lunedì 26 maggio 2008

video marta

VideoMarta, a lezioni di Internet sul blog
E la 19enne torinese diventa web-celebrity

Dopo l'enorme successo online (tre milioni di contatti) la giovane esperta informatica debutta in tv su «Yks»

Nella sua cameretta, con i piedi nudi e i capelli sciolti, Marta parla. E dispensa pillole di saggezza tecnologiche, semplici come le ricette della nonna. Volete sapere come aprire un blog? O come si può telefonare usando il computer? Ancora: vorreste tanto realizzare un video e non sapete come? Ve lo spiega Marta. E lo ha spiegato così tanto e così bene questa diciannovenne torinese che sono bastati pochi mesi perché il suo video-blog (VideoMarta appunto) toccasse picchi da record: tre milioni di contatti. Roba da far montare la testa. Roba da scatenare i "cacciatori" della Rete. Che, infatti, hanno catturato VideoMarta e lo hanno portato dritto dritto in tv: debutterà a giorni su «Yks», il canale video interamente realizzato con i filmati prodotti e inviati dal pubblico. «Yks» si può vedere su Sky (canale 863), ma anche sul web ed è da fine aprile che questo canale video ha cominciato a trasmettere con il palinsesto "user generated". E ha puntato tutto sulla net-generation. Ovvero: su quei giovani di un'età compresa tra i 18 e i 35 anni, nella maggior parte nati quando il mondo era stato già cambiato dalla Rete.

Come Marta, appunto. Che mica si chiama Marta, alla fine: come tutte le web-celebrities la giovane ragazza di Torino ha celato la sua identità dietro un alias. E non ci pensa affatto a svelarla, l’identità: questione di privacy, sicurezza. Tranquillità. Tre milioni di contatti non sono certo uno scherzo. E vi immaginate se anche soltanto un decimo di questi decidesse di contattare nella realtà la giovane star tecnologica? Niente da fare: Marta rimane un'immagine. Promossa dal web alla tv, ma sempre lei: con la sua faccetta pulita e le parole semplici semplici vi metterà in grado di trovare le alternative a Ms Office, ma anche ad usare i file sharing &P2P e comunque: tutto quello che avreste voluto sapere sul web ma non avete mai osato studiare.

venerdì 23 maggio 2008

falce e carrello: l'imperio delle coop

DIRITTO & ROVESCIO
Da “Italia Oggi” - Le cifre, nella loro secca espressività, parlano più di tanti discorsi. L'Esselunga, per esempio, nel bilancio 2007, ha presentato un fatturato in aumento del 9,1% (a 5,3 miliardi di euro) ma un utile in ribasso del 27% a causa soprattutto di una smodata imposizione fiscale che è superiore al 60%.

Nel 2006, il fatturato della Coop era stato di 7 miliardi contro i 4,9 miliardi dell'Esselunga. Nonostante quindi che il fatturato della Coop fosse stato di molto superiore a quello dell'Esselunga, quest'ultima ha pagato di tasse 152 milioni di euro, cioè più del doppio di ciò che aveva pagato la Coop (70 milioni). Non si vede perché attività economiche simili debbano essere tassate in modo così difforme.

sabato 17 maggio 2008

rai: moloch insaziabile

SPRECHE-RAI O NO? - L’“ESPRESSO” ATTACCA: ECCO LE CIFRE CHE DIMOSTRANO LA SCANDALOSA GESTIONE DELLA TV PUBBLICA – LA RAI RISPONDE: QUADRO DISTORTO, MANIPOLAZIONE DI GRUPPI EDITORIALI CONCORRENTI…



Centoquattordici parrucchieri, 67 camerinisti, 66 arredatori, 61 falegnami, 18 costumisti, 12 meccanici, 34 consulenti musicali, 36 scenografi, un'orchestra leggera di 16 elementi (indipendente da quella sinfonica della Rai di Torino con 116 musicisti) che non viene utilizzata da anni. Più o meno 400 unità, retaggio dei decenni del monopolio (i formidabili anni 1950-80, quando la Rai realizzava tutto al suo interno) e che già da sole equivalgono all'intero organico di La 7-Mtv.

Sono esempi limite del mare magnum della popolazione Rai. Messa sotto esame da un Comitato istruttorio per l'Amministrazione ultimato un mese fa, che rivela nero su bianco e in modo riservato lo stato dell'arte sulla 'Situazione dell'organico del gruppo Rai'. Con una raccomandazione pesante, senza troppi giri di parole: verificare addirittura "la capacità dei 'capi' di governare uomini e processi produttivi".

Tra contratti a tempo indeterminato (9.889 per la capogruppo, 11.250 in totale) e contratti a tempo determinato per esigenze di produzione e di gestione (1.998 in tutto), la cittadella Rai arriva a 13 mila e 248 abitanti. Quanto gli abitanti di Lavagna. Il doppio di quelli di Asolo. La metà di quelli di Enna. Senza considerare la montagna dei 43 mila contratti di collaborazione (da quello a Bruno Vespa all'ultimo figurante).

Più che un rapporto, è un vero e proprio censimento Rai. Una radiografia aritmetica della stratificazione elefantiaca della televisione di Stato, gravata da anni di blocchi, clientelismi, raccomandazioni. Un minuzioso elenco che snida figure antropologiche-spot, presenti, non si sa perché, soltanto in alcune sedi: un geometra, ma solo a Firenze; cinque annunciatori tra Bolzano, che ne ha tre, e Trieste, che ne ha due.

E che mette in luce il 'peso' di alcune aree significative. Ventotto addetti alla segreteria del consiglio d'amministrazione, 49 alla Direzione generale (compresi i distaccati verso società del gruppo), 397 ai Servizi generali, 114 alla Pianificazione controllo, 142 all'Amministrazione e 133 all'Amministrazione e Abbonamenti, 679 alle Riprese pesanti, 252 alle Risorse umane con ben 21 alti dirigenti. Lo studio ci va giù duro: "Abnorme il numero delle strutture a diretto riporto dal Vertice. Duplicazioni di attività. Onerosa rete di controllo formale sulla cui efficacia è legittimo nutrire più di un dubbio. Eccessiva polverizzazione delle testate giornalistiche che non ha confronto con gli altri servizi pubblici europei".

Un organico monstre che, tra contratti a tempo indeterminato e determinato, abbraccia 1.771 giornalisti (di cui 54 sono vice direttori, quasi cinque per ognuna delle 11 testate), 931 programmisti-registi, 76 aiuti registi, 476 assistenti ai programmi. Solo la somma dei dipendenti di Rai Way, gestore degli impianti tv e radio (nata nel 2000, ha 648 addetti) e Sipra, la concessionaria di pubblicità, supera il migliaio di persone (1.405).

