domenica 30 novembre 2008

DIVA DOMESTICA






Sopia Loren
gli scatti segreti dell'ultima diva

di NATALIA ASPESI


La copertina del libro 'Sophia Loren. Immagini di una vita

E' A LONDRA a lavorare, e lavorare per lei vuole dire essere se stessa: liberarsi recitando dalla eterna, piccola, indimenticata Scicolone, per essere la Loren; Sofia, anzi Sophia, la grande attrice, la diva internazionale, la donna segreta, la madre orgogliosa di due figli di successo, lontani, Carlo jr. ed Edoardo, la nonna dei piccoli Vittorio, un anno, e Lucia, poco più di due. Sul set di Nine, il film tratto dal musical ispirato a Otto e mezzo di Federico Fellini, andato in scena con grande successo nel 1982, sta vivendo "un'esperienzaIl ritorno di Sophia Loren gli scatti segreti dell'ultima diva bellissima, il cinema è fatto così, ti ritrovi ad ogni film in una nuova famiglia, e questa mi pare particolarmente armoniosa. Il regista Rob Marshall è adorabile e poi per noi italiani partecipare a un musical è un'esperienza nuova, coinvolgente. La cosa bella è che canto, tra l'altro una canzone che mi piace molto, intitolata Guarda la luna".

Il regista in crisi creativa, che nel capolavoro di Fellini era Marcello Mastroianni, qui è Daniel Day-Lewis, fascinoso attore appena uscito dal ruolo aspro e desolato de Il petroliere. Sophia è la mamma dei suoi ricordi adolescenti, la donna bellissima e insostituibile evocata con nostalgia e di cui nessun altra è all'altezza: la moglie, l'amante, la musa, l'attrice preferita, l'avventura, le donne che circondano il personaggio Guido Contini, giovani e meno giovani, belle e meno belle, non riescono a cancellare quella figura incombente, quell'ombra di materna, ineguagliata femminilità.

Ma anche nella realtà, Marion Cotillard, Oscar alla miglior attrice per La vie en rose, e Penélope Cruz, e Nicole Kidman, interpreti del film e tutte e tre all'apice di una carriera fortunata, brave, giovani e molto belle, non eguagliano Sophia; non sono, non saranno mai un mito senza tramonto come da sempre è lei, che ha attraversato la vita in assoluta discrezione, immutabile e intangibile, star riconosciuta in tutto il mondo, quasi sessant'anni di cinema, una settantina di film, eppure persona sconosciuta, donna senza segreti da nascondere, eppure del tutto segreta.

"La parola "azione" mi libera, ridivento naturale, le mie inibizioni svaniscono, dimentico tutto", ha detto una volta Sophia. E questa è una delle sue frasi riportate nel libro fotografico Sophia Loren, Immagini di una vita, pubblicato da Tea: una vita raccontata dall'obbiettivo, quindi esteriore, che non intacca il suo geloso ritegno, la difesa dei suoi sentimenti, il suo mistero, che nessuna intervista, nessuna biografia è riuscita a rivelare.

Eppure Sophia è continuamente alla ribalta: solo due anni fa, nell'aprile 2006, una grande mostra a Roma al Vittoriano, Scicolone, Lazzaro, Loren, l'ha celebrata con la sua entusiasta collaborazione. Ricorda: "Per tre mesi ho frugato in tutta la casa, navigando in un fiume di ricordi, belli e brutti, e ho raccolto di tutto, vestiti, fotografie, copertine di giornali, premi. Che vita ho vissuto, una vita pienamente realizzata, ho avuto tutto".

Alla festa veltroniana del cinema, sempre a Roma, nell'ottobre 2007, ha ricevuto uno dei tanti premi tributati alla sua carriera, e mentre risaliva sola il grande tappeto rosso, dietro le transenne c'era una grande folla entusiasta ad applaudirla, a chiederle l'autografo, oggi come sempre, ai tempi della Ciociara e degli Oscar, della nascita dei suoi figli e di Una giornata particolare, della prigione di Caserta e dei trionfi a Hollywood, del calendario Pirelli nel 2007 e di oggi, ovunque vada e lavori.

La storia della sua vita, della sua carriera, dei suoi film, della sua bellezza, continua a incuriosire, e infatti escono adesso, contemporaneamente, due libri: uno di Rizzoli con le belle foto di Tazio Secchiaroli, tra cui quelle più rare, di lei col marito Carlo e i loro due bambini piccoli, immagini di intima felicità domestica, o quelle dei principeschi interni di dimore eccessive, da diva internazionale, che ha lasciato da tempo per il quieto, elegante appartamento di Ginevra.

L'altro volume è quello di Tea, che seleziona nei milioni di fotografie della star, quelle più significative per il curatore Yann-Brice Dherbier, che di lei scrive: "Anche all'apice della sua carriera non si è mai sentita intoccabile, forse a causa della sua educazione, certo per l'impronta del passato, è rimasta vigile, consapevole che tutto sarebbe potuto crollare da un momento all'altro: uno stato d'animo che spiega l'energia e la tenacia che hanno animato ogni tappa della sua vita". Dice Sophia: "Il libro mi è piaciuto, ci sono persino fotografie che non ricordavo. Però nessuno mi ha avvertito che stavano facendo questo libro, nessuno mi ha interpellato, non è la prima volta che mi trattano come un fagotto, ma pazienza, il risultato è buono".
A Londra lavora quattro giorni alla settimana, poi subito torna a Ginevra, in quella casa che per lei è come un fortino che quasi nessuno può espugnare, in mezzo alle sue foto, alle centinaia di premi, e ai quadri d'autore. E in quel vuoto, in quel silenzio che occupa ogni stanza da quando Carlo Ponti, suo marito, si è spento nel gennaio del 2007 e dove lei invece lo ritrova nei ricordi solo suoi, nei pensieri che nessuno conosce: un matrimonio durato più di quarant'anni, una fedeltà coniugale che nessuno dei tanti celebri innamorati né l'informazione più curiosa sono mai riusciti a scalfire.

Per Natale arriveranno tutti, i figli, le nuore, i nipotini. Dice nonna Sophia: "È bello che la vita continui, sapere che una parte di te non si spegnerà mai. E poi, con i nipoti mi diverto molto, fare la nonna forse è ancora più appagante che essere madre perché senti meno il peso delle responsabilità". Il tempo cancella ciò che è effimero, la fama, il successo, la bellezza dei divi, ma non tocca Sophia. Come ha detto una volta Gianfranco Ferrè, quando come direttore creativo di Dior l'aveva vestita sontuosamente, esageratamente, per il film Prêt-à-porter di Altman: "Lei è l'ultima grande diva; non è amata perché è bella, ma perché è vera".

IL CASO ORLANDI IN LIBRERIA

IL CASO ORLANDI
La scomparsa di Emanuela Orlandi è la summa di molti misteri. Una testimone, finora nell’ombra, rivela che la ragazzina sparita nel 1983 è stata rapita, uccisa e gettata in una betoniera. A gestire il sequestro sarebbe stata la Banda della Magliana su mandato del vescovo Paul Marcinkus.

In un romanzo-inchiesta, da oggi in libreria, “Storie di alti prelati e gangster romani, i misteri della chiesa di Sant’Apollinare” (Fazi, 250 pagine, 18 euro), Rita Di Giovacchino ricostruisce tutti i retroscena. Ne anticipiamo alcuni brani.

di Rita di Giovacchino
Il prelevamento di Emanuela Orlandi
IL sole picchia sui bastioni di Castel Sant’Angelo che lei attraversa quasi correndo, accaldata e un po’ eccitata per l’incontro che l’attende. Il vento leggero, che a quell’ora soffia su Roma, sembra metterle le ali ai piedi che quasi volano sui sampietrini. Emanuela supera la chiesa di Sant’Apollinare e, senza attraversare corso Rinascimento, prosegue diritta verso il Senato. Rischia di fare tardi alla scuola di musica, ma ha un appuntamento importante. Ecco, ce l’ha fatta: vede da lontano la macchina accostata all’angolo della strada che l’aspetta... L’auto ferma è una Bmw touring, di colore verde Tundra. Il vigile lancia un’occhiata: l’uomo le sorride, lei si ferma, sembra molto interessata a quello che lo sconosciuto le sta dicendo. (...) (Due ore dopo).La “donna dai capelli rossi” è appena uscita da un negozietto all’angolo tra via de’ Canestrari e Corso Rinascimento. Un piccolo emporio che vende qualche modesto pezzo d’antiquariato, lampade, strumenti musicali. Erano proprio questi ad attrarre Emanuela che si fermava spesso davanti a quella vetrina. Ora quel negozio non c’è più, ma affaccia su un cortile dove è possibile parcheggiare due auto e un furgone, è anche dotato di passo carrabile. La sconosciuta le si avvicina appena vede che è rimasta sola. «Il funzionario ci aspetta. Hai parlato con la mamma?». Non ancora, risponde Emanuela impacciata. Perché sono tanto interessati a una ragazzina come lei? «Non preoccuparti, ti accompagno a casa, le parlerò io. Vieni, il Signor M. ci sta aspettando».

