se è impegnato sul lungo raggio e a 164 se vola sul medio, cifre alle quali va sommata la diaria, che sono altri 42 euro, per un totale che può quindi arrivare a 219 euro). Indennità che scatta tutta intera anche se il pilota sta alla cloche solo per mezz'ora o semplicemente si trasferisce all'aeroporto da dove prenderà servizio. E perfino se il suo volo viene cancellato dopo che lui ha già raggiunto quello che doveva essere lo scalo d'imbarco. Per di più, aumenta se c'è uno spostamento dei turni rispetto al calendario originale.

Siccome poi lavorare stanca, il contratto prevede l'istituzione di una Banca dei riposi individuali dove confluiscono i crediti che si ottengono per esempio quando l'aereo viaggia con personale ridotto (un riposo ogni due giorni) e dalla quale hostess e piloti possono attingere pure degli anticipi. Non è invece dato sapere se le parti hanno raggiunto un accordo su una nuova indennità graziosamente prevista nell'ultima intesa: il premio di puntualità, che per i passeggeri assume davvero il sapore della beffa. Mentre è alla direttiva dell'Enac che bisogna tornare se si vuole conoscere la dettagliatissima disciplina della cosiddetta «riserva», i periodi di tempo nei quali il personale navigante deve essere pronto a rispondere a un'improvvisa chiamata.

Premesso che si può essere messi in riserva solo dopo aver goduto di un riposo, si stabilisce che la metà del tempo trascorso a casa con le pantofole ai piedi va considerata come servizio. Bingo. Di più: che se l'attesa si consuma inutilmente perché il telefono non trilla, e dev'essere proprio per lo stress, scatta un successivo periodo di riposo di almeno otto ore, che in alcuni casi salgono a dodici. Ed è sempre il premuroso Enac a stabilire che a piloti e hostess, una volta a bordo, deve essere dato da mangiare una volta ogni sei ore, come ai pupi, e adeguatamente, «in modo da evitare decrementi nelle prestazioni».

Di alcuni privilegi o istituti incomprensibili nessuno ricorda neanche l'esatta origine. Ci sono e basta. Così, le hostess continuano ad avere una franchigia di ventiquattr'ore al mese, che in pura teoria dovrebbe coincidere con l'inizio del ciclo mestruale, ma si racconta del caso di una di loro che ha chiesto la giornata del 31 come permesso per il mese di dicembre e quella del 1° per il mese di gennaio: misteri del corpo femminile. Sempre le assistenti di volo, quando vanno in maternità vengono retribuite per tutto il tempo con lo stesso stipendio guadagnato nell'ultimo mese di servizio, che, guarda un po', svolgono regolarmente sul lungo raggio, per far salire l'importo della busta paga. I piloti, invece, non possono atterrare due volte nello stesso scalo in un solo giorno. La logica della regola, che pare non sia neanche scritta ma frutto della consuetudine, è imperscrutabile.

L'aereoporto di Fiumicino

La conseguenza, però, è chiara: la crescita delle spese per le trasferte. A partire da quelle per gli alberghi, che in Alitalia vengono scelti da un'apposita commissione dopo attento esame dei loro requisiti: con il risultato che l'importo medio è superiore del 45% a quello sostenuto dagli altri vettori. Solo per le 300 stanze prenotate tutto l'anno per i dipendenti che, anziché essere trasferiti a Malpensa, vanno su e giù da Roma, la compagnia ha in bilancio 45 milioni. Nella babele dei benefit, per un certo periodo tutto il personale viaggiante ha poi goduto di una speciale indennità per l'assenza del lettino a bordo di alcuni 767-300: alcune centinaia di euro che venivano corrisposte anche a chi volava su aerei dotati delle cuccette in questione.

I lavoratori più coccolati d'Italia quando viaggiano per piacere godono di una politica di sconti davvero generosa. Argomento sul quale l'azienda ha di nuovo una tale coda di paglia da rifiutarsi di fornire chiarimenti. Ma è il segreto di Pulcinella: i dipendenti (e con loro i pensionati) hanno diritto ad acquistare (anche per i loro cari: figli e coniugi o conviventi) i biglietti con una riduzione del 90% sulla tariffa piena, se rinunciano al diritto alla prenotazione. Il taglio scende invece al 50% se vogliono il posto garantito, magari perché vanno a festeggiare l'ultima promozione, che in Alitalia non si nega davvero a nessuno. Nel 2007 la direzione per la finanza dell'azienda della Magliana poteva contare su 152 persone: 20 dirigenti, 52 quadri e 80 impiegati. In quella per il personale i soldati semplici (61) prevalevano di una sola unità sui graduati (60: 25 dirigenti e 35 quadri).