Dislocate nel territorio, 22 squadre di riprese: un numero, si legge nel rapporto, che non ha pari in nessun broadcaster pubblico o privato in Europa. Non solo. Sempre più di frequente, notano gli analisti, le reti e le direzioni editoriali chiedono di assoldare e contrattualizzare altre società per l'acquisizione e la realizzazione di appalti. Nel 2007, secondo Cgil, i costi esterni sono arrivati a 1.327 milioni. Il Gran Moloch della tv pubblica non si sazia mai.

La nomenklatura radiofonica, programmi, Gr e Gr Parlamento, vale 754 anime. Rai Internazionale, ex International, diretta dal prodiano Piero Badaloni, successore del camerata Massimo Magliaro, ha 39 giornalisti assunti (e quasi altrettanti a tempo determinato), di cui ben 22 sono graduati e cinque hanno qualifica e stipendio di vice direttori. La rete 'dovrebbe' trasmettere il meglio dei programmi Rai nel mondo. Ma si pregia, invece, del record di proteste degli italiani residenti all'estero, inviperiti per l'impiego di materiale vecchio come il cucco.

Persino a Capodanno, momento sacro anche per emigranti di lunga data, avidi di seguire i festeggiamenti in patria, il buon Badaloni e la sua squadra, evidentemente impegnati a stappare champagne altrove, hanno mandato in onda una vetusta registrazione, mantenendo così lo standard tradizionale di corale indignazione degli italioti in esilio. Eppure la rete vanta un organico di tutto rispetto: ben 152 persone. Quanto RaiDue (153). Poco meno di RaiTre (166). Un numero sorprendente visto che RaiUno, dicasi RaiUno, l'ammiraglia di viale Mazzini, ne ha 206.

Anche Rai News 24 diretta da Corradino Mineo non scherza con il suo organigramma di 122 persone, di cui 94 giornalisti. Solo dieci in meno di quelli del Tg5 di Mediaset. Il canale satellitare allnews rappresenta una risorsa nevralgica, anche per il futuro digitale. Ma lo share non brilla e nella sfida con l'aggressivo Tg24 di Sky (39 edizioni di telegiornali giornalieri seguitissimi, 141 giornalisti), in progressivo boom di ascolti, arranca.

Anche nel paragone con gli altri tg, dove la stratificazione di personale è già degna di nota, come il Tg3 (104 giornalisti, in tutto 140 persone) o il Tg2 (126 giornalisti su 167 addetti), la squadra di Mineo appare più che consistente. Persino il Confronto dei confronti, cioè quello con la testata diretta da Gianni Riotta, la dice lunga. Il Tg1, primo telegiornale d'Italia, conta 136 giornalisti (su un totale di 180 persone). Solo 40 in più di Rai news.

Per non parlare dell'organico del Televideo firmato da Antonio Bagnardi: 96 persone a disposizione di cui 49 giornalisti. O di quello di Rai Parlamento, palma di platino per la più alta densità di graduati. Il direttore Giuliana Del Bufalo può pavoneggiarsi: su una squadra di 46 addetti, 26 sono giornalisti, e di questi, cinque sono capi redattori, tre vice, cinque capiservizio e altrettanti vice direttori. Uno di loro, l'ultimo arrivato, si fa per dire, è stato Giorgio Giovanetti, ex assistente di Angelo Maria Petroni, consigliere Rai in quota Forza Italia, alla sua prima nomina operativa grazie a Del Bufalo. E poi si favoleggia che le donne in carriera siano delle iene.

Il dettagliatissimo rapporto dimostra come nonostante i prepensionamenti a tutti i livelli, il popolo Rai non accenni a diminuire. Per forza. La televisione di Stato continua a essere sotto lo scacco della politica e dei partiti, che a ogni cambio di Palazzo Chigi si precipitano a chiedere le teste di direttori (e così giù per li rami) per inserire innesti nuovi, più organici all'ennesima colonizzazione. Difficile credere che la nuova classe al governo, di cui una buona parte bisognosa di farsi conoscere, possa fare a meno del potere esercitato sulla Rai (basti pensare a un partito radicato nel territorio come la Lega).

E rinunciare all'influenza sui tg regionali, fondamentali postazioni per favori, clientele, assunzioni. I dati della Tgr diretta da Angela Buttiglione sono quasi pulp: 851 persone di cui 689 giornalisti. E il Coordinamento delle sedi regionali (che non si occupa dei centri di produzione sparsi per il paese) conta 656 dipendenti. È vero che la Rai è obbligata a dare voce alle 21 regioni, come notano a viale Mazzini. Ma 1.507 addetti rappresentano un numero più che pulp. Addirittura post-moderno.


Lo studio è il manifesto numerico di un modello politico e ideologico. Il piano industriale presentato dall'attuale Direzione generale aveva definito economie, tagli e prepensionamenti. Ma il Gran Moloch Rai ha reagito immediatamente. Il fenomenale format organizzativo del carrozzone è arduo da cambiare. Difficile modificare un giacimento di Stato, aureo per i partiti, alimentato pure dal lascito feudale di poter tramandare il proprio posto fisso ai diletti parenti.

Anche le molte cause di lavoro perse fanno la loro parte: mille quelle in corso, 100 mila euro il costo medio di ognuna, 150 circa l'anno quelle in cui la Rai viene sconfitta (15 milioni di euro circa tra avvocati e risarcimenti). Motivi? Soprattutto il reintegro delle funzioni, (prima causa, gli strali politici) e i riconoscimenti del lavoro precario, vero motore propulsivo e produttivo dell'azienda che deve a questa forza buona parte della messa in onda dei programmi.

Eppure la Direzione produzione Rai conta 3 mila 851 persone. Una cifra da sballo. Un numero da capogiro visto che è quasi pari al totale dei dipendenti del Gruppo Mediaset. Infatti, la forza lavoro del Biscione berlusconiano arriva a 4 mila e 635 unità, di cui 4 mila e 506 a tempo indeterminato. Nonostante la mole del personale (che, secondo le previsioni, entro il 2009, è destinato ad aumentare di altre 1732 unità, se non ci saranno nuove soluzioni gestionali e sindacali), il 22 per cento delle produzioni della televisione di Stato è affidato all'esterno.

Nelle conclusioni, gli analisti sottolineano come, nel mercato della comunicazione, il servizio pubblico si giustifichi soltanto se è produttore di contenuti. E se riesce a far crescere al suo interno dei centri di eccellenza creativa. E insistono nella necessità di una pianificazione strategica con regole aziendali rigide "che impongano alle direzioni editoriali di saturare prioritariamente le risorse interne. E di verificare, vista la significativa dimensione d'organico, con una doverosa, attenta ricognizione, la loro affidabilità professionale e la capacità dei 'capi', a ogni livello di responsabilità, di governare uomini e processi produttivi".