Oltretevere
(24 ore dopo) Papa Wojtyla scende lentamente dalla scaletta dell’aereo appena atterrato a Ciampino. Il Pontefice è reduce da Cracovia, da una visita pastorale che lo ha portato per la seconda volta dal 1979 in Polonia, proprio nel momento in cui si è fatta più aspra la repressione governativa nei confronti di Solidarnosc. Il vertice del sindacato libero di Lech Walesa è in carcere. Il Santo Padre ha un’aria stanca, il viso sofferente reca il segno della tensione di quei giorni. A preoccupare il suo segretario di camera, Angelo Gugel, che lo ha seguito nel viaggio, non sono le condizioni di salute del Pontefice, ormai perfettamente ristabilito, ma il suo umore. Quell’ultimo viaggio, che in molti gli avevano sconsigliato, per fortuna si era risolto senza incidenti. Poco prima Gugel lo aveva visto parlare brevemente con il cardinale Casaroli, non doveva avergli dato buone notizie. E all’arrivo a San Pietro un giornalista polacco, Jacek Palkiewicz, amico del Papa, gli comunica di aver saputo che il giorno prima era scomparsa una ragazzina residente in Vaticano. Gugel ha un sussulto, per un attimo teme che possa trattarsi di sua figlia Raffaella. Ma il giornalista lo tranquillizza: «Si chiama Emanuela Orlandi».

La notizia lo fa ugualmente sobbalzare: Emanuela abita sotto casa sua, ha la stessa età di Raffaella, si assomigliano come due gocce d’acqua. «Guarda cosa va a capitare», pensa Gugel frastornato. Quasi non sente il giornalista che lo rincorre fino al Palazzo della Segreteria di Stato: «Dicono che il Vaticano sia in allarme, temono un nuovo attentato a Wojtyla! Ha saputo niente?».

sabato 29 novembre 2008

LA FESTA DEL CORPO- "Zone umide" di Charlotte Roche



Zone umide di Charlotte Roche è un libro che inneggia alla festa del corpo femminile con una tale assoluta folle candida dolorosa liberazione da rimanerne scioccati, ma non tanto per il contenuto"trasgressivo": ciò che colpisce maggiormente è il flusso di elucubrazioni e sperimentazioni che l'autrice compie su se stessa con insaziabile curiosità e con innato senso dell'umorismo, senza omettere un doloroso scavo introspettivo, alla ricerca dell'impasto fisico e emozionale della sua (e nostra) esistenza.
Veloce, fulminante, letterariamente valido, ferocemente imbarazzante, tenero e unico, "Le zone umide" segna una nuova frontiera dell'erotismo e traccia una teoria della corporeità femminile estrema e paradossalmente pura e innocente.
(g.c.)

i soliti due pesi e due misure della giustizia

Mendicante a quattro anni
I giudici: non è schiavitù

«È la tradizione dei rom». Insorge il centrodestra

ROMA — Un bambino rom, anche se di soli quattro anni, che mendica insieme con la mamma, e lo fa soltanto per alcune ore e non per l’intera giornata, non è sfruttato e la mamma non può essere condannata per riduzione in schiavitù. Lasciandosi dietro una lunga scia di reazioni indignate o perlomeno dubbiose, la Cassazione ha così annullato una sentenza della Corte d’Appello di Napoli che aveva condannato Mia, una madre rom scoperta a fare accattonaggio con il figlio.

La polizia aveva sorpreso due volte Mia in una strada di Caserta seduta per terra con un bambino più piccolo in braccio, mentre quello di quattro anni tendeva la mano ai passanti e poi dava alla mamma i soldi. In primo grado la donna era stata condannata a 6 anni sia per riduzione in schiavitù sia per maltrattamenti in famiglia. In appello la Corte non aveva ravvisato i maltrattamenti ma aveva confermato la riduzione in schiavitù e condannato Mia a 5 anni. La Cassazione ha ribaltato tutto: la donna non può essere condannata per riduzione in schiavitù ma soltanto per maltrattamenti in famiglia. La pena sarà inferiore.

Per la Suprema Corte non soltanto Mia non faceva parte «di un’organizzazione volta allo sfruttamento dei minori», ma occorre anche «prestare attenzione alle situazioni reali». Primo: la donna mendicava per povertà. Secondo: mendicava con il figlio soltanto dalle 9 alle 13, quindi non c’è «quella integrale negazione della libertà e dignità umana del bambino che consente di ritenere che versi in stato di completa servitù ». Terzo: non si possono «criminalizzare condotte che rientrino nella tradizione culturale di un popolo». Il mangel, l’accattonaggio usualmente praticato dagli zingari, scrive la Cassazione, per «alcune comunità etniche costituisce una condizione di vita tradizionale molto radicata nella cultura».

Lo fanno adulti e bambini, non c’è da scandalizzarsi. Altroché se c’è da scandalizzarsi, replicano indignate le parlamentari del centrodestra. Per Gabriella Carlucci, vicepresidente Pdl della commissione Infanzia, «la sentenza derubrica a maltrattamenti in famiglia lo sfruttamento dei minori e legittima la riduzione in schiavitù dei piccoli rom». Barbara Saltamartini, componente della stessa commissione, si chiede come sia possibile che «mendicare anche soltanto "part-time" non venga considerata una forma di costrizione per un bambino di quattro anni? Questa sentenza sembra obbedire ad una logica ideologica, i bambini rom non sono bambini di serie B».

Nel centrosinistra non si grida allo scandalo ma neppure si giustifica la teoria messa in piedi dalla Cassazione. «Questo è veramente un caso di relativismo etico — dice la parlamentare del Pd Livia Turco —. Io capisco lo sforzo che hanno fatto i giudici per comprendere il contesto, anche culturale, in cui vive quella famiglia rom ma questo sforzo non può portare ad accettare una condizione che è contraria ad ogni valore comunemente condiviso in difesa dei diritti dei bambini». Stessa certezza per la vicepresidente Pd della bicamerale Infanzia, Anna Serafini. «È ovvio che non ci troviamo di fronte ad un’organizzazione criminale che sfrutta i minori. Ma anche in questo caso c’è un interesse superiore del bambino che non possiamo dimenticare. È il suo diritto a non vedersi privato dell’infanzia e sottratto alla scuola».

Mariolina Iossa

il senso del denaro

Il senso del denaro

LUCIA ANNUNZIATA
Un po’ di conti: se una famiglia guadagna 500 euro al mese, un dono mensile di 40 euro costituisce quasi il 10% di aumento del suo reddito.

Sputateci sopra! Molto fastidiosa, perché molto snob, la discussione sollevata dall’introduzione della Social card. Si è sentito di tutto: «Umiliante elemosina», «tessera annonaria», «beffa». «Misura irrisoria e paternalista». Definizioni eccessive, e perfetto esempio di come la polemica a tutti i costi spesso non fa bene all’opposizione e non lede il governo.

Provo a partire dalle critiche fin qui mosse al pacchetto anticrisi che il governo dovrebbe approvare: si dice che 80 miliardi sono pochi per un vero intervento, sono ancora tutti sulla carta e in più i soldi realmente disponibili sono in parte già impegnati, come quelli per il Sud (i fondi Fas). Più sostanzialmente il pacchetto è criticato tuttavia per il suo approccio: esaminate da vicino, le sue misure sono più di difesa contro il peggio che un vero stimolo economico. La mancanza di un intervento diretto sulle tredicesime, per far sì che davvero i consumi vengano rilanciati nel critico periodo di Natale, è un buon esempio simbolico di tutti questi limiti.

Sono critiche condivisibili, che per altro sembrano avere un’eco nello stesso governo, se è vero quel che si legge delle tensioni dentro l’esecutivo intorno a un intervento prima di Natale, e se si leggono bene le dichiarazioni del premier sulla necessità di avere più risorse a disposizione, grazie anche alla leggera flessibilità sui parametri arrivata dall’Europa. Ma - ecco la vera domanda - perché respingere (ridicolizzare) le misure che contiene di una qualche efficacia? Ad esempio: lo spostamento del pagamento dell’Iva al momento in cui si incassa non è certo un forte intervento di detassazione, ma non è anche un piccolo sollievo? Ancora: se gli ammortizzatori sociali vengono estesi anche a lavoratori precari e irregolari, si può dire giustamente che questi fondi non sono sufficienti per tutti coloro che si troveranno in difficoltà, ma bisogna per questo respingere quelli che arriveranno a pochi?