Dev'essere anche per questo che il consiglio di amministrazione dell'azienda ha sentito la necessità di garantirsi l'ombrello di una polizza assicurativa a copertura di possibili azioni di responsabilità nei confronti di chi ha guidato la baracca. E si è reso così complice dei sindacati. Ai quali invece nessuno potrà mai presentare il conto.


Dagospia 09 Aprile 2008

mercoledì 9 aprile 2008

l'altra casta

CGIL, CISL, UIL: L’ESERCITO DEGLI INTOCCABILI CHE CI COSTA QUASI 2 MILIARDI DI EURO
UN LIBRO-BOMBA METTE IL DITO SU UNA PIAGA PIÙ PURULENTA DI QUELLA DEI PARTITI
QUALE PARTITO PUÒ SPENDERE QUANTO LA CGIL: 50 MLN € PER UN CORTEO A ROMA?


Una casta all’ombra dei suoi consolidati privilegi s’aggira per l’Italia, aprendo e chiudendo trattative sulla pelle ormai lisa dei lavoratori, oltre che dei contribuenti. E nel paese bollito in sacche di spreco, gonfie di fatturati miliardari e bilanci segreti, mentre lo Stato paga i settecentomila delegati (sei volte di più dei Carabinieri), che a noi costano 1 miliardo e 845mila euro l’anno, esce un libro, ustionante come acido muriatico negli occhi della Triplice.

S’intitola «L’altra casta. Privilegi. Carriere. Stipendi. Fatturati da Multinazionale. L’inchiesta sul sindacato» (da domani in libreria, con lancio da strenna natalizia) il documentato volume Bompiani di Stefano Livadiotti, firma del settimanale «L’Espresso», che in 236 pagine (prezzo 15 euro) mette il dito su una piaga purulenta quanto quella dei partiti. Contrordine, compagni, dopo che Diliberto ha ceduto il proprio posto in lista a un operaio della Thyssen, intanto che il suo vecchio sodale Cossutta lo accusa di «plebeismo demagogico»?

Ma sì, è ora, è ora: potere a chi lavora. Sul serio, però, non come i membri dell’altra casta, quella sindacale, i cui permessi equivalgono a un milione di giorni lavorativi al mese, costando al nostro sistema 1 miliardo e 854 milioni di euro l’anno. E c’è da giurarci che il trio di sigle si arrabbierà parecchio leggendo l’impressionante dossier, proprio mentre cerca di sopravvivere a se stesso, magari sulle carcasse di Alitalia.

Lo strapotere delle tre grandi centrali confederali, Cgil, Cisl e Uil, è nell’occhio del ciclone da un ventennio, tanto che, in base ai sondaggi, un italiano su venti si sente pienamente rappresentato dalle sigle sindacali e meno di uno su dieci dichiara di averne fiducia. Difficile affidarsi ai sindacati, che promettono bilanci consolidati, salvo poi evitare di trasferirli nero su bianco.

Il radicale Daniele Capezzone
© Foto U.Pizzi

Ma in che modo l’altra casta è diventata intoccabile, quando anche i sassi sanno che se c’è un problema di costi della politica, esso riguarda pure il sindacato, teso a intimidire la collettività con la propria capacità di mobilitazione? «Il giro d’affari di Cgil, Cisl e Uil ammonta a 3.500 miliardi di vecchie lire e il nostro è un calcolo al ribasso», avvertiva nel 2002 il radicale Capezzone.
Se del Quirinale si sa che spende il quadruplo di Buckingham Palace, fare i conti in tasca all’altra casta, lardellata di un organico di 20mila dipendenti, è questione controversa, tanto diversificate risultano le sue fonti di guadagno. La slot machine più veloce coincide con le quote versate dagli iscritti: l’1 per cento della paga-base. E i pensionati? Fruttano circa 40 euro l’anno, che però fanno brodo, nel sostituto d’incasso complessivo: 1 miliardo l’anno.
All’erogazione di liquidità, poi, pensano le aziende, con le trattenute in busta paga ed ecco bypassato il costo dell’esazione. E i soliti pensionati, visto che anche la miseria è un’eredità? Provvedono gli enti di previdenza: nel 2006 l’Inps ha girato 110 milioni alla Cgil, 70 alla Cisl e 18 alla Uil. Eppure, nel 1995 Marco Pannella promosse un referendum per abolire l’automatismo della trattenuta in busta paga, regalino vintage (del 1970) dello Statuto dei lavoratori. Nonostante gli italiani abbiano votato a favore, il meccanismo fu salvato comunque dai contratti collettivi.