Un bel fendente ai vertici passati, presenti e futuri. Ma sarà improbabile che i dirigenti che arriveranno, benedetti dalla neo maggioranza al governo, seguano questa direttiva. Anche per loro, la Rai sarà terra di conquista, di promozioni, di poltrone da moltiplicare. Con buona pace di centinaia di precari, da anni in attesa di una sanatoria meritoria, alcuni con decenni di prestazioni. Ora devono fronteggiare anche il blocco dei contratti predisposto dall'azienda e causato della nuova disciplina del lavoro sui contratti a termine.

Le norme prevedono l'assunzione a tempo indeterminato per chi abbia superato i 36 mesi di impiego, comprensivi di proroghe e rinnovi (prima gli intervalli tra un contratto e l'altro la evitavano). Il 31 dicembre 2007, mille e 185 unità, tra quadri, impiegati e operai avevano già maturato i tre anni. A fine febbraio 2008, invece, avevano toccato il traguardo 162 giornalisti. I precari, forza non fannullona, che fa il lavoro di centinaia e centinaia di dipendenti della tv pubblica, minacciano scioperi che potrebbero davvero bloccare una parte significativa dei palinsesti. Ma, visto l’organigramma dell’azienda, per loro c’è poco da sperare. Per potenti e raccomandati, c’è sempre mamma Rai. Per gli altri, la Rai è solo matrigna.

venerdì 16 maggio 2008

nani da giardino

Tornano in azione i ladri di nani da giardino:
fermati due studenti a Trento

Un nano da giardino

TRENTO (15 maggio) - I ladri di nanetti da giardino tornano in azione. La scorsa notte due studenti di 18 e 20 anni sono stati bloccati dai carabinieri nei pressi di Bosentino, Trento, e denunciati per furto. Avevano appena rubato due nani dai giardini di due abitazioni a Vattaro e Vigolo Vattaro. Probabilmente i due ragazzi hanno voluto emulare gli autori di altri analoghi colpi effettuati in Trentino alcuni anni fa. Da quel momento in Italia si parla un "Fronte di liberazione dei nani e degli gnomi".

Il movimento sostiene che i nani, essendo creature nate nei boschi, soffrano enormemente nel dover vivere intrappolati nei giardini, costretti a sorridere. Devono quindi essere liberati. Soltanto nel loro habitat naturale le loro anime possono essere libere. La tradizione vuole che i nani ricambino la ritrovata gioia portando fortuna al loro liberatore.

Il movimento esiste realmente ed è nato in Francia intorno alla metà degli anni novanta. Si è poi espanso sempre di più, oltrepassando anche i confini ed approdando anche in Italia con il nome di Movimento autonomo per la liberazione delle anime dai giardini.

Esiste anche un movimento volto all'eliminazione di questi nani, il Fronte per L'Olocausto dei nani, sorto in Germania. Spesso sono protagonisti di atti clamorosi, quali ad esempio il sequestro, la decapitazione e l'esposizione pubblica dei nani rapiti.

giovedì 15 maggio 2008

donne della Factory


Le donne della Factory di Warhol per il Biografilm Festival

DIECI donne che hanno animato la famosa "Factory" di Andy Warhol e la scena culturale della New York anni '80 diventano il volto dell'edizione 2008 del Biografilm Festival, in programma a Bologna dall'11 giugno. Immortalate dal fotografo Edo Bertoglio sul tetto del suo loft a Broadway, sono il soggetto della mostra «New York Figurines 1978-82. All the world around Warhol» che occuperà dodici grandi spazi pubblicitari per le vie di Bologna, ma già da oggi presentata in anteprima al Chinese Teather all'interno del Mambo. Tra le dive della Grande Mela ci sono Maripol, la creatrice dei primi gioielli in gomma di Madonna, Deborah Harry, cantante dei Blondie, Robin Wright Penn, Anna Sui son. Informazioni sulle location della mostra: www.biografilm.it o, da fine maggio, inviando un sms al numero Vodafone 3404399051.

venerdì 9 maggio 2008

la scomparsa di Malerba

Aveva 81 anni. Il decesso a Roma. Grande sperimentatore di linguaggi
Tra le sue opere: "Il serpente", "Salto mortale", "Itaca per sempre"

E' morto lo scrittore Luigi Malerba
maestro di realtà deformate

di PAOLO MAURI


E' morto lo scrittore Luigi Malerba
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Luigi Malerba

ROMA - Luigi Malerba si è spento questa notte nella sua casa di Roma: era nato a Berceto (Parma) nel novembre del 1927. Era uno dei più grandi scrittori italiani contemporanei.

L'esordio risale al 1963, con la raccolta di racconti 'La scoperta dell'alfabeto'. Tra le sue opere i romanzi 'Il serpente', 'Salto mortale', 'Il pianeta azzurro', 'Fuoco greco', 'Le maschere'. I funerali si celebreranno domani alle 12 in Piazza del Popolo nella chiesa di Santa Maria dei Miracoli.

Quando gli chiedevano qual è il tuo personaggio preferito rispondeva senza dubbio don Chisciotte e certo la lezione di Cervantes, il gioco paradossale che vede la realtà deformarsi a dismisura e forse è a dismisura deformata, ha sempre agito nella sua scrittura da quando esordì con i racconti della "Scoperta dell'alfabeto" nel lontano 1963.

Malerba si muoveva nell'ambito della neoavanguardia: gli piaceva l'idea che qualcuno rovesciasse i tavoli delle vecchie discussioni e azzardasse prove nuove, sperimentali. Così con i romanzi "Il serpente" e "Salto mortale" cominciò a giocare sul filo del paradosso, con indagini che non portano a nulla, eroi partoriti dalla mente dello scrittore e fatti vivere sulla pagina salvo poi svelare il trucco e un linguaggio nuovo , assolutamente originale.