Lo stesso vale per la Social card. Non mi è chiaro che cosa ci sia esattamente da criticare. È dedicata specificamente «agli ultimi degli ultimi», a quel milione e mezzo di poveri irreversibili - vecchi, donne sole con bambini, famiglie prive d’ogni prospettiva - gli stessi la cui esistenza Prodi denunciò, facendone la base dei suoi interventi più immediati. La Card è per definizione un piccolissimo gesto di sostegno sociale e se anche fosse la piccola carità dei capitalisti compassionevoli, non sarebbe per questo da respingere. Su qualche giornale (centrodestra e centrosinistra) si sostiene che questi interventi deludono la classe media, ma i fondi dedicati a questa assistenza avrebbero avuto ben piccolo impatto su quel che serve per la classe media. Mentre per i veri poveri, per chi guadagna 500 euro al mese, anche 40 euro in più fanno una differenza.

L’impressione è che al centro della discussione sulla Social card ci sia un vuoto di consapevolezza su che cosa sia la povertà. Non la povertà «percepita» di una società che diventa progressivamente più immobile, né quella della classe media che deve ridefinire il suo stile di vita, e neanche quella di una classe operaia che deve drasticamente ridurre anche i consumi essenziali. Parliamo di poveri veri, che per metà vivono con quello che hanno, per l’altra metà vanno alle mense pubbliche; di coloro per cui a Natale andare a mangiare un pasto decente (e servito) alla Comunità di Sant’Egidio fa tutta la differenza del mondo. Questa la gente che a volte ruba una mela nei supermercati o che nei supermercati con dignità compra una mela e una scatola di pelati a prezzi scontati. E anche chi sta meglio di loro - e che non avrà la Social card - non vive con molto di più: la pensione di un operaio che ha lavorato quarant’anni è fra 700 e 800 euro, e uno stipendio nel nostro Paese è di 1200-1500 euro.

Questo è il senso del denaro che hanno i cittadini comuni. Per ognuno di loro 40 euro sono un mese di carica per il telefonino del figlio o una sera fuori a cena, o la spesa di una settimana. Per quelli davvero poveri 40 euro sono il consumo mensile di elettricità, la differenza fra riscaldarsi o meno. Inoltre, queste persone non hanno vergogna di avere nelle mani una carta che ne attesti la condizione di povertà: i veri poveri sanno di esserlo e conoscono già l’umiliazione di mettersi in fila alle mense, o di chiedere ai figli qualche lira in più. Una carta probabilmente porta loro almeno un senso di considerazione da parte degli altri. Sono poi stati così terribili i «food stamp» kennediani? Erano certo più dei 40 euro della nostra carta, e come questa sono stati discussi: i neri d’America ne sono stati umiliati ed esacerbati, ma ne sono anche stati aiutati in uno dei peggiori passaggi della loro storia.

Attenzione, dunque, a non parlare per chi non ha la nostra stessa condizione e la nostra stessa voce. Quelli che «con 40 euro si comprano tre caffè e le sigarette» probabilmente non si rendono conto dell’ammontare di privilegio che è contenuto in questa frase.

mercoledì 26 novembre 2008

LA TV LA FAI TU



Tv, lo spettatore digitale va in regia

Addio all'analogico, cambia il consumo Da aprile spariranno i vecchi televisori

di Fausta Chiesa dal "Corriere Online"

E' cominciata senza intoppi la rivoluzione della televisione in Italia. Il passaggio dalla trasmissione analogica a quella digitale è diventato realtà in Sardegna, prima tappa del cosiddetto switch off, cioè lo spegnimento del segnale analogico — il modo in cui i canali entrano in casa nostra da quando è nata la Tv — e il passaggio all'era digitale. Dal primo novembre sull'isola si sono spenti i ripetitori della vecchia tecnologia e tutte le televisioni trasmettono soltanto in quella nuova, più moderna ed efficiente. Oltre 640 mila famiglie sono entrate definitivamente nell'ambiente televisivo all digital, tutto digitale.
Il calendario dello «switch off»
Lo switch off è previsto da una normativa europea e deve avvenire in tutti i Paesi dell'Unione entro il 12 dicembre 2012. La rivoluzione della Tv è destinata a toccare tutta l'Italia, secondo un calendario prefissato. La prossima regione a spegnersi sarà a metà maggio del 2009 la Valle d'Aosta, poi sarà il turno del Piemonte occidentale a partire dal 13 luglio. Le province di Trento e Bolzano si spegneranno completamente il 15 ottobre. A seguire, sempre l'anno prossimo, Lazio e Campania, il Piemonte orientale e la Lombardia (primo semestre 2010), l'Emilia Romagna, il Veneto, il Friuli Venezia Giulia e la Liguria (secondo semestre 2010), fino al traguardo del 70% della popolazione italiana digitalizzata nel 2010. Una data che potrebbe essere anticipata: «Se tutto andrà bene — spiega Paolo Romani, sottosegretario del ministero dello Sviluppo economico con delega alle Comunicazioni — nulla toglie che si possa anticipare la transizione alla nuova tecnologia anche per l'altro 30% della popolazione».
Ma perché si cambia? Perché la nuova tecnologia è più efficiente. Il digitale è una tendenza comune a tutti gli apparecchi elettronici: computer, telefoni cellulari, cd. Soltanto la televisione è ferma alla tecnologia analogica. Grazie alla Tv digitale terrestre — in sigla Dtt ( digital terrestrian television) — si può vedere una maggiore quantità di programmi disponibili, perché sulla medesima frequenza possono viaggiare cinque canali e non soltanto uno. Tutti i sardi sono passati da un'offerta televisiva analogica di 26 canali (10 nazionali e 16 locali) a una nuova offerta digitale gratuita di 59 canali (29 nazionali e 30 locali). La qualità dell'immagine e del suono è migliore. Si hanno poi più possibilità di utilizzo: è possibile vedere sia la versione in lingua originale di un film sia quella doppiata con sottotitoli in diverse lingue e, attraverso un canale di ritorno (come una linea telefonica), si può interagire con la trasmissione.
La tecnologia cambia, l'apparecchio televisivo no. Per ricevere il segnale digitale e quindi poter ancora guardare la Tv dopo lo spegnimento del segnale analogico serve soltanto avere il decoder o set top box, un'apparecchiatura da collegare al televisore. Non bisogna installare alcuna parabola, bastano le antenne tradizionali con cui abbiamo sempre ricevuto le Tv nazionali e le Tv locali. Per comperare il decoder (soltanto il modello interattivo), il governo dà un incentivo pari a 50 euro destinato alle famiglie che hanno un reddito annuo inferiore ai 15 mila euro e sono in regola con il pagamento del canone. Da alcuni mesi esistono anche televisori con sintonizzatore digitale integrato, che funzionano senza decoder. Una legge dello Stato impone dal prossimo aprile 2009 la vendita in Italia esclusivamente di televisori con sintonizzatore digitale integrato.
Il mercato che cambia
Oltre a moltiplicare l'offerta, il passaggio al digitale crea anche la possibilità per l'ingresso di nuovi operatori nel mercato: si liberano nuove frequenze e su una frequenza digitale passano cinque canali. In Sardegna, si è creato un dividendo digitale di due frequenze, che saranno assegnate in futuro secondo un bando di gara studiato in accordo tra il ministero e l'Autorità garante per le Comunicazioni. Secondo Paolo Romani, il sistema radiotelevisivo italiano si aprirà, mettendo fine al duopolio Rai-Mediaset: «La televisione italiana, dopo una sorta di guerra dei trent'anni sul livello di pluralismo e del numero dei soggetti operanti, intraprende una nuova strada». Ma non tutti sono d'accordo. Secondo l'associazione Altroconsumo «nel passaggio dall'analogico al digitale saranno privilegiati i soggetti in posizione già dominante. Il duopolio si riprodurrà anche nel nuovo contesto e si ripeteranno gli effetti distorsivi e anticoncorrenziali che impediranno a nuovi soggetti di intervenire, sia sul mercato televisivo che su quello, nuovo, dei servizi a valore aggiunto possibili con le frequenze digitali». Altroconsumo ha presentato un esposto alla direzione generale della Concorrenza della Commissione europea per chiedere un intervento sulla questione. Il commissario Neelie Kroes ha fatto sapere che l'assegnazione delle frequenze digitali dovrà avvenire in base a un sistema «equilibrato e trasparente », altrimenti la Commissione europea andrà avanti con la procedura d'infrazione già aperta fin dal luglio 2006 sulla legge Gasparri.

Fausta Chiesa

lunedì 24 novembre 2008

VERO & FALSO

da DAGOSPIA, er mejo sito che ci sia!


VIENI AVANTI, TONINO – FACCI SPUTTANA IL LIBRO BY DI PIETRO: OGNI COSA DETTA, SCRITTA E SBUGIARDATA – “PURO DELIRIO” SUL CAV. – I RETROSCENA SULLA MERCEDES – I PRESTITI E LE DIMISSIONI – MANETTE A GARDINI - VERSACE INNOCENTE (MA COLPEVOLE)…

Filippo Facci per "Il Giornale"

Nulla è più inedito dell'edito, e nulla è più falso di un falso ripetuto. È la morale che si trae dai primi stralci de «Il guastafeste», libro-intervista che Antonio Di Pietro ha realizzato con Gianni Barbacetto, un giornalista transigente come uno scriba col suo faraone. In questo libro ogni cosa appare già detta, già scritta e già sbugiardata: nei fatti, negli atti e nondimeno in «Antonio Di Pietro, Intervista su Tangentopoli» che è un altro libro realizzato dall'ex magistrato nel 2000 con Giovanni Valentini

Quindi nessuna novità: semmai, come direbbe lui, reiterazione del reato e ulteriore inquinamento delle prove. Con l'aggravante che per confutare un libro di Di Pietro non basterebbe neppure un altro libro, tante sono le omissioni e le semplificazioni. Ma divertiamoci un pochino lo stesso.