Quanto al rinnovo periodico della delega, per il cui tramite il pensionato autorizza l’ente previdenziale a trattenersi una quota sulla sua pensione, si è fatto in modo d’insabbiare l’emendamento al decreto Bersani (presentato da Fi), che rompeva le uova nel paniere sindacale. E siccome i pensionati sono poveri, ma tanti, è nei loro gruzzoli che si ficcano i Caf, quei centri di assistenza fiscale, trasformati in business per il sindacato. Gli enti previdenziali, infatti, pagano per le dichiarazioni dei redditi dei pensionati: nel 2006 l’Inps ha travasato ai 74 Caf convenzionati 120 milioni.

Il leader della Cgil Guglielmo Epifani con la moglie Giusy
© Foto U.Pizzi

Così Cgil, Cisl e Uil, unite, hanno incassato 90 milioni circa. Invano la Corte di giustizia europea, persuasa che il monopolio dei Caf violasse i trattati comunitari, tre anni fa mise in mora l’Italia, con qualche lettera di richiamo. Ma se i bramini dei Caf vanno sotto schiaffo, quelli dei patronati, le strutture d’assistenza ai cittadini per le pratiche previdenziali, la cassa-integrazione e i sussidi di disoccupazione, non si toccano. E si estendono dall’Africa al Nordamerica, per tacere dell’Australia, con conseguente sospetto che svolgano un ruolo attivo nel pilotare il voto degli italiani all’estero.



Nel 2006, l’Inps ha speso 248 milioni, 914mila e 211 euro tra Inca-Cgil, Inas-Cisl e Ital-Uil. Altro business in cui affondare le mani, è quello della formazione. Ogni anno, l’Europa manda in Italia 1 miliardo e mezzo di euro, per la formazione professionale. E 10 dei 14 enti, che annualmente si spartiscono metà dei finanziamenti nazionali, sono partecipati da Cgil, Cisl e Uil.

Ma la vera forza dell’altra casta viene dai beni immobili, patrimonio sterminato, tutto da dissotterrare, mentre la Cgil conta 3mila sedi in Italia, di proprietà delle strutture territoriali; la Cisl, 5mila e la Uil concentra gli investimenti sul mattone in una società per azioni, controllata al cento per cento dalla Labour Uil, con 35 milioni e 25mila euro di immobili in bilancio. Va da sé che gli inquilini Vip di tanto bendiddio abitativo sono loro, i vecchi mandarini con un piede nella jacuzzi ai Parioli a un altro sulla pista di Fiumicino.

2 – “SONO PIÙ RICCHI E POTENTI DEI PARLAMENTARI”…
Mariateresa Conti per “Il Giornale”


Stefano Livadiotti, leggere il suo libro inchiesta mette i brividi. Chi fa più danni, la casta della politica o quella dei sindacati?
«Beh, il sindacato danni ne ha fatti eccome, pensiamo a come è stata gestita la vicenda Alitalia. Voglio però precisare una cosa: il mio non è un libro contro il sindacato come istituzione ma contro la sua degenerazione, la sua incapacità di rappresentare gli interessi degli iscritti. Non è un caso che tutti i sondaggi, che io cito nel primo capitolo, mettano in evidenza proprio il rigetto della base».

Bonanni allo stadio Olimpico con la moglie
© Foto U.Pizzi

Quale delle due caste ha maggior peso?
«Quella del sindacato, non c’è dubbio, è più ricca e potente di quella della politica. Lo è per numeri - i delegati sono ben 700 mila - e anche per ricchezza. Quale partito può permettersi di spendere oltre 50 milioni di euro per portare in piazza i propri iscritti, come ha fatto la Cgil nel 2002 con il corteo a Roma in difesa dell’articolo 18?».