Avrebbe poi continuato , di romanzo in romanzo, rinnovandosi continuamente nei temi e nei modi (citiamo "Il pataffio", "Itaca per sempre", "Le maschere"e l'ultimo, "Fantasmi romani"). Ha dedicato, tra i tanti, anche un libro alle "Parole abbandonate", cioè alle parole del lessico contadino cadute in disuso con l'abbandono delle campagne. Lo stesso tema che anima il suo libro d'esordio, "La scoperta dell'alfabeto".

le sorelle Poubelles


domenica 4 maggio 2008

cielo di francia


© Giovanni Caviezel

Il caso Visco e l'ira della Guardia di Finanza

Da "Il Giornale" online

Nel giorno in cui la procura di Roma apre un’inchiesta per violazione della privacy e fa sapere che sarà perseguito (rischiando tre anni di carcere) chiunque userà i dati relativi alle dichiarazioni dei redditi sottratti dal sito dell’Agenzia delle Entrate «facendone un uso proprio», esplode l’ira della Guardia di finanza. Dopo il durissimo affondo dell’ex comandante generale Roberto Speciale, tocca al Cocer della Gdf attaccare Vincenzo Visco per la divulgazione on line degli elenchi dei contribuenti. Se Speciale si era soffermato sulla denuncia-flop del viceministro dell’Economia per gli accessi all’anagrafe tributaria finalizzati a spiare i redditi dei coniugi Prodi, «denuncia fatta nella convinzione che dietro ci fossero i miei finanzieri», il Cocer delle Fiamme gialle va oltre. Sollevando tre questioni: la follia della pubblicazione di dati sensibili, l’asse di ferro tra gli uffici di via XX Settembre e l’Agenzia delle entrate, la strisciante campagna ordita dal governo per incastrare 28 colleghi sospettati d’aver fatto le pulci al premier, finanzieri perquisiti, indagati, interrogati, sospesi dal servizio, sottoposti a procedimenti disciplinari. E alla fine, prosciolti perché il fatto non sussiste.
Tra i delegati del Cocer dei baschi verdi, non tira una bella aria. Il primo a sparare bordate è il «sindacalista» Salvatore Trinks: «Le iniziative di Visco si commentano da sole, specie da quando ha stretto un patto d’acciaio con l’Agenzia delle entrate», diventata una sorta di braccio armato del viceministro. «Visco e l’Agenzia sono legate da un ferreo cordone ombelicale», e i segnali più inquietanti si sono appalesati «allorché la Gdf venne incredibilmente tagliata fuori dagli accertamenti sugli intestatari italiani dei conti correnti in Liechtenstein». Ma c’è di più. «Tantissimi colleghi sono stati rovinati dalla caccia alle streghe scatenata da Visco. Mesi e mesi d’inferno, per accertare che i finanzieri avevano svolto accertamenti su Prodi solo perché sollecitati da qualche Procura. Il paradosso è che Visco accusava noi di aver curiosato in una banca dati che lo stesso Visco, oggi, dice essere di dominio pubblico. Una follia». All’interno del Cocer la sortita del viceministro sui redditi nel web è considerata uno «shock», proprio perché lo stesso rappresentante del governo un anno e mezzo fa invocava le manette per i militari infedeli. «Ha trasformato il Paese in 56 milioni di finanzieri, con l’aggravante che oltre alle cifre stavolta è diventato pubblico anche il domicilio». Salvatore Scino, figura storica del Cocer, insiste: «Chi ripagherà ora delle indicibili sofferenze quei militari finiti nei guai per fatti rivelatisi inesistenti e che hanno speso migliaia di euro in avvocati? Visco ha smentito se stesso con una semplicità disarmante, dovrebbe mettersi una mano sulla coscienza e chiedere almeno scusa ai finanzieri e ai cittadini. Alla notizia delle pubblicazione degli elenchi - continua Scino - non credevamo fosse vero. In nessun Paese al mondo succede una cosa così, è un’assurdità. Per noi che di questa materia ne mastichiamo più di chiunque altro, la pubblicazione indiscriminata rappresenta un irragionevole controsenso. Ma di più è inutile dire. Questo governo ci ha dato solo schiaffi in faccia, e la decisione di divulgare i redditi di tutti è uno schiaffo agli italiani». Un altro delegato Cocer, Maurizio Dori, si dice a dir poco «allarmato» per la diffusione dei redditi su internet: «Si parla di privacy ma la normativa andrebbe rispettata davvero. Sono un garantista per natura, e sarebbe stato meglio che il viceministro avesse pensato a focalizzare la sua attenzione su chi froda il fisco anziché pubblicizzare, indiscriminatamente, i nomi dei contribuenti. Nella Finanza c’è sconcerto e imbarazzo per quest’ultimo fatto, da più parti definito increscioso. Speriamo che Tremonti riporti un po’ di serenità e che fatti come questi non accadano mai più». Nel frattempo la Procura di Roma ha aperto un fascicolo per «violazione della privacy» partendo dal presupposto che la pubblicazione di dati, anche non sensibili, va sottoposta comunque a tutela per non esporre a inutili rischi i contribuenti. La divulgazione indiscriminata dei dati potrebbe causare problemi seri ai titolari dei 730 e dei 740. Il pm Ionta ha deciso di ascoltare nelle prossime ore il direttore dell’Agenzia delle entrate, Massimo Romano, e sta valutando se fare altrettanto con l’ex viceministro Visco per identificare chi abbia ordinato, e seguendo quali linee guida, l’inserimento degli elenchi nello sterminato universo di internet. Solo dopo aver raccolto le testimonianze, ricostruita la catena di comando, esaminato il dossier della polizia postale, la Procura capitolina deciderà se iscrivere qualcuno sul registro degli indagati. Per la cronaca, qualora dovesse sfilare a palazzo di giustizia, Visco lo farà come persona informata sui fatti.

COSMIC EMPIRE


© Giovanni Caviezel - Maria Romey

sabato 3 maggio 2008

Aperta un'inchiesta sull'ultima viscata

da La Stampa Online

Redditi on line, indaga la procura
I


Il reato ipotizzato dal pm di Roma
è quello di violazione della privacy
ROMA
Il procuratore aggiunto della capitale Franco Ionta ha aperto un’inchiesta in relazione alla pubblicazione su internet degli elenchi delle denunce dei redditi degli italiani. Il reato ipotizzato è la violazione dell’art.167 della legge sulla privacy che punisce il trattamento illecito dei dati personali. Secondo il magistrato, la divulgazione ha determinato un’esposizione a rischio delle persone; sotto accusa sono, quindi, le modalità - in maniera indiscriminata - con cui sono state diffuse le informazioni.