BERLUSCONI È COME IL FÜHRER
Prima però dobbiamo liquidare le parti di puro delirio: «Per Berlusconi i magistrati rappresentano ciò che gli ebrei rappresentavano per Hitler: razza infame da eliminare, anzi dementi da mandare nei manicomi. Non lo dico io: l'ha affermato lui stesso. Non credo che bisognerà aspettare molto. La soluzione finale è vicina». È vicino anche il sanatorio, se Di Pietro volesse sottoporsi a un comune controllo medico: neppure l'ignoranza può più assolverlo: parliamo dell'uomo che aveva appena paragonato Berlusconi a Videla, un dittatore assassino che fece fuori due generazioni di argentini buttandole dagli aerei. «Neanche sotto il regime fascista si era tentato di infinocchiare l'opinione pubblica con i soldati nelle città. Neanche Mussolini, con le sue otto milioni di baionette, aveva osato tanto». Aspettando approfondimenti, Di Pietro potrebbe cominciare con 20 gocce di Lexotan la mattina presto.

MA QUALE MERCEDES
«Dopo averla tenuta in prova per qualche giorno, mi resi conto che consumava troppo. Perciò non la comprai». Fine della spiegazione: peccato che a contraddirlo ci sia la realtà confortata da tre sentenze da lui inappellate. Leggiamo: si fa riferimento ai favori che un imprenditore inquisito per bancarotta, Giancarlo Gorrini, fece al magistrato, e si legge di «sistematico ricorso di Di Pietro ai suoi favori», dunque «Nel 1990 Gorrini aveva poi ceduto a Di Pietro (...) un'auto Mercedes 300 CE, provento di furto già indennizzato dalla compagnia assicuratrice Maa, per un importo di circa 20-25 milioni a fronte di un valore dell'auto di circa 60 milioni

L'auto era stata rivenduta dopo 2/3 mesi da Di Pietro, il quale aveva trattenuto la somma percepita per la vendita. «I fatti si erano realmente svolti ed alcuni rivestivano caratteri di dubbia correttezza, se visti secondo la prospettiva della condotta che si richiede a un magistrato». La stessa sentenza spiega che l'auto fu rivenduta all'avvocato Giuseppe Lucibello per 50 milioni; i soldi furono restituiti con assegni circolari emessi nel maggio 1994 ma incassati in novembre, poco prima delle dimissioni. Di Pietro si stava ripulendo.

IL PRESTITO, I PRESTITI
Di
Pietro, nel libro, ammette di aver ricevuto un prestito da cento milioni ma precisa di non averli restituiti «con banconote avvolte in carta di giornale, li ho restituiti con assegni». Anzitutto: di quale prestito parla? Dei cento milioni senza interessi ottenuti dall'inquisito Gorrini? O degli altri cento senza interessi ottenuti dall'imprenditore inquisito Antonio D'Adamo? Senza contare le altre periodiche buste di contanti, le case, i vestiti, i lavori per il figlio e per la moglie, la Lancia Dedra per la moglie, i telefonini, una libreria, persino uno stock di calzettoni al ginocchio.

Anche questo è tutto a sentenza, e difficilmente il Csm l'avrebbe perdonato: ma Di Pietro si dimise. Per quanto riguarda i soldi restituiti in assegni circolari e non in carta di giornale, la questione è semplice: i soldi furono restituiti con assegni circolari ma poi incassati e avvolti in carta di giornale, sempre poco prima che si dimettesse. Classica omissione alla Di Pietro.

POTEVO SALVARE GARDINI

Il nostro racconta per l'ottantesima volta la sua verità su Gardini: in sintesi dice che spiccò un ordine d'arresto e poi «Il suo avvocato comincia con me una trattativa», «Do la mia parola: non andremo ad arrestarlo». «Se avessi detto: "Prendetelo", Gardini sarebbe vivo. Ma avevo dato la mia parola». E, alle 8 del mattino dopo, Gardini si sparò.
Vediamo com'è andata davvero. Nella prima estate 1993 Raul Gardini pensava di potersela cavare come avevano già fatto Cesare Romiti e Carlo De Benedetti: un memoriale decoroso al momento giusto, tanto per cominciare. Ma altri segnali erano di cattivo presagio.

Quando venne a sapere che il pm Francesco Greco (non Di Pietro: Francesco Greco) aveva chiesto un primo mandato d'arresto contro di lui, quasi non ci credette: ma il gip Antonio Pisapia in ogni caso rispedì tutto al mittente. Francesco Greco tornò tuttavia a lavorarci, sinché il gip Italo Ghitti, il 16 luglio, accolse il mandato di cattura, che rimase sospeso come una spada di Damocle. Il 17 luglio 1993, Gardini venne a sapere che il mandato d'arresto contro di lui era stato firmato: al che, coi suoi due avvocati, uno dei quali era Giovanni Maria Flick, predispose ben più di un decoroso memorialetto: si dichiarava disponibile a parlare di tutta la vicenda Enimont e quindi anche di soldi ai partiti e contabilità parallela e paradisi fiscali.

Chiese un interrogatorio spontaneo come altri avevano ottenuto, e mandò l'altro avvocato, Dario De Luca, in avanscoperta: ma quest'ultimo tornò con le pive nel sacco e il segnale era preciso, non volevano interrogarlo: volevano arrestarlo. Meglio: volevano interrogarlo, poi arrestarlo e poi reinterrogarlo da galeotto. Il 20 luglio Gardini apprese che Gabriele Cagliari si era suicidato nello stesso luogo in cui Di Pietro lo voleva spedire, e questo con un mandato d'arresto che intanto era sempre lì, sospeso. Sinché i legali dissero a Gardini che il mandato d'arresto era già firmato e che la galera doveva farsela.

Dissero che avevano ottenuto di rimandare l'arresto al giorno dopo, ma era un mezzo bluff, perché in realtà il proposito di arrestarlo nel pomeriggio era stato rimandato solo per evitare che le successive perquisizioni potessero protrarsi sino a notte fonda: cosicché, con le sue gambe o col cellulare della polizia, Gardini sarebbe andato in procura e poi in galera. Il mattino Gardini lesse Repubblica (che riportava alcune anticipazioni de Il Mondo che lo riguardavano) e non resse più, si uccise.

La reazione di Di Pietro, a caldo, fu questa: «Nessuno potrà più aprire bocca, non si potrà più dire che gli imputati si ammazzano perché li teniamo in carcere sperando che parlino». Aveva ragione: qualcuno si ammazzava prima ancora di finirci. Quel giorno stesso, Di Pietro mandò ad arrestare parenti e amici di Raul Gardini, tra i quali Carlo Sama e Sergio Cusani.

VERSACE È INNOCENTE, MA COLPEVOLE
«Sconfitto io? L'indagine su Versace riguardava le tangenti alla finanza. Ebbene: le tangenti sono state pagate, i finanzieri sono stati condannati. Versace è stato condannato in primo grado e in appello e alla fine, in Cassazione, ha convinto l'ultimo giudice di essere stato costretto a pagare». Non è proprio così. Gli stilisti Mariuccia Mandelli (Krizia), Gianfranco Ferrè e Santo Versace, più altri, furono inquisiti dal Pool e dapprima condannati a Milano, ma successivamente assolti a Brescia: si sentenziò che non avevano corrotto la Guardia di finanza.


Filippo Facci

È vero, semmai, che altri stilisti inquisiti nella stessa indagine, e che pure si ritenevano innocenti (tra questi Giorgio Armani e Gimmo Etro), frattanto avevano optato per la legge del Pool, e quindi scelto di patteggiare a Milano con teorica ammissione di colpa. La vera domanda che lo scriba Barbacetto avrebbe potuto fare al suo faraone, dunque, è questa: il Pool chiese circa 3.200 rinvii a giudizio in dieci anni, ma in altri 1.300 casi le posizioni degli inquisiti sono finite ad altre sedi.

Bene: si dà il caso che il numero di questi inquisiti finiti in altri tribunali, e regolarmente assolti, sia straordinariamente alto; come mai? Gli esempi sono tanti: l'editore Sergio Bonelli (accusato a Milano e assolto a Brescia) e il manager Franco Nobili (in galera a Milano e innocente a Roma) e l'ex ministro Clelio Darida (in galera a Milano e assolto a Roma) e i manager Vittorio Barattieri e Daniel Kraus (in galera a Milano e assolti a Roma) e il commercialista Generoso Buonanno (in galera a Milano e assolto a Mantova) eccetera. Oltretutto: perché i suddetti risultano esclusi dalle statistiche del Pool di Milano? Questa pagina è finita, il libro di Di Pietro purtroppo.

