lunedì 25 maggio 2009

RITORNANO LE COLF ITALIANE

Le italiane che tornano a fare le colf

Cercano impieghi a ore per arrotondare. E ormai una su quattro non è straniera. «Poche chiedono un contratto»


Una colf (Ap)
Una colf (Ap)
Era il 1956 - l’anno dell’insurrezione in Ungheria e dei giochi olimpici di Mel­bourne - e lei aveva appena 13 anni. Ad Arsiè, la «porta delle Dolomiti» in provincia di Belluno, non c’era lavoro né la prospettiva di mettere su famiglia e così i coniugi Brustolin dissero sì a quella coppia di villeggianti bolo­gnesi che tanto insistevano per «prendere a ser­vizio » in casa loro la piccola Pina. Lei, 13 anni, non aveva alternative: partì con i signori di Bo­logna con in quali sarebbe rimasta più di 10 an­ni a fare, come si diceva un tempo, la serva in casa. Oggi Pina Brustolin ha superato i 60 anni ed è responsabile nazionale della «Acli Colf», l’as­sociazione di categoria più diffusa nel campo della tutela dei diritti di chi esercita il lavoro do­mestico. E dal suo osservatorio privilegiato rac­conta come sta cambiando la figura della colf in questi mesi di crisi economica: «Dopo l’arri­vo di tante donne straniere torniamo ad occu­parci anche delle italiane che chiedono di fare servizi ad ore per arrotondare il reddito familia­re magari messo in crisi da un licenziamento o dalla cassa integrazione». Le italiane, però, si vergognano di dire che vanno a «fare le ore» in un’altra casa. «Magari sono studentesse che si vogliono pagare gli studi o donne che hanno perso il posto che avevano in fabbrica o dal par­rucchiere e così preferiscono farsi pagare in ne­ro (dai sei a nove euro l’ora, ndr) perché consi­derano questo lavoro una tappa, un impegno temporaneo che finirà presto».

È molto difficile quantificare i contorni di questo ritorno delle donne di servizio italiane: ufficialmente l’Inps ha nei suoi computer 1.544.101 rapporti di lavoro registrati che corri­spondono a 774 mila lavoratrici-lavoratori do­mestiche di cui, però, solo 74 mila sono italia­ne. Altre stime di Acli Colf dicono che l’aliquota delle italiane sul totale è del 23 per cento. Di sicuro, tuttavia, il sommerso è diffusissimo an­che perché, conferma Pina Brustolin, le italiane non condividono la casa con il datore di lavoro e, soprattutto, non fanno le badanti che si pren­dono cura degli anziani. Le colf-badanti stranie­re, invece, hanno ormai una visione molto at­tenta dei loro diritti perché a loro «le carte in regola» servono per il permesso di soggiorno senza il quale si rischia l’espulsione e, tra poche settimane, il processo penale perché il governo ha voluto introdurre nell’ordinamento il reato di immigrazione clandestina. Pina Brustolin non può fare a meno di ricor­dare i suoi anni di lavoro: «All’inizio, visto che avevo appena 13 anni, non mi pagavano nean­che i contributi perché ero troppo piccola per lavorare con le carte in regola. Ero spaesata an­che perché a Bologna non potevo uscire di ca­sa: non perché i padroni non volessero darmi qualche ora di libertà ma a causa dei miei geni­tori che si erano raccomandati di non lasciarmi mai da sola. Le giornate erano lunghissime: in casa ci si spezzava la schiena chinate sulla va­sca per fare il bucato perché mica c’erano gli elettrodomestici: ancora oggi mi porto dietro i dolori causati dalle mille ore passate piegata sui panni. Chi era a servizio mangiava in cuci­na, da solo, perché era naturale fare così. E a casa in ferie ci si poteva tornare una sola volta l’anno. Dopo dieci anni, però, partecipai a una riunione del gruppo Acli domestiche e iniziai a capire che potevo fare qualcosa di utile per le altre come me che restavano nella stessa fami­glia 30, 40 anche 50 anni. Non a caso a quei tem­pi si faceva la “festa della fedeltà” durante la quale si premiavano le lavoratrici più costanti con lo stesso datore di lavoro».