L’apertura del fascicolo è stata un’iniziativa autonoma del procuratore aggiunto Ionta che è a capo del pool dei pm che si occupano delle intereferenze illecite nella vita privita. L’indagine, per il momento contro ignoti, mira ad accertare l’eventuale illiceità della decisione di pubblicare integralmente e senza selezione, i dati sulle singole denunce dei redditi.

domestica


© giovanni caviezel

dal Corriere Online

L'occhio vede, il cervello sa già

Da uno studio del San Raffaele nuovi risultati sui meccanismi cerebrali della percezione visiva

(Sironi)
Gli studi di due neuroscienziati del San Raffaele di Milano confermano la distinzione tra stimolo visivo e percezione consapevole. Il ruolo delle saccadi, rapidi movimenti oculari: dai loro «tempi» dipende la presa di coscienza di ciò che ci circonda In questi ultimi anni, la registrazione fine dei processi cerebrali in tempo reale ci ha rivelato qualcosa che forse non ci fa del tutto piacere. Cioè che il nostro cervello, o meglio qualche porzione di esso, «sa» cosa faremo un attimo prima che noi stessi lo si sappia. Metto questo «sa» tra virgolette, in quanto ci è arduo credere che un ammasso di cellule, per quanto solerti e ben interconnesse, possa davvero sapere qualcosa. Resta il fatto, comunque, che qualcuno al di fuori di noi può tendenzialmente prevedere quanto noi, dopo qualche attimo, sentiremo e faremo. Solo qualche attimo, certo, ma esiste davvero il libero arbitrio, se percepire, sentire e decidere discendono da binari cerebrali così obbligati? Un nuovo risultato viene ora rivelato, sull'ultimo numero della rivista internazionale specialistica The Journal of Neuroscience, da due neuroscienziati e psicologi sperimentali dell'Università San Raffaele di Milano: Claudio de' Sperati e Gabriel Baud-Bovy. I loro astuti esperimenti mostrano come il dramma che potremmo intitolare «neurone sa, ma tu (ancora) no!» investa anche il guardare e il vedere, ovvero quanto di più basilare, onnipresente e rapido esiste nella nostra vita mentale e cerebrale. Premettiamo che, senza requie, due o tre volte al secondo, i nostri occhi fanno qualcosa di cui non abbiamo alcuna consapevolezza, cioè rapidissimi movimenti in varie direzioni, chiamate in gergo saccadi. Se, per assurdo, un movimento saccadico potesse durare un intero secondo, il nostro occhio girerebbe su se stesso circa tre volte. Ebbene, de' Sperati mi dice testualmente: «I movimenti oculari saccadici sono a un tempo padroni e schiavi della visione. Padroni, perché sono loro a dettare quale stimolo visivo cadrà sulla retina; schiavi, perché sono guidati dalle domande che il nostro cervello pone come conseguenza di ogni successiva fissazione oculare».

SI GUARDA PRIMA DI VEDERE - I loro esperimenti rivelano qualcosa che già si supponeva, cioè che l'occhio si indirizza verso un oggetto prima che questo sia stato visto in maniera pienamente consapevole. Si guarda prima di vedere, insomma. Baud-Bovy mi spiega, in breve sintesi, l'esperimento stesso: «Si fa lampeggiare per un istante un puntino luminoso in prossimità di un secondo stimolo in movimento. Il primo stimolo non viene percepito nella sua posizione fisica, bensì stabilmente spostato di una piccola quantità in direzione del movimento, come se il movimento del secondo stimolo avesse trascinato con sé il primo stimolo». Quale lezione trarne? «Ci si potrebbe aspettare che, se si chiede a un osservatore di muovere gli occhi verso il primo stimolo, questi guardi verso la posizione percepita (e illusoria), e non verso la posizione fisica dello stimolo, che non viene registrata nella percezione. E così è infatti, ma solo se la saccade parte un po' meno di mezzo secondo dopo la presentazione dello stimolo, cioè abbastanza tardi (si consideri che una saccade può essere diretta a un bersaglio in soli uno o due decimi di secondo). Se la saccade parte prima, il movimento oculare è invece accurato, ed è diretto verso la posizione fisica, invisibile, del primo stimolo. Quanto più la saccade ritarda a partire, tanto più è "contaminata" dalla percezione illusoria. In altre parole, nel "primo mezzo secondo", guardare (la saccade) e vedere (l'immagine cosciente dello stimolo) sono dissociati, e le saccadi, pur essendo accurate, partono "alla cieca". Solo nel volgere di mezzo secondo dalla presentazione dello stimolo i meccanismi di generazione delle saccadi accedono pienamente al segnale visivo che corrisponde alla visione cosciente». La scommessa degli autori è che il graduale cambiamento della codifica della direzione saccadica nel tempo riveli la dinamica temporale della formazione della percezione visiva consapevole nella corteccia cerebrale, cosa che si è sempre rivelata assai ardua da studiare. Da circa quindici anni si sapeva che esistono due canali cerebrali distinti: uno che presiede alle risposte motorie a uno stimolo visivo (movimenti dell'occhio compresi), e un altro che presiede in qualche modo misterioso ciò che noi percepiamo consapevolmente a seguito di quello stesso stimolo. Un canale per il «cosa» e uno per il «dove», che poi vanno a ricomporsi. Questa nuova scoperta di de' Sperati e Baud-Bovy conferma che le due vie sono anatomicamente separate, non solo, ma che lo sono anche i loro tempi di elaborazione dei segnali rispettivi. Mi spiegano: «Il segnale visivo in arrivo dalla retina è utilizzabile dopo pochissimo tempo dai circuiti della corteccia che generano i movimenti oculari saccadici, ma solo in un secondo momento dà luogo alla percezione consapevole». Che si possa guardare senza vedere, insomma, non è solo il risultato di distrazione, dell'avere la testa tra le nuvole, bensì di meccanismi microscopici connaturati a come funziona il nostro cervello.

Massimo Piattelli Palmarini

la sconfitta della sinistra

La ribellione delle masse


di Ernesto Galli della Loggia

«Arrogante», «oligarchico », «lontano dalle masse e vicino ai salotti»: si sprecano le analisi che rimproverano al Partito democratico di aver perso le elezioni a causa del suo essersi sempre più rinchiuso nei recinti della «casta», smarrendo il contatto con la realtà italiana e alienandosi parti rilevanti del proprio elettorato, specie popolare.

Comunque stiano le cose, di sicuro esse sono apparse così agli occhi di molti e qualche buon motivo, allora, deve pure esserci. Ma va cercato non già nell'ultimo paio di anni, nel tratto più o meno sbrigativo di questo o quel leader, nelle candidature più o meno paracadutate dall'alto, nelle mises
un po' troppo sul «semplice ma raffinato» di Barbara Pollastrini o di Giovanna Melandri, bensì in quello che è successo in Italia almeno negli ultimi due decenni.