[24-11-2008]

POLANSKI ON THE BODIES






i film di Polanski proiettati sui corpi

domenica 23 novembre 2008

SOTTO INCHIESTA META' DELLE UNIVERSITA' ITALIANE


SOTTO INCHIESTA META' DELLE UNIVERSITA' ITALIANE
da il Giornale online

Gian Marco Chiocci
Luca Rocca

Roma - Concorsi farsa, parentopoli, baronati, esami venduti, test fantasma, appalti, sesso per un trenta senza lode. Ecco tutte le inchieste avviate sulle università da parte di procure, giudici contabili, tribunali amministrativi. Nonché istruttorie «interne» avviate dagli stessi atenei, rivelazioni degli studenti anti-baroni. Una trentina di fascicoli aperti su un totale di 66 atenei in Italia. Vuol dire che praticamente la metà delle università in un modo o nell’altro è coinvolta in uno scandalo.

martedì 18 novembre 2008

LA FINE DI WALTER


La fine di un solista

di Ernesto Galli Della Loggia

Un passo dopo l'altro il Pd sembra rimangiarsi il suo impegno di neppure un anno fa di «andare da solo», di considerarsi potenzialmente maggioritario, e dunque di non avere bisogno di nessuna «unione» con altri. Come conseguenza, un passo dopo l'altro ritorna d'attualità l'unità delle sinistre. Lo indica tutta una serie di fatti: dalla nessuna presa di distanza da parte del Pd nei confronti della linea dura della Cgil di Epifani, all'appoggio senza riserve offerto al movimento contro le riforme volute dal ministro Gelmini, che pure hanno riscosso un favore tutt'altro che limitato al centro destra, alla crescente tentazione dell'antiberlusconismo duro e puro presentato di nuovo come argine necessario contro il «regime», alla gestione della questione della Commissione di vigilanza sulla Rai, infine alla presentazione di una candidatura unitaria (espressa dall'Italia dei Valori, e anche questo è significativo) per le elezioni regionali in Abruzzo.
Di per sé, naturalmente, nessuna di queste scelte è una scelta esplicita per l'unità delle sinistre. Esse lo diventano però dal momento che, complessivamente, allontanano inevitabilmente il Pd da una posizione riformista spostandolo su posizioni agitatorie e radicali tradizionalmente proprie delle forze alla sua sinistra, dai Verdi a Rifondazione. Sono scelte, ad esempio, che fanno incontrare al Partito democratico una piazza che esso ormai conosce e controlla solo in parte, e di cui quindi finisce spesso per essere più la coda che la guida. Sono scelte che di fatto consegnano la bandiera dell'opposizione, e dunque anche quella del Pd, nelle mani di categorie (i piloti), di pezzi di sociale (il magma studentesco), di protagonisti (Di Pietro, i comici!), che in realtà hanno a che fare poco o nulla con un moderno partito riformista. L'unità delle sinistre si sta riformando nelle piazze e negli studi televisivi.

E' chiara qual è la causa immediata di questo lento ma deciso abbandono da parte del Pd delle posizioni «soliste» abbracciate poco prima delle ultime elezioni. E' la debolezza della leadership di Walter Veltroni. Azzoppato dalla dura sconfitta elettorale; insidiato dalle continue, inestinguibili, lotte interne; incapace di comporre in un accettabile grado d'unità le due o tre diverse anime confluite nel Pd, Veltroni non è ancora riuscito a trovare — e a praticare — una linea politica d'opposizione capace di tenere insieme, e di rendere egualmente visibili, il profilo riformista del suo partito da un lato, e dall'altro la chiarezza del quotidiano contrasto rispetto al governo. Così, sentendo il terreno mancargli ogni giorno sotto i piedi, si è «buttato a sinistra », come si dice. Privo del consenso degli elettori ha cercato almeno quello dei manifestanti; persa la battaglia dei votanti, si è messo a sperare nelle lotte dei «movimenti». E ha consentito, anche con la sua voce, che divenissero sempre più forti le voci del no, della contrapposizione di principio, di un'esibita quanto dubbia diversità antropologica.

Ma non c'è solo la debolezza di un leader dietro la svolta in atto che sta irresistibilmente spingendo il Pd verso una riedizione dell'unità delle sinistre. C'è qualcosa di più profondo, ed è la sua evidente difficoltà di condurre una lotta politica su due fronti: proprio quella lotta, cioè, che, specie nell'ambiente italiano, così pervaso di vecchi e sempre nuovi massimalismi, è la linea obbligata di un partito riformista. Ma è un obbligo che il Partito democratico fa una terribile fatica ad assolvere perché per farlo dovrebbe abbandonare (e forse non avere mai neppure conosciuto) quella cultura di antica matrice comunista che esso invece ancora si porta dentro. Cultura che ha la sua premessa decisiva nell'idea che nella storia, alla fine, c'è posto solo per due parti: quella del bene e quella del male, destinate allo scontro finale.

Come evitare, però, se si adotta questa visione l'obbligo di stare tutti i buoni dalla stessa parte, tutte le sinistre insieme a sinistra? Si dirà che però di battaglie su due fronti, e cioè anche contro formazioni alla sua sinistra, il vecchio Pci ne fece tante: per esempio contro i trotzkisti o contro il terrorismo goscista. E' vero, ma non a caso, come ognuno ricorda, ogni volta esso sentì il bisogno, per farlo, di qualificare pubblicamente i propri avversari di sinistra come «fascisti» (lo stesso Craxi e i suoi non sfuggirono all'epiteto): ristabilendo così la dicotomia accennata sopra. In forza della quale, insomma, a sinistra c'è posto solo per una parte, per i buoni: cioè per «noi» e i nostri amici; tutti gli altri non possono che essere finti buoni, lupi travestiti da agnelli, «fascisti» appunto. Solo la cultura del riformismo socialista, rifiutando una visione manichea della storia, ha avuto storicamente la possibilità di combattere vere battaglie su due fronti, contro la destra e contro la sinistra radicale (perlopiù comunista), chiamando quest'ultima con il suo nome e accettando la sfida a sinistra. Il Pd, invece, è preso in una morsa: se vuole essere riformista si trova di fatto ad avere, anche stando all'opposizione, dei nemici a sinistra che il suo riformismo stesso gli impedisce però di considerare «fascisti»; ma non essendo ideologicamente riformista abbastanza, non riesce ad accettare di essere combattuto e di combattere tali nemici, rinunciando all'idea di farseli in qualche modo alleati. Nasce da qui, alla prima occasione, il ricorrente miraggio dell'unità delle sinistre, altra faccia obbligata del «niente nemici a sinistra»: una linea che è sempre stata la pietra tombale di ogni riformismo. Schiacciato dalla quale Walter Veltroni minaccia di concludere oggi la sua appena iniziata avventura di «solista».

18 novembre 2008

lunedì 17 novembre 2008

inedito dei Beatles

McCartney vuole diffondere
il brano inedito dei Beatles
"Carnival of Light", brano sperimentale di 14 minuti, fu pensato per un festival al Rounhouse Theatre

LONDRA - Manca ancora il nullaosta di Yoko Ono e Ringo Starr. Paul McCartney, però, ha deciso. E' ora che il mondo ascolti un brano sperimentale inciso dai Beatles nel 1967 e per 40 anni negato ai fan. Si tratta di Carnival of Light, un pezzo di 14 minuti che contiene grida e rumori di ogni tipo, tra cui anche gargarismi eseguiti da McCartney. Venne commissionato per un festival al Rounhouse Theatre di Londra ed inciso negli studios di Abbey Road durante la lavorazione di Penny Lane.

TROPPO D'AVANGUARDIA - John, Ringo e George - ha raccontato Sir Paul alla Bbc - bocciarono il brano in quanto troppo «all'avanguardia», lo eseguirono dal vivo una sola volta. A McCartney invece piaceva e piace ancora. «La cosa che più mi colpisce è che sono i Beatles in piena libertà, i Beatles che vanno fuori pista», ha sottolineato, aggiungendo che «è arrivato il suo momento». McCartney, intanto, continua a produrre materiale nuovo. L'intervista alla Bbc segna infatti l'uscita del terzo album di musica sperimentale prodotto con il nom de plum Fireman.

Paola De Carolis
16 novembre 2008

domenica 16 novembre 2008

MANON


MANON, BALLERINA
Il fumo delle sigarette la soffoca, il passo dei camerieri l'assilla: s'affrettano, da un capo all'altro dell'anno. E il barman, assorto nella digestione dei suoi pensieri, e i ballerini... Lì ce n'è uno languido, i gesti molli a forza di stringere solo donne — quando ballano gli s'attaccano all'anima — e là uno greve, che da buon sensale viene a scegliersi... E lo champagne. Lo champagne è simbolo di gioia, sì, come i festoni dei compleanni, le bandierine come corna sugli autobus... che invenzione!