Negli anni Cinquanta le garanzie per la colf non c’erano: la legge diceva che potevano dor­mire otto ore e, quindi, implicitamente sottin­tendeva che potevano lavorare anche 16 ore al giorno. Negli anni ’50 e ’60 la parola «serva» ve­niva usata nelle famiglie italiane con molta di­sinvoltura. Nel film I soliti ignoti di Mario Mo­nicelli (1958) si vede una giovanissima Carla Gravina, impiegata a servizio in una casa di due sorelle romane, che in veneto stretto chiari­sce a un prorompente Vittorio Gassman: «Non sono mica una serva, io…». Ed è del 1958 la pri­ma legge che affronta in modo organico il tema del lavoro domestico, mentre l’obbligatorietà delle assicurazioni arriva solo nel 1971 e il pri­mo contratto nazionale c’è a partire dal 1974, quando non solo i ricchi di sempre ma anche i nuovi borghesi del ceto medio offrono posti di lavoro per la cura della casa e dei bambini. L’anno della svolta è il 2002. Il governo Berlu­sconi vara la prima, grande sanatoria per gli stranieri irregolari che lavorano in Italia senza un regolare contratto. Per effetto della regolariz­zazione, le domestiche straniere, che fino ad al­lora erano state poco più della metà delle italia­ne, risultano più che raddoppiate raggiungen­do la quota del 74 per cento. Nel 2002 il totale dei lavoratori domestici è di 552.069 addetti, gli stranieri sono 419.808, gli italiani 132.261. E col passare degli anni l’aliquota della manodo­pera fornita dalle italiane nel settore domestico scende, fino a raggiungere nel 2006 quota 132.261 addetti. Oggi 74 mila secondo l’Inps.

Numeri che in questi mesi sono cambiati. Pro­fondamente. Le domestiche italiane che con la crisi sono tornate a chiedere un lavoro non fis­so sono, secondo il profilo tracciato dalle Acli colf, «prevalentemente sposate, separate o ve­dove, di età superiore ai 40 anni». E ancora: «Svolgono lavori domestici a ore, alcune si de­dicano agli anziani ma non in forma di co-resi­denza ». Mentre le immigrate lavorano maggior­mente nella cura delle persone anziane o mala­te, e sono consapevoli dell’importanza del loro ruolo, le italiane si dedicano alle tradizionali in­combenze domestiche di pulizia, stiro, cucina. Ufficialmente non sono «lavoratrici domesti­che», ma casalinghe o lavoratrici disoccupate. Per motivi fiscali, ma anche perché ritengono il lavoro che fanno come un’occupazione di ripie­go, che abbandonano appena possono. Molte di loro, poi, devono continuare perché sono pensionate ex colf cui l’Inps corrisponde il mi­nimo di 459,58 euro al mese. E c’è da dire che le prospettive di lavoro so­no incerte anche in questo campo: «A una do­manda più consistente di servizi a ore non cor­risponde infatti un’offerta altrettanto elastica». Secondo una recente indagine dell’Irs (Istituto di ricerche educative e formative), le famiglie italiane spendono ogni anno 9 miliardi e 352 milioni di euro per retribuire il lavoro delle assi­stenti familiari che corrisponde al 10 per cento della spesa sanitaria sostenuta dalla Regioni ed è in linea con la somma che lo Stato spende per gli assegni di accompagnamento (10 miliardi di euro). Ma ora, come lo Stato decide i suoi tagli, anche le famiglie rinunciano a qualcosa: perché, conclude Pina Brustolin, una «lavoratri­ce licenziata torna a fare la casalinga a tempo pieno per la sua famiglia e, a ore, magari anche per chi le dovesse offrire un lavoro».

Dino Martirano
25 maggio 2009

giovedì 14 maggio 2009

YOKO ESIBISCE LENNON

YOKO ONO ORGANIZZA UNA MOSTRA-HORROR SU LENNON E INSERISCE “LA STANZA DELLA MORTE” (gli occhialini e la giacca insanguinati DELLA NOTTE IN CUI JOHN FU UCCISO) – LA SOLITA SCUSA: PROVOCAZIONE E MONITO SULL’USO DELLE ARMI…

Alessandra Farkas per il "Corriere della Sera"


yoko alla mostra su lennon

La «stanza della morte» è la più affollata, come davanti ad un incidente d'auto mortale da cui non si riesce, anche volendo, a distogliere lo sguardo. Al centro della sala campeggiano gli occhialini e la giacca insanguinati che John Lennon portava quando fu assassinato a colpi di rivoltella da un fan squilibrato, Mark David Chapman, la sera dell'8 dicembre 1980, a New York. Tra i cimeli c'è anche il sacchetto di carta marrone - anch'esso imbrattato di sangue nerastro - nel quale la polizia aveva infilato gli effetti personali del cantante, prima di consegnarli alla vedova Yoko Ono.

Ed è stata proprio lei ad organizzare la controversa mostra dal titolo «John Lennon: the New York City Years» che ha debuttato ieri al Rock and Roll Hall of Fame Annex di New York. «È stato molto difficile includere quegli oggetti», ammette la 76enne artista di origine giapponese che il prossimo 6 giugno riceverà il Leone d'Oro alla carriera dalla Biennale di Venezia. E aggiunge: «Sapevo che sarei stata criticata».


gli occhiali insaguinati di Lennon in mostra

La sua è stata una provocazione, l'ennesimo happening a scopi politici: «Volevo lanciare un monito sulle conseguenze dell'uso indiscriminato delle armi», spiega. In un angolo della galleria ha fatto sistemare un registro sul quale i visitatori possono firmare una petizione per chiedere di modificare la legge sulla vendita delle armi che verrà consegnata al presidente Barack Obama dopo la chiusura della mostra.