A cominciare dall'epoca di Mani Pulite e subito dopo, allorché parti via via crescenti dell'establishment italiano, per scampare al naufragio dei suoi tradizionali referenti politici — la Democrazia Cristiana, il Partito socialista e quello Repubblicano — corsero a rifugiarsi sotto le ali ospitali dei postcomunisti. Il furbo dirigente Rai, la giovane industriale in sintonia con i tempi, il navigato notabile meridionale, il pm in carriera, il banchiere di peso, il direttore generale desideroso di non perdere il posto, tutti andarono inevitabilmente «a sinistra», per non dire di buona metà e forse più dell'intero gruppo dirigente democristiano. Tutti sicuri che lì era il nuovo baricentro del potere: lì le nuove combinazioni decisive, le assegnazioni di incarichi, i riconoscimenti ambiti. Fuori dalla «sinistra» (o da quella sua versione allargata che da lì a poco sarebbe stato l'Ulivo), della classe dirigente italiana non rimase praticamente che ben poco. E quel poco, per giunta, mantenne quasi sempre il più assoluto silenzio: accrescendo così ancor di più la visibilità pubblica dell'altra parte, quella della grande trasmigrazione a sinistra. Il cui adeguato involucro ideologico fu subito approntato: l'ideologia della «difesa della Costituzione», opportunamente messa a punto e diffusa proprio allora dall'ex sinistra democristiana con il potente ausilio strategico del Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro.

A tutto ciò il Pds e poi i Diesse aprirono, anzi spalancarono, le braccia. Essi videro probabilmente in questa generale corsa verso di loro delle classi dirigenti italiane l'annuncio inaspettato di una qualche raggiunta egemonia. Non si accorsero che era invece la premessa del proprio snaturamento. Della propria mutazione da partito popolare a partito di «quelli che contano ». Ancora peggio: di quelli sicuri che saranno sempre loro a contare.

Ma se le cose hanno potuto svolgersi in questo modo è perché già il Partito comunista — di cui il Pds e poi i Diesse hanno rappresentato una sorta di aggiornamento, sempre più aggiornato se si vuole ma sempre legato per mille fili alla matrice originaria — già il Partito comunista, dicevo, non era mai stato in realtà un partito popolare nel vero senso della parola. Il Pci fu sempre altra cosa, infatti, rispetto ai grandi partiti socialdemocratici europei, per esempio al Labour britannico o alla Spd tedesca.

Partiti dove forte si è mantenuto, anche negli usi e nei rituali, un tradizionale sostrato culturale e antropologico schiettamente popolaresco, e perfino plebeo, espresso adeguatamente fino a tempi recenti da figure di capi tratti per l'appunto dai ceti popolari e dai suoi mestieri, con i gusti e i modelli espressivi relativi. Nel Pci no. Nel Pci Palmiro Togliatti tradusse l'antica diffidenza leninista per la spontaneità delle classi subalterne e insieme la lezione egemonica gramsciana in una direzione opposta: cercare di fare largo spazio nel partito, e specie tra i massimi dirigenti, a persone di buona cultura, ancor meglio se di buona famiglia, sostanzialmente a intellettuali borghesi. Al «Migliore» non sarebbe mai venuto in mente, tanto per dire, che un capocellula di Mirafiori contasse quanto un professore della Normale. Caratteristica già del Pci, insomma, fu un forte elitismo sprezzante di tutto ciò che sapesse di «piccolo-borghese», pur se innestato su una penetrante attenzione al sentire delle «masse» considerate sempre, però, alla luce di un pedagogico paternalismo disciplinatore. Da qui il grande fascino che, anche nei tempi della più aspra conflittualità, i comunisti hanno di continuo esercitato sulla borghesia italiana: precisamente per la loro capacità di presentarsi come un partito fatto apposta per dirigere, per governare, luogo vocazionale del potere, di un potere capace di mettere insieme l'alto e il basso della società.

Ma la formula di successo del vecchio Pci, la sua miscela singolare di alto e basso in tanto potevano reggere finché il partito era obbligatoriamente lontano dal potere. Quando dopo il '94 le cose sono cambiate, la formula allora non ha più tenuto, l'alto e il basso sono progressivamente andati ognuno per conto suo, e del paternalismo pedagogico le masse, alla fine, non hanno saputo più che cosa farsene.

03 maggio 2008

venerdì 2 maggio 2008

Codacons: i moduli per denunciare Visco

Codacons denuncia Visco. Il Codacons ha presentato una denuncia contro il viceministro per l'Economia, Vincenzo Visco presso 104 Procure della Repubblica «per violazione della legge sulla privacy». Secondo il presidente Carlo Rienzi l'articolo 24 della legge 15 del 2005 «vieta espressamente la diffusione delle denunce dei redditi dei contribuenti». Preso d'assalto il modello messo online dall'associazione per avere tra 500 e 1.000 euro di risarcimento per ciascun contribuente la cui denuncia dei redditi sia stata messa sul web. Nella denuncia l'associazione chiede anche il sequestro dei dati dei contribuenti da chiunque detenuti, e che si proceda contro chi ne fa commercio vendendo questi dati, come previsto dal secondo comma dell'art. 167 del Codice Penale. Non solo. In base all'art. 28 della Costituzione anche i consiglieri del viceministro Visco, spiega l'associazione, potranno essere citati in giudizio.

Moduli online anche da parte del sito dell'Adoc. Contribuenti.itdiffonderà a mezzanotte la documentazione (due moduli, uno per la denuncia penale e l'altro per la denuncia civile, con cui si chiede un risarcimento danni di 500 euro) e assicura che lo «staff legale aiuterà, attraverso i call center, chi ne avrà bisogno a compilare il modulo». Per l'Adiconsum, considerando il rischio di truffe basate sul furto di identità, è ora «indispensabile un appello da parte delle istituzioni ai vari motori di ricerca su internet e a tutti coloro che hanno registrato i dati dell'Agenzia delle Entrate ad evitare di rimettere in rete. Valuteremo la possibilità di chiedere i danni, se possibile attraverso un'azione civile contro la pubblica amministrazione» ha spiegato Paolo Landi, segretario generale dell'associazione.

l'ascesa di Sky

Luca Veronese per “Il Sole 24 Ore”

Rupert Murdoch

Un telespettaore su dieci guarda sempre i canali satellitari. Nell'ultimo anno Sky, Fox, Rai, Discovery, Disney e gli altri editori della parabola hanno messo assieme in media 762mila persone nel corso della giornata (per uno share dell'8,5%) e 968mila individui in prima serata (per una quota percentuale pari al 7,4%). Ma il dato spalmato sui 12 mesi contiene una crescita costante dell'audience.

E ancora di più dei contatti: sono ormai più di 9,2 milioni gli italiani che guardano i canali satellitari per più di un minuto nel corso della giornata e 4,8 milioni nel prime time. Solo dall'aprile del 2007 il mercato ha avuto a disposizione il dettaglio del satellite: le ultime rilevazioni, quelle di marzo, segnano dunque un anno esatto dalla pace tra Sky, broadcaster generalisti, singoli canali, autorità e Governo.