Passa un cameriere in giacca bianca, il tovagliolo a mo' di sciarpa, le sfiorano sempre il tavolo sotto il naso, appena il tempo di bisbigliarle: «Quello grosso, là in fondo... mi ha chiesto come ti chiami... banchiere». E lei che fa, si alza? Ogni dieci minuti va in bagno a rifarsi il trucco. Si fanno due chiacchiere con l'addetta ai bagni. E lì il cuore si scioglie, e allora si dice: «Ne ho piene le tasche...». Un'oasi di tranquillità: quella riesce a lavorarci a maglia. Si direbbe proprio una quinta di teatro, no? Ma lì dentro, ci si rilassa davvero? Quelle già sciupate diventano brutte: il collo, i fianchi cedono. A quel punto si dice: «E sì, vecchia mia...» e ci si lancia nelle danze. E la sala che s'attraversa: si camuffa tutta la propria debolezza, tutta la vergogna, sotto la spocchia.

****

Hanno pranzato e cenato insieme. Il cameriere serve il caffè e adesso lei tiene d'occhio l'uomo. È a questo punto che diventano distratti, che abbassano la nuca. All'inizio, per loro, il desiderio è triste, come un giogo. Si calmano solo quando hanno la certezza di possedere.

Rientriamo? Lei sorride un po' inquieta, un po' languida... Lui apre la porta e la fa entrare. Lei compie, lì dentro, i suoi primi passi: una stanza è sempre una gabbia. Lei si siede ai piedi del letto. Il lenzuolo aperto vi disegna una ferita fresca, di un biancore accecante. L'uomo la prende dolcemente per le spalle... «Mi lasci abituare...». Il respiro di Manon si accelera.

Controllando la voce, lui dice: «Amore mio...». Quelle parole la turbano. Lì, in quella stanza piena di libri, dai mobili pesanti, una stanza solida come la cabina di una nave... be', non è la stessa cosa. Un ritratto... la moglie, forse... quanto tempo? Vent'anni, forse? Lì dentro si è ben sistemati come per affrontare un viaggio infinito... è un mondo a sé. Non è una di quelle camere d'albergo dove non si lascia traccia, da cui si esce con il fiato appena un po' grosso, né una di quelle garçonnière dove tutto è troppo fragile per serbare impronte... Lì dentro lei si vede improvvisamente come una povera cosa sgualcita, sciupata... e poi non le deve dire... Amore mio... «Sarei io il suo amore, signore? Bell'amore! Non sa neanche chi sono...». Lui l'interroga con lo sguardo. «Una semplice ballerina, vede... certo che non posso vivere solo di ballo!». Lei è terribilmente scoraggiata. Lui sussurra: «Povera ragazzina », accarezzandole i capelli con dita distratte.

Manon avverte oscuramente che lui non ascolta; che è indifferente alla sua ultima confidenza. L'avrebbe allontanato o avvicinato a sé, poco prima, ma adesso... Allora non è altro, per lui, che un oggetto, come per gli altri? Sconfortata, gli dice: «Sono fatta per gli uomini, io». Lui la prende tra le braccia e la culla. Se solo potesse cullarla così, semplicemente, a lungo... lui le ha regalato un giorno di vacanza, le ha parlato come un amico. E lei ha imparato, studiosa, tante cose. Se solo potesse rimanere così, semplicemente. Lei azzarda, impaurita, una confidenza: «Sogno di avere un amico; ne avevo uno, una volta, e quando ero triste glielo dicevo, e anche lui...». Lui la bacia. «No, non sulle labbra... — perché ragazzina? — Sulla guancia, è più dolce». Lei si stringe contro la sua spalla. Ma lui si porta dietro il peso della noia che l'ha schiacciato al risveglio. Ha bisogno di perdersi. Nell'amplesso tutto viene inghiottito, rimpianti, desideri... dopo l'amplesso non esiste più nulla.

Mentre lei si sveste, spunta una spalla nuda, una spalla luminosa. Lui ci appoggia sopra la testa. Lei gli offre il suo calore, la sua vita... «Il mio piccolo, dolce animaletto...». Lo ripete ostinatamente, adesso.

Manon sente aumentare lo sconforto: gli uomini sono pazzi ed ecco che questo è uguale agli altri, con i suoi gesti pieni di attenzioni, ma assurdi, con le sue frasi smozzicate... gli uomini...

Non capisci il loro sguardo. Non capisci cosa desiderano. Senza saperlo puoi far passare sui loro volti il dolore, il piacere, persino l'odio. Non sai quale oscura immagine ricompongano, come fare ad aiutarli... gli uomini sono pazzi!

Lei ricomincia, timorosa: «No... restiamo amici... ». Spera ancora tanto in quella pace. «Signore, le sono debitrice di una giornata così dolce...». Le sue dita formano sul viso dell'uomo una fragile carezza, una fragile barriera. Ma lui, a voce bassissima: «Dammi ciò che desidero, dammi...» Lei si torce le mani: «Ma questo è il mio mestiere! Se sei uno spazzino, spazzi tutto il giorno, finalmente hai un giorno di vacanza... vai a trovare un amico, tutta felice, e quello ti fa: "To' divertiti un po' spazzare!" ». Manon si mette a piangere. Ma lui, con voce più sorda: «Oggi non è giornata, tu non puoi sapere, dammi quel che desidero...». Allora lei incrocia le mani sul petto, piccola preda incosciente, quasi casta. «Sono fatta per consolare l'uomo, ma non ho il diritto di dimenticare». Rimarrà così, inerte. Sulle sue labbra per qualche istante compare la sofferenza, poi i suoi occhi si aprono su quella stanza robusta, massiccia, costruita per le unioni feconde, per i momenti solenni della vita. Avrebbe potuto esserne purificata, maturata... «Sono una piccola cosa sgualcita, insozzata, sono... sono...». Non è nemmeno più triste. È la vita.

Antoine de Saint-Exupéry

mercoledì 12 novembre 2008

AMYAMOLA


Winehouse uccisa... in una scultura
L'opera di Marco Perego sarà esposta da venerdì Half Gallery di New York


MILANO - Amy Winehouse colpita a morte da un proiettile. Accanto a lei il suo assassino, lo scrittore americano William Burroughs. I fan della regina del soul non temano: trattasi di arte. La scena descritta infatti è rappresentata in una scultura ed è frutto della fantasia di un artista italiano. L'opera di Marco Perego, giovane artista di Salò emigrato negli States, sarà esposta da venerdì prossimo a New York, e più precisamente alla Half Gallery, nella East Side di Manhattan. La cantante britannica, ritratta sopra una pozza di sangue, si riconferma una fonte d’ispirazione.

SANTORO SATIRO A SINGHIOZZO


da Dagospia

La Destra mata santoro IL PERMALOSO - la satira deve fermarsi solo quando prende per i fondelli lui - preferisce vauro, lo sfottitore a suo libro paga – FACCI: Il paravento della satira e i mestieranti dell’insulto…
Michele Santoro


1 - DIRITTO & ROVESCIO...
Franco Bechis per "Italia Oggi"
«La satira è il sangue della democrazia. Guai a toccarla, guai a impedirla, guai a limitarla». Lo dice, con gli occhi sbarrati, Michele Santoro, inflessibile conduttore di Annozero. Per Santoro «la satira non deve arrestarsi davanti a nessuno», come spiegò mandando in onda Beppe Grillo che aggrediva Giorgio Napolitano. Pare adesso di capire però che, secondo Santoro, la satira deve fermarsi solo quando prende per i fondelli lui. Per impedire a Joe Violanti di continuare a satireggiarlo su una radio privata, ha mobilitato gli avvocati. Il suo compare, Marco Travaglio, non ci crede: «Santoro adora essere preso in giro da Vauro». Cioè preferisce lo sfottitore domestico, a suo libro paga.

2 - SANTORO: "utilizzo abusivo della MIA identità"
da Il Giornale
«Santoro fa il censore con chi scherza su di lui». Il conduttore di Annozero contro il suo imitatore, Joe Violanti, che su Rds prende di mira politici in maniera «bipartisan», contattandoli per invitarli (per scherzo) alla trasmissione di Raidue. Ma lo sketch dura poco. E alla fine della telefonata lo speaker svela il trucco, presentandosi con il suo nome. Insomma, una risata e fine del gioco. Santoro però non gradisce perché, secondo lui, vi sarebbe un «utilizzo abusivo della sua identità» a danneggiarlo. Domenica scorsa il Giornale pubblica la notizia, intervistando Violanti e ospitando il commento del patron del network, Eduardo Montefusco. Che dopo aver riferito di una telefonata con un Santoro «irritato», racconta di aver poi ricevuto una lettera da parte del suo avvocato, in cui si intima di cessare la messa in onda.
Franco Bechis

Il «caso Santoro» viene ripreso ieri anche da altre testate. E, sul Corriere della Sera, Marco Travaglio afferma di non credere che il collega sia davvero un censore. Per poi aggiungere: «Voglio prima vedere la lettera, altrimenti non ci credo». E chiedersi: «Perché non la pubblicano?». Eccola. Proprio qui sotto troverete il testo della raccomandata spedita a Rds, lo scorso 28 ottobre, da un legale del «vero» Santoro. Che non ci sta a passare per chi nega il «diritto di satira». E spiega, in una lettera inviata al nostro direttore, le sue ragioni.