E per garantirsi i privilegi le due caste si aiutano...
«C’è un calcolo nel libro: i parlamentari che hanno alle spalle un’esperienza nel sindacato, se si mettessero insieme, sarebbero il terzo gruppo sia alla Camera sia al Senato. Ovvio che poi facciano quadrato per garantire i privilegi, come la mancanza di controlli».

Come è nato questo libro?
«Quasi per caso. Non sono un esperto di sindacato, ho curato l’estate scorsa l’inchiesta de L’Espresso e mi sono accostato a questo mondo».

È possibile scardinare questo sistema?
«Non credo, o comunque ci vorrà tempo. È un problema di mentalità che va cambiata».


Dagospia 08 Aprile 2008

domenica 6 aprile 2008

negozi come piattafrome semiotiche

dal CORRIERE ONLINE

L'Antitrust apre i negozi di domenica
E divide le signore dello shopping

Bocciate le multe di Pasquetta a Roma. «I divieti nei giorni di festa riducono la concorrenza»

Shopping a Milano
MILANO
— Se non è una svolta culturale, poco ci manca. Negozi aperti anche la domenica, shopping libero nei giorni festivi: l'Antitrust scende in campo e mette nero su bianco la rotta da seguire nella sempiterna querelle tra il partito della serranda chiusa e quello del «carrello selvaggio». L'occasione: una segnalazione inviata dall'Autorità al Comune di Roma, «reo» di aver multato i negozi rimasti aperti a Pasquetta. Un messaggio senza sfumature: «I divieti all'apertura nei giorni di festa creano una restrizione ingiustificata della concorrenza», sono «un ostacolo » all'«ampliamento dell'offerta».

Ricorda, l'Antitrust, come da 10 anni l'apertura sia liberalizzata nei Comuni «ad economia prevalentemente turistica e nelle città d'arte»; chiede il riesame dell'ordinanza; annuncia un monitoraggio nazionale. È, in qualche modo, la fine di un'epoca. Perché se è vero che l'Antitrust non può dettare legge né imporre sanzioni, il peso del suo richiamo crea un precedente; per i commercianti, potrebbe diventare un'arma contro le scelte dei Comuni. E se la Chiesa ribadisce il suo no («Un attentato a Dio», così l'arcivescovo di Pompei Carlo Liberati), in molti tirano un sospiro di sollievo. «Per me lo shopping settimanale è un problema, certo con le aperture nei festivi...».

La lettura di Patrizia Grieco, ad di Value Team, è semplice e diretta: ormai i tempi del lavoro si sono talmente dilatati da ingoiare perfino quei frammenti dell'agenda in cui era ancora possibile «strizzare » spesa e passaggio in tintoria. «La maggior parte delle persone risolve passando molto tempo nei centri commerciali; ma io preferirei vederle in strada, dove oltre alle vetrine ci si può imbattere in una chiesa, un museo...». Negozi aperti la domenica uguale recupero della piazza, è la teoria della manager. Giampaolo Fabris, sociologo dei consumi, traduce in linguaggio accademico: «I negozi stanno diventando piattaforme semiotiche e relazionali. E in una città da cui sono scomparsi gli spazi pubblici, aprirli nei giorni di festa è ridare centralità ai "non-luoghi" metropolitani». Questione di spazi, ma anche di tempi: «Il consumatore online èabituato a fare acquisti ad ogni ora, che senso ha un negozio di scarpe aperto dalle 9 alle 12?». Domanda retorica, cui Fabris risponde con una parola sola: «Anacronismo». E non sarà bello guardare sempre l'erba del vicino, ma dei suoi soggiorni londinesi Giorgia Surina, attrice ed ex veejay di Mtv, ricorda con nostalgia i supermarket aperti 24 ore su 24. «Il mio tempo libero è quando gli altri riposano; ma vorrei poter vivere lo stesso la mia città, senza vederla spenta. E perché non impiegare, di notte o nei festivi, chi è a casa senza lavoro?». La risposta arriva da Claudia Buccellati, gioielliera e presidente dell'Associazione della Via Montenapoleone: «Il problema sono gli straordinari e, di notte, la sicurezza. Piuttosto si potrebbe ipotizzare un'apertura serale "per quartieri", una volta alla settimana».