Un anno è servito anche a cambiare la percezione delle nano share, il nomignolo con il quale da subito i vertici di Mediaset e Rai avevano bollato le performance dei canali satellitari: nano share per dire quote d'ascolto insignificanti, anche per la pubblicità se comparate ai milioni di italiani che si sintonizzano d'abitudine su RaiUno o Canale 5. Gli stessi canali generalisti che – assieme agli altri della Rai e di Mediaset e assieme a La7 – hanno dovuto cedere, in modo lento e inesorabile, una parte della loro platea, quasi uno spettatore su dieci appunto, alla piattaforma satellitare.

«Come share i canali satellitari, nel loro complesso si avvicinano ormai a quello di una rete generalista – dice Roberto Binaghi, amministratore delegato del centro media Omd (del gruppo Omnicom) –, la reazione del mercato alla diffusione dei dati è stata molto buona: Auditel sta leggendo una realtà in crescita, ormai corposa anche nei numeri». «Dal 2003 Auditel forniva il dato aggregato sulle tv satellitari: nessuno poteva aspettarsi per le centinaia di canali sul satellite dei dati da tv generalista – spiega Giuseppe Basile, responsabile delle ricerche nell'area tv di Starcom (gruppo Publicis).

back to fifties

L'OLTRAGGIO

giovedì 1 maggio 2008

la beffa del 1° maggio

da oggi per ogni pieno di un'auto di medio-alta cilindrata sono necessari 83 euro contro i 70 del Primo Maggio 2007 mentre per un rifornimento di diesel il conto è lievitato da 50 a 73 euro.

la deriva dell'Italia

dal "Corriere Online"


Il paese degli sprechi

«Emergenza» e le leggi si aggirano

Dai restauri ai vertici ci pensa la Protezione civile

Duecentomila euro il restauro del David di Donatello li vale tutti. Ma perché li abbia dovuti tirare fuori la Protezione civile non si sa. La pesante statua in bronzo rischiava di crollare improvvisamente al suolo mettendo a rischio l’incolumità dei visitatori del museo fiorentino del Bargello? No, era solo il modo più rapido per trovare i soldi. Direte: d’accordo, ma l’«emergenza»? Non ci vuole un’emergenza per decretare un’emergenza? Certo. Infatti l’ordinanza firmata nell’estate 2006 da Romano Prodi spiegava che il «contributo straordinario» alla Sovrintendenza per il David era necessario «per il proseguimento delle iniziative finalizzate al recupero del patrimonio storico-artistico danneggiato dagli eventi alluvionali che hanno colpito Firenze il 4 novembre del 1966». Un’emergenza di quarant’anni prima.

Ci sarebbe da ridere, se non fosse ormai la prassi. In un Paese dove fare ogni cosa, dall’asfaltare una strada a organizzare una gara podistica, è un’impresa, la Protezione civile è diventata un grimaldello. Certo, uno Stato serio davanti alla paralisi dovuta al mostruoso traboccare di norme e cavilli, risse ideologiche e veti sindacali, cambierebbe le regole. Da noi no: scorciatoia all’italiana. Lo Stato che fotte le regole dello Stato. Geniale. Così l'istituto nato nel 1982 dopo il terremoto in Irpinia e la tragedia di Vermicino, quando l’Italia scoprì traumatizzata dall’agonia di Alfredino che non esisteva neppure una lista di chi aveva questo o quel mezzo di soccorso per aiutare un bambino caduto in un pozzo, ora è la chiave per fare in fretta e aprire ogni porta. La bacchetta magica si chiama «emergenza». Anche la ricostruzione della cattedrale di Noto, gravemente danneggiata dal terremoto del 1998, è finita nell’elenco delle opere fatte grazie ai soldi (e alle deroghe) della Protezione civile. E tutto sommato, viste le condizioni in cui si trovavano le strutture della chiesa dopo il sisma, ci potrebbe anche stare. Se al commissario per l’emergenza non fosse stato affidato anche, testuale, «il restauro delle vetrate artistiche, degli oggetti e dei corredi sacri, delle sculture e delle opere lignee, dei metalli e argenti, dei dipinti su tela e su carta, delle pale d'altare; il restauro conservativo degli altari della navata e del transetto sinistri, del fonte battesimale e dell'acquasantiera, delle cappelle di San Corrado, del SS. Sacramento e della Madonna con Bambino; il restauro della scalinata e del portone in bronzo della navata centrale...». Tolta la salvaguardia dei merletti di Burano, dei torroncini messinesi e della foca monaca di Capo Carbonara, non c’è problema che non sia stato affrontato negli ultimi anni con la dichiarazione dello stato di emergenza, l’affido formale alla struttura diretta dal 2001 dal padovan- romano Guido Bertolaso e la nomina di un commissario straordinario.

Prendete Napoli. Scriveva Donatien-Alphonse- François marchese de Sade a proposito di via Toledo: «Questa strada sarebbe, senza dubbio, una delle più belle che sia dato vedere in una qualunque città europea, se non ci fossero a guastarla le botteghe che si allungano fin quasi alla metà della via, tanto più che si tratta in genere di botteghe di macelleria e di altri generi commestibili, che la rendono fetida e sudicia. (...) Le carrozze vi stanno in perpetuo su due o tre file; i calessi e i piccoli cabriolets, leggerissimi, che a Napoli sono usati come vetture pubbliche, si sono moltiplicati all’infinito; e tutti questi veicoli s’incrociano ininterrottamente». Insomma: il problema dei rifiuti e del traffico infernale con parcheggi in terza fila c’era già negli anni Settanta del Settecento. Due secoli fa. Eppure, oltre che per la spazzatura, anche per il caos nelle strade è stata dichiarata, manco fosse cascato a sorpresa un meteorite, l’emergenza. E la Protezione civile ha emanato nel marzo 2007 un’ordinanza nominando il sindaco Rosa Russo Iervolino commissario straordinario con poteri speciali per «individuare misure efficaci per la disciplina del traffico, della viabilità, del controllo della sosta», ma anche per «la realizzazione di parcheggi, anche a tariffa» e «l’incremento dei livelli di sicurezza stradale» e il «potenziamento dell’efficacia operativa del Corpo di polizia municipale ». (…) Sempre lì si finisce: perché affaticarsi a cambiare le regole, se si possono aggirare? Ed ecco che si ricorre all’«emergenza» per completare i lavori all’Istituto nazionale per le malattie infettive Lazzaro Spallanzani di Roma e all’ospedale Sacco di Milano. Per «delocalizzare» gli sfasciacarrozze nel territorio capitolino. Per rimuovere il relitto della nave Margaret, affondata nel golfo di La Spezia. Fino all’organizzazione dei Grandi eventi. Un’idea di Berlusconi. Che appena insediato nel 2001 a Palazzo Chigi, pragmatico com’è, capì al volo le potenzialità del «grimaldello». E dopo il disastroso G8 di Genova, cancellata quella che allora si chiamava Agenzia della Protezione civile, riportò tutte le competenze a un dipartimento di Palazzo Chigi. Per averla sottomano e affidarle appunto tutti i nuovi compiti aggiuntivi, assai distanti da quelli istituzionali di aiutare la popolazione in caso di calamità naturali e rischi di varia natura. La visita del papa ad Assisi? Emergenza.