3 - Il paravento della satira e i mestieranti dell'insulto
Filippo Facci per Il Giornale

Attenzione che non si tratta di reclamare una par condicio della satira o del razzismo o del cattivo gusto: riesumare il presuntissimo «razzismo» di Andrea Camilleri o le battutacce di Sabina Guzzanti non costituisce una giustificazione a posteriori dell'ormai celebre battuta di Berlusconi sull'abbronzatissimo Obama: anzitutto perché sarebbe un demenziale gioco al rialzo (che in Italia vi è comunque) e in secondo luogo perché un presidente del Consiglio fa ovviamente un mestiere diverso rispetto a Lidia Ravera, certo.

Però, ecco: anche lo scrittore Andrea Camilleri fa un mestiere diverso rispetto a Sabina Guzzanti, e anche Beppe Grillo fa un mestiere diverso rispetto a Marco Travaglio, e via così: salvo tutti quanti, come un sol Zelig, rimescolare le carte (anche giudiziarie) e rivendicare il diritto di satira o l'articolo 21 della Costituzione ogni qualvolta dicano una scemenza fuori dalle righe. Ciascuno copre l'altro, e ogni svarione viene all'occorrenza giustificato, contestualizzato, spiegato, e tutti fanno il mestiere dell'altro vestendone solo i privilegi ma scansandone ogni responsabilità.

Sicché Beppe Grillo dice di fare informazione ma senza le regole dell'informazione, e dicendo, quando va male, che lui è solo un comico; oppure fa politica e promuove liste, però è solo un comico. Sabina Guzzanti, nondimeno, parla di satira e però non fa più ridere da anni, non ci prova nemmeno più, fa veri e propri comizi o promuove a sua volta una specie di «informazione» ma senza i limiti imposti ai giornalisti, questi servi; di Marco Travaglio ormai sappiamo, la vanagloria l'ha ormai catturato, incrocia più mestieri ma poi in tribunale oppone il diritto di satira come un comico da Travaglino.
Vauro Senesi

E intanto in internet e in tv e sui giornali e nel Paese lievita un pastone frammisto di tutto, un linguaggio contaminato e a misura di target: confondi Grillo con Camilleri, non ricordi se «nano» a Brunetta l'ha detto Furio Colombo oppure D'Alema, se alla seconda carica dello Stato ha detto «verme» un comico, un giornalista o un cretino, se gliel'ha detto ad Annozero, a Zelig o in un contenitore domenicale; tutto è satira e niente lo è, tutto è uno spolvero di insulti, cartacce giudiziarie e dvd dell'evento a soli 10 euro.

Può sembrare stucchevole discutere sempre di satira e di satira e di satira, e infatti stiamo probabilmente parlando d'altro: stiamo parlando della trasformazione e del rimescolamento di mestieri già in sé fisiologicamente attigui (il comico, il satiro, il giornalista, il politico) in uno scenario dove il diritto di satira è divenuto un jolly giocabile pressoché da chiunque, e a copertura, spesso, di autentiche nefandezze. In un solo caso ogni rigidità viene nuovamente reclamata, e ogni gabbia riconfigurata, e ogni galateo preteso: se parla Silvio Berlusconi.

Berlusconi fa una battuta, sgraziata sinché volete, ma d'altra parte ecco che tutti quanti ridiventano rigidoni, formali, custodi dei confini e dei ruoli: quei confini e quei ruoli che loro hanno già mandato in malora da un pezzo nelle rispettive branche. Come se Berlusconi non fosse l'outsider che innegabilmente è, come se l'antropologia dell'uomo di Arcore fosse un suo punto debole sul quale insistere a vita e non una parte, inscindibile, del personaggio che tutti conosciamo e che a cui gli italiani hanno rinnovato la fiducia.

La satira per contro perde ascolti, e il giornalismo è ormai un guazzabuglio infernale e sconfinato di cui l'Ordine dovrebbe finalmente tornare a occuparsi: così, tanto per ristabilire qualche paletto minimo. Ma campa cavallo. Ora non si tratta di pretendere che la battuta di Berlusconi su Obama non comportasse reazioni: figurarsi, il fanciullino che è in Berlusconi farà tesoro dell'esperienza.
Filippo Facci

Detto questo, accettare lezioni da certa gente è veramente durissima: perché il pulpito che lo addita non è neanche più tanto una sinistra presuntamente superiore, ma è un manipolo di poveracci pagati a insulto, è la zavorra di una sinistra impantanata in quel fango che per troppo tempo ha cercato di scagliare. Ne escano, se possono. E ne escano anche quei giornali, praticamente tutti, che ogni volta ingigantiscono faccende che giganti non sono.

Perché questo è un Paese dove piace sempre meno la satira, vendono sempre meno i giornali e prende sempre più voti Berlusconi: e così pure, beninteso, guadagnano sempre più soldi i Grillo, i Travagli, altri scarabei stercorari. Avanti così, facciamoci del male, diceva un altro genio del gruppo.

martedì 11 novembre 2008

CAVIEZELTV

FACCIAMO SALTARE IL TAPPO GENERAZIONALE!!!


Italia, un Paese da sbloccare
dove non crescono i giovani leader

ETTORE LIVINI


Italia, un Paese da sbloccare dove non crescono i giovani leader

Barack Obama

Nell'era di Barack Obama, in un mondo dove gli equilibri geopolitici di dieci anni fa sono già materia per storici, l'Italia si conferma l'angolo d'Europa più allergico al ricambio della propria classe dirigente. Abbiamo l'Oscar per i leader politici più vecchi (il 49,6% ha più di 71 anni, contro una media del 30% per il resto del continente).

Le poltrone che contano nel campo dell'arte e della cultura sono occupate da un'élite con i capelli bianchi, età media vicina ai 70 anni. Tutti mondi dove le donne - tra l'altro - rimangono una minoranza da Wwf. L'anagrafe, certo, non è l'unica unità di misura per calcolare la qualità di un estabilishment. "Il capitale sociale di esperienze accumulato negli anni è un bene prezioso" ammette Nadio Delai, sociologo, presidente di Ermeneia e coordinatore del Rapporto Luiss 2008 "Generare classe dirigente". L'Italia però ha una cronica tendenza ad abusarne. Il 45,2% dei cosiddetti leader tricolori - i numeri uno di politica, economia, professioni e istituzioni - è ultrasettantenne, contro il 31% della Gran Bretagna e il 28% della Spagna. Un tappo generazionale.

Una gerontocrazia autoreferenziale che non piace al paese (il 73% degli italiani - dice la Luiss - la ritiene irresponsabile, il 68% incompetente, il 79% poco innovativa) e che fatica ad assumersi responsabilità reali.

"È un'elite sui generis - è l'amara fotografia di Delai - attenta a tutelare i suoi diritti ma che tende a sfuggire ai propri doveri, visto che solo il 3% di loro si riconosce davvero come classe dirigente".

Generalizzare, naturalmente, è come sempre sbagliato. In Italia esistono qua e là timide oasi dove il ricambio generazionale del paese marcia a ritmi simili a quelli del resto del continente. Il sistema delle imprese, ad esempio, sta provando un passo alla volta a svecchiare la propria carta d'identità. "Il nostro mondo la sua parte la sta facendo - dice Federica Guidi, presidente dei Giovani imprenditori di Confindustria - Abbiamo fatto saltare il tabù di genere, nominando due donne alla guida delle organizzazioni di categoria. E ci sono molte aziende che hanno rinnovato, ringiovanendoli, i propri vertici".

Certo qualche nodo resta: il timone delle aziende tende spesso a passare di padre in figlio (o figlia). Il vecchio capitalismo di relazioni nato attorno a Mediobanca - anche se un po' segnato dal tempo - è tutt'altro che morto. Il 50% delle imprese del Belpaese però - calcola Banca d'Italia - ha cambiato tra il 2002 e il 2006 il proprio management e gli amministratori delegati under 55 (qui da noi poco più che bamboccioni) sono saliti dal 29 al 44%, avvicinandosi alla media europea. E se a livello nazionale la quota rosa di imprenditrici è ancora bassa - il 17,3% del totale, metà della Francia e un terzo della Gran Bretagna - tra i dirigenti sotto i 35 anni la percentuale uomini-donne è un promettente 50-50.

"Le medie aziende che hanno sfidato la globalizzazione - ammette anche Delai - sono assieme a qualche scheggia di amministrazione locale e a un pezzo del sociale uno dei crogioli più interessanti per la formazione di un nuovo estabilishment".