Ma all'Annex sono esposti anche molti altri oggetti legati agli anni newyorchesi di Lennon che, dopo la separazione dei Beatles, lasciò definitivamente la Gran Bretagna per stabilirsi a New York, nel 1971. C'è il tovagliolino di carta dell'Hotel Hilton sul quale scrisse le parole della canzone "Imagine"; la chitarra utilizzata durante il concerto con Elton John al Madison Square Garden e le lettere - firmate da personaggi come Joan Baez e l'allora sindaco di New York, John Lindsay - che documentano la sua estenuante crociata per non essere espulso in quanto «pericoloso sovversivo» sulla lista nera dell'Fbi.

Lennon amava New York, che considerata la nuova capitale del mondo. «Se fossi vissuto duemila anni fa avrei scelto di abitare nella Roma imperiale», soleva dire John, «New York è la Roma del nostro tempo, per questo vivo qui». E Yoko riflette: «È un triste paradosso. E pensare che la città che amava di più è proprio quella in cui è stato ucciso ».


venerdì 8 maggio 2009

GIORNALISMO MORALISMO

Alla «Annozero university» la parata del giornalismo-moralismo

Per un’intera, noiosa puntata, si fa giornalismo legato ai problemi della gente

La puntata di Annozero: «Complotto» (da Rai)
La puntata di Annozero: «Complotto» (da Rai)
Meno male che Michele c’è. E meno male che ci sono anche Marco Travaglio, Sandro Ruotolo, Alex Stille, la prode inviata Monica; se no, non sapremmo cos’è la libera informazione, la schiena dritta, il coraggio di sventare complotti e fiabe. Si limitassero a fare il loro lavoro, che a volte è persino apprezzabile, non ci sarebbe nulla da dire. Ma come aprono bocca, i Santoro boys sentono il dovere di indossare il manto da parata del giornalista-moralista: vi diciamo la verità e vi diciamo anche che voi, che non la pensate come noi, siete dei poveretti asserviti.

Il primo bersaglio grosso di «Annozero» sono le veline, o presunte tali, che sono state candidate alle Europee, il secondo Noemi Letizia, quella di «papi Silvio», il terzo è la famosa intervista a Veronica Lario letta da Monica Guerritore (lo scoop sarebbe stato il contrario), il quarto... Per vari motivi — economici, istituzionali, etici — l’Italia non sta vivendo un gran momento: la rappresentazione che diamo del nostro Paese è qualcosa che sta tra il caricaturismo di Daumier e le allucinazioni grottesche di Grosz. Ma mandare tre grossi camion della Rai per un collegamento del segugio Ruotolo davanti al ristorante della festa di Noemi significa soltanto alimentare questa rappresentazione, con la presunzione in più di fare del grande giornalismo.

Per dire: il prof. Alex Stille della Columbia University vuole uscire dal cattivo gusto cavalcato finora dalla discussione per parlare di abuso di potere e comincia a parlare di una valletta tv. Alla Santoro University invece, per un’intera, noiosa puntata, si fa giornalismo legato ai problemi della gente: il gossip su una diciottenne, il rapporto di Berlusconi con le donne, la vita di Elio Letizia ma niente buco della serratura, per carità.

Aldo Grasso

venerdì 1 maggio 2009

ANCORA GARLASCO

L’imputato perfetto e il verdetto per forza ingiusto

Niente sentenza al pro­cesso per il delitto di Garla­sco. A sorpresa il giudice Stefano Vitelli, che ha defi­nito «incomplete» le inda­gini dei carabinieri, ha di­sposto una superperizia per avere nuovi elementi sull’omicidio di Chiara Pog­gi commesso il 13 agosto 2007. La perizia riguarderà accertamenti sul pc dell'im­putato Alberto Stasi, sul percorso da lui compiuto quando ritrovò il cadavere della fidanzata e sull’orario della morte della vittima. Per Stasi il pm ha chie­sto la condanna a 30 anni di reclusione. Quale sentimento ha suscitato in lui la per altro comprensibile indecisione di chi lo stava giudicando. Gratitudine o rancore?

In fondo lui è il solo per cui questa sentenza alla fine avrà un senso. Per lui, e per i signori Poggi naturalmente, i genitori della ragazza di cui Alberto Stasi è stato per molti anno il fidanzato, e del cui omicidio oggi è accusato. E forse anche per un’astratta idea di Giustizia che in fondo non ha tutta questa importanza.