Il pellegrinaggio di Sua Santità a Loreto costato 3 milioni di euro? Emergenza. Il vertice italo-russo di Bari? Emergenza. E via così. Tutte «emergenze»: la presidenza italiana del G8 nel 2009 per la quale la «Protezione» prevede anche l’assunzione degli interpreti. I Giochi del Mediterraneo. I Mondiali di nuoto. Quelli di ciclismo a Varese. Perfino le celebrazioni dei 150 anni dell’Unità d’Italia, di cui si conosce l’arrivo da decenni, sembrano invece affacciarsi del tutto inaspettate come l’apparizione del marito cornuto nella camera della moglie traditrice: «Cielo, l’anniversario!». Emergenze, emergenze, emergenze. (…) Sempre così, da noi: non riusciamo a fare nulla di «normale ». Ci serve sempre uno stimolo straordinario. Oggi l’emergenza, ieri la «data catenaccio». Ricordate Gianni De Michelis? Ai tempi in cui era ministro degli Esteri e si batteva per portare l’Expo 2000 a Venezia, ne aveva fatto una teoria: «Punto primo: sappiamo che in questo Paese ci sono delle cose da fare. Punto secondo: sappiamo che è un Paese paralizzato dalla burocrazia, dai veti incrociati, dalla cultura del rinvio. Punto terzo: sappiamo che in questo Paese occorre uscire da questa paralisi. Dunque è necessaria una data catenaccio. Che ci costringa a fare le cose nei tempi stabiliti». (…) L’emergenza giustifica sempre tutto. Come giustificò a suo tempo, dopo il terremoto in Irpinia, l’allungamento abnorme dei comuni «danneggiati dal sisma» e quindi ammessi alle provvidenze: alla prima conta erano 36, all’ultima 687. Il sindaco di Castellabate, un paese sul mare del Cilento, spiegò al Mattino: «Ci accusano di sciacallaggio sostenendo che non abbiamo avuto danni dal sisma. Facciamo conto che ciò sia vero, per comodità di discorso. Ma mi dica lei però chi ci avrebbe salvato dall’accusa di omissione di atti d’ufficio per non aver fatto ottenere al paese quello che la legge gli concede». Tra i mille episodi indimenticabili, basti ricordare quello dell’area industriale di Balvano, in provincia di Potenza, costruita incredibilmente a mille metri d’altezza con un ulteriore spreco di soldi per fare la strada di accesso. «Come mai lassù in cima?», chiese Oscar Luigi Scalfaro, che presiedeva la Commissione parlamentare d’inchiesta. E il sindaco: «Ce l’ha chiesto la Ferrero per farci lo stabilimento. Dice che lassù le merendine lievitano meglio».

Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella

l'ultima viscata: una spettacolare istigazione all'odio di classe

dopo la pubblicazione online dei redditi dei cittadini italiani

All'estero dati fiscali protetti dalla privacy

In Gran Bretagna e Stati Uniti sono sempre salvaguardati,
in Irlanda la «gogna» su internet è riservata agli evasori

ROMA - I redditi degli italiani sono rimasti online poche ore, prima dello stop del Garante della Privacy. Ma cosa succede in altri Paesi? In Gran Bretagna e Stati Uniti le denunce fiscali sono sempre salvaguardate dal diritto alla privacy, mentre in Irlanda la «gogna» su internet è riservata solo agli evasori.

USA, DICHIARAZIONI PRIVATE - Le denunce dei redditi sono strettamente private negli Stati Unti e non sono mai rese pubbliche dall'IRS, il fisco americano. «Negli Stati Uniti tutte le informazioni personali riguardanti il contribuente sono protette dalla Federal Tax Law - ha spiegato all'Ansa il portavoce dell'IRS, Andrew DeSouza -. Nessuna informazione privata, come nome, numero sicurezza sociale, indirizzo, numero di telefono, reddito può essere reso pubblico. Noi rendiamo accessibili al pubblico, sul nostro sito Internet, solo dati statistici generali, senza alcun riferimento comunque a informazioni di tipo personale».

GB, SERVE LA LIBERATORIA - In Gran Bretagna le dichiarazioni sono coperte dal diritto alla privacy. Nessuno può quindi, tanto meno via internet, accedere a file privati senza avere una liberatoria. Sono ovviamente esclusi i commercialisti, che lavorano in delega ai propri assistiti, e gli agenti del fisco. L'unico caso in cui i dati fiscali di singoli cittadini possono divenire di dominio pubblico è quando vengono dischiusi, sotto richiesta di un giudice, in un processo che avviene a porte aperte. Gli impiegati della HM Revenue & Customs, l'agenzia delle entrate britannica, non possono in alcun caso dare accesso a membri del pubblico, compresi i giornalisti, pena la perdita del posto di lavoro.

IRLANDA, ONLINE GLI EVASORI - Sono oltre 120 i nomi dei contribuenti irlandesi che compaiono negli elenchi pubblicati dall'Amministrazione fiscale e che riportano, oltre ai nomi e ai cognomi, anche la tipologia dell'imposta o del tributo non versati e l'ammontare complessivo, inclusi interessi e sanzioni, pagati per siglare la pace con il fisco e per fare il reingresso tra la platea dei contribuenti fiscalmente corretti.GERMANIA, NIENTE ELENCHI - Anche in Germania non è possibile per il fisco tedesco rendere pubbliche le dichiarazioni dei redditi dei contribuenti a causa delle rigorose regole sulla privacy.


Per il vice ministro dell'Economia Vincenzo Visco «è un fatto di trasparenza, di democrazia, non vedo problemi: c'è in tutto il mondo, basta vedere qualsiasi telefilm americano». «Era già pronto per gennaio - ha detto Visco - ma per evitare le polemiche in campagna elettorale ho chiesto di pubblicarle più tardi».