La buona volontà di pochi però non basta. "I blocchi strutturali del sistema paese rendono difficile lavorare anche a noi - continua Guidi -. Il sistema è ingessato. I giovani faticano a emergere. L'egualitarismo ereditato dal '68 è superato. D'accordo, un po' di tutele devono rimanere e tutti devono essere messi in uguali condizioni di partenza. Ma poi bisogna rendersi conto che oltre ai diritti ci sono anche i doveri e il sacrificio. È una rivoluzione culturale che deve iniziare dalla scuola. Conta il merito".

Una tesi magari condivisibile. Ma se dalla grammatica si passa alla pratica, nemmeno i supermanager pensano che la svolta sia dietro l'angolo: il 96,7% della classe dirigente italiana (contro il 79,9% del resto della popolazione) è convinta che una società più meritocratica farebbe migliorare il paese. Ma un altrettanto plebiscitario 84,7% (contro l'80,6) ammette rassegnato che le raccomandazioni qui da noi contano ancora molto di più delle capacità del singolo. "E non è solo questo - dice Delai -. Il merito da solo non basta. Serve magari a far soldi, ma per forgiare una vera classe dirigente deve essere abbinato a una reale sensibilità per l'interesse collettivo".

Se l'economia si muove al ralenti nella sua battaglia contro la gerontocrazia, la politica se possibile, va addirittura in retromarcia. Cambiano i partiti ("quelli di una volta almeno contribuivano al ricambio generazionale con ottime scuole interne", rimpiange Delai), si mescolano le maggioranze e gli uomini (il ricambio parlamentare è stato in media vicino al 50% a legislatura) ma la cooptazione conta sempre più del valore. E a decidere, alla fine, sono sempre i soliti noti. L'ultima legge elettorale - quella che elimina le preferenze - è il capolavoro che cristallizza in una norma lo strapotere di questa gerontocrazia ingessata: nel 2006 il 75% dei parlamentari è stato ricandidato, di gran lunga la percentuale più alta delle ultime quattro elezioni. E il 33% dei trombati al voto, secondo i calcoli della Luiss, è stato riciclato in poltrone alternative di municipalizzate o enti locali.
Le energie per il ricambio, a guardare le statistiche, non mancherebbero. L'Italia - dicono tutti i sondaggi - ha mantenuto intatta la sua fiducia nelle istituzioni a livelli simili a quelli di Francia e Gran Bretagna, malgrado il vento dell'anti-politica.

"Il passaggio generazionale non si costruisce però solo macinando master in serie all'estero - conclude Delai -. La nuova classe dirigente impara a crescere solo lavorando vicina alla vecchia. Il trapianto tout court della società civile nei palazzi romani è un esperimento che non ha funzionato". Le contaminazioni virtuose tra il meglio del paese e le sue istituzioni in effetti faticano a decollare, imprigionate nella logica perversa della leadership di relazioni e della cooptazione. "Nel resto del mondo l'ingresso in politica è considerato l'apice per una carriera manageriale o universitaria - dice Andrea Sironi, giovane professore della Bocconi e fino a pochi giorni fa prorettore per l'internazionalizzazione dell'università milanese -. Succede in Francia con l'Ena, o a Londra dove primo ministro è un ex rettore come Gordon Brown. Qui invece gli accademici migliori snobbano la politica e i ministri sono spesso cresciuti nelle segreterie di partito...".

E in un momento in cui la crisi finanziaria sta riaprendo le porte di imprese e banche allo stato, il rischio è che il tappo generazionale che grava sull'Italia, invece che saltare, consolidi la sua presa sulla stanza dei bottoni del paese.

aldo grasso

Lucy, Guzzanti e la «meritocrazia»

Potenza del jet set! Domenica mattina, avevo appena finito di leggere un’analisi di Lucia Annunziata sulle elezioni americane, siglata da New York, e pubblicata su un noto quotidiano, quando me la vedo apparire in tv: In 1/2 h (Raitre, ore 14.30).

L’analisi (in realtà, una lettura dei corridoi di Washington) spiegava che Barack Obama è già sceso dall’Olimpo e che adesso bisogna fare i conti con «la macchina di poteri, ambizioni e lotte interne che è l’anima di ogni governo». Insomma, per la realista Lucy il sogno è durato meno di una notte.

Per darci un’idea di cos’è la politica, l’infaticabile jetsettista (scrive sui giornali, fa un programma sulla Rai, è persino coordinatrice del comitato editoriale di Oil, il giornale dell’Enel) intervista Paolo Guzzanti su un tema di alto contenuto: la mignottocrazia, ovvero come diventare ministri per meriti non meglio precisati. Quando Guzzanti accusava Romano Prodi di essere uno dei responsabili dell’omicidio Moro nessun opinionista di sinistra lo intervistava, anzi.

Adesso che è in crisi con Berlusconi, maltrattato dal suo giornale e vittima dell’ostracismo di Forza Italia è ridiventato un «fuoriclasse». Ma intanto nei corridoi di Washington, Obama deve fare i conti con le lotte interne, «l’anima di ogni governo». L’intervista tra Lucy e Paolo Guzzanti (il nostro umile sogno sarebbe quello di vederlo recitare insieme con i suoi tre figli) tocca temi di alta politica: la meritocrazia, ad esempio. Non il caso Carfagna, per carità non abbassiamoci a tanto, dice Lucy, affrontiamo la questione alle radici.

Ecco ad esempio, caro Guzzanti, secondo lei la Gelmini... E intanto nei corridoi di Washington, Obama, sogno di una notte di mezz’inverno, deve fare i conti con le lotte interne, «l’anima di ogni governo». Non è che per colpa del fuso orario rischiamo di leggere i cambiamenti della politica internazionale con gli occhi delle nostre povere lotte intestine?

Aldo Grasso
11 novembre 2008

lunedì 10 novembre 2008

MIRIAM MAKEBA MUORE IN CONCERTO


Miriam Makeba scompare colta da un malore poco dopo la sua ultima esibizione: mezz'ora di concerto per Saviano, contro la camorra. Aveva 76 anni.

venerdì 7 novembre 2008

PUBBLICITA' ONLINE


Pubblicità on line in crescita
un settore che sfugge alla crisi
Comodo per gli utenti, poco costoso per gli inserzionisti pubblicitari
di GABRIELE DI MATTEO



Pubblicità on line in crescita un settore che sfugge alla crisi
C'è molta euforia tra i 6.000 operatori che aderiscono alla seconda giornata dello Iab Forum di Milano. Si parla del futuro della pubblicità on line e, di telefonino in telefonino, corre una sola frase: "Obama ha vinto le elezioni grazie a Internet". Un talismano, che gli addetti ai lavori agitano per scacciare i fantasmi della crisi che, per fortuna, sul comparto della pubblicità online non pesa più di tanto. "Il nostro mercato crescerà del 20% nel 2009, raggiungendo un miliardo di euro. Lo spazio per crescere esiste: in Inghilterra i soldi investiti sul web dalle aziende rappresentano il 18% del mercato (in Italia siamo al 7,5%)", sottolinea Layla Pavone, presidente Iab Italia, che mostra la forte adesione delle imprese al Forum 2008, +35% sull'anno scorso.

Luca Colombo di Microsoft Online, certifica la crescita del mercato: "Il nostro Windows Live Messenger ha raggiunto a settembre un picco di 13,7 milioni di utenti e sul nostro network le pagine viste sono state ben due miliardi".

Ma quali sono le ragioni di questa tenuta in tempi di crisi? Dice Pierpaolo Zollo del sito confronta-prezzi Kelkoo: "Il web tira perché gli utenti già cercano online i regali di Natale per spendere meno, informarsi, e non mettersi in coda nei centri commerciali".

"L'interesse per il web è stato in parte riacceso anche dalla case history di Obama, che ha confermato la forza vincente della rete" dice Francesco Barbarani
di MySpace Italia. Ma oltre al "turbo" Obama c'è anche un aspetto positivo che, a sorpresa, scaturisce dalla recessione. Lorenzo Montagna di Yahoo Italia legge la crisi come un'opportunità: "Internet si sta rivelando un ottimo media per chi vuole continuare a investire in comunicazione, senza spendere cifre enormi. Con costi molto accessibili la grande rete permette alle industrie di raggiungere copiose audience: il nostro Answers, che offre risposte su qualsiasi tema, ha sette milioni di utenti, solo in Italia".

Altra parola-chiave dello Iab Forum 2008, che si conclude oggi con gli spazi dedicati alle grandi aziende, è: "contenuto gratis". Citando "Free", il nuovo libro del guru californiano Chris Anderson dedicato ai "prodotti gratuiti" online, Walter Hartsarich, presidente di Aegis Media Italia, ricorda: "Il modello di business di Internet è la pubblicità interattiva nelle sue svariate forme. Un grande portale di news come Repubblica.it, può offrire contenuti gratuiti a fronte delle inserzioni pubblicitarie ricevute".

Anche il sottosegretario alle Comunicazioni Paolo Romani ha fatto un po' l'americano definendo Internet "il grande driver dello sviluppo industriale anche per le piccole e medie imprese".