È assurdo ritenere che una sentenza metta le cose apposto. Non è così che funziona. Che senso ha credere ciecamente nelle sentenze? Citarle come il vangelo a ogni piè sospinto? Come quei risentiti individui che stanno sempre lì a menarcela con le sentenze. E che si agitano e si eccitano quando esse sanciscono colpevolezze o assoluzioni. Non c’è qualcosa di mortuario e di indecente in tutto questo? Come leggere con divertimento la pagina dei necrologi o infilare deliberatamente il naso nell’immondizia.

L’idea che tutti più o meno ci siamo fatti del processo Stasi è che di qualsiasi natura sarà il verdetto esso non risulterà in al­cun modo un progresso signifi­cativo nell’acquisizione della ve­rità. D’altro canto avevamo capi­to sin dal principio che questo era uno di quei processi in cui la verità non avrebbe trovato asilo. E difatti l’intero procedi­mento — come molti altri in questi anni — non ha fatto che regalarci caterve di indizi, sup­posizioni, indiscrezioni, analisi psicologiche, dettagli macabri come pedali di bicicletta insan­guinati o suole di scarpe da gin­nastica non abbastanza insan­guinate, ecc... La sintesi di tutto questa odiosa e ambigua paccot­tiglia promette una colpevolez­za non meno di quanto promet­ta una assoluzione. Si può con­dannare qualcuno che po­trebbe essere innocente?

Si può assolvere qual­cuno che potrebbe essere colpevole?

Perché la sola verità è che, sal­vo qualche in­credibile e inimmaginabi­le rivelazione, non sapremo mai la verità: non sapremo mai se è stato Alberto Stasi ad ammazzare Chia­ra Poggi, oppure no. Né sapremo mai, nel caso fosse lui il colpevole, perché lo ha fatto. Né, se non lo fosse, per­ché non ha protestato la sua in­nocenza con la disperazione che ci si aspetta da chi viene co­sì odiosamente infamato. Come interpretare tutta questa discre­zione?

Tutta questa pudicizia? Come inoppugnabile attestato di col­pa, o come l’ennesima prova della sua innocenza? Il guaio è che il comportamento di un col­pevole che briga per essere as­solto non deve essere poi così dissimile da quello di un inno­cente che è sicuro di essere con­dannato.

C’è da credere che se Alberto Stasi verrà condannato ciò potrebbe avvenire per tre ra­gioni che qualcuno potrebbe ri­tenere fuorvianti o ininfluenti, ma che altri, invece, potrebbero considerare decisive.

1) Perché se non è stato Alber­to Stasi allora chi è stato?

2) Perché ci sono un sacco di cose nella ricostruzione delle ore successive all’omicidio che non tornano, e che Stasi non ha saputo spiegare.

3) Perché Alberto Stasi è l’in­carnazione dell’assassino perfet­to: c’è qualcosa di emblematico nell’esangue pulizia del faccino, nella sobria montatura degli oc­chiali o nel modo garbato di ve­stire, che ti fa pensare ai satani­ci eroi di Bret Easton Ellis; per non parlare del suo contegno di una freddezza perturbante; del suo essere un bocconiano (che, come è noto, ti aliena ogni uma­na simpatia); e naturalmente della varietà imbarazzante di perversioni sessuali testimonia­te dai suoi hard disk ingolfati di immagini pornografiche (alcu­ne di carattere pedofilo). C’è ad­dirittura chi ha enfatizzato il contegno eccessivamente cal­mo di Stasi: per esempio il tono della voce per nulla sconvolto con cui ha chiamato i carabinie­ri per denunciare la morte di Chiara. Così come c’è da pensa­re che se verrà assolto sarà pro­prio perché qualcuno avrà valu­tato la contraddittorietà e la pre­testuosità di tutti questi elemen­ti con estrema cautela. Chieden­dosi, per esempio, quale tono dovrebbe avere la voce con cui un colpevole comunica ai Cara­binieri di aver ammazzato qual­cuno. Oppure, che colpa ha un ragazzo ad avere certe fattezze e non altre? Esiste un solo hard disk di un maschio del Ventune­simo Secolo che non abbia mai ospitato anche solo per qualche secondo una foto pornografica (non pedofila certo)?

E in ogni modo, qualora Al­berto Stasi venisse assolto, è presumibile che il fantasma del sospetto continuerà a persegui­tarlo per il resto della sua vita. Insomma il dato terribile del­la faccenda è che ci troviamo di fronte a uno di quei casi — su cui avrebbe potuto scrivere Al­bert Camus —, in cui il verdet­to finale — di condanna? di as­soluzione? — non potrà che es­sere ingiusto.

Alessandro Piperno