sabato 26 settembre 2009

SANTORO E ALDO GRASSO

«Annozero» ha molti difetti:
si può criticare ma non chiudere

Ci risiamo, qualcuno vuole chiu­dere «Annozero». Il ministro Claudio Scajola ha annunciato che convo­cherà i vertici Rai per verificare che la tra­smissione garantisca «un’informazione completa e imparziale». Secondo il mini­stro, la tv non può sostituire le aule del tribunale. Secondo noi, i politici dovreb­bero smetterla di coltivare una loro mai sopita vocazione censoria e reclamare la chiusura dei programmi sgraditi.

Proprio ieri, ho scritto che Michele San­toro ha messo in scena tutti i suoi abituali difetti: la demagogia, il credersi portatore unico della libertà d’espressione, un’at­mosfera autoreferenziale e militante che ha come unico scopo quello di fomentare il giustizialismo, la disinvoltura intellet­tuale, sua e dei suoi più stretti collaborato­ri. Ma la mia è solo un’opinione, da spetta­tore professionista, giusta o sbagliata. Non mi permetterei mai di chiedere la te­sta di chicchessia. Tanto più che la tra­smissione è stata seguita da un numero consistente di spettatori, più di cinque mi­lioni.

Con lo stesso criterio, quello dell’in­formazione «completa e imparziale», po­tremmo allora richiedere la chiusura di al­tri programmi, a cominciare forse dal Tg1, alquanto reticente su alcuni argo­menti. La cosa è talmente ridicola da non essere presa nemmeno in considerazio­ne. Certo, Santoro a volte smarrisce il sen­so della misura, non ama il contradditto­rio, procede per tesi personali spacciate come assolute. Sono gli inconvenienti del­la democrazia, ma meglio l’inconveniente dell’assenza di democrazia. Tempo fa, Giuliano Ferrara ha fatto una provocato­ria proposta: «Santoro andrebbe affianca­to da un professionista serio dell’informa­zione che lo corregga nel senso della vigi­lanza intellettuale, della cultura e delle buone maniere. Destituendolo come Con­duttore Unico delle Coscienze e salvando­lo, se si sia ancora in tempo non lo so, co­me professionista». Nel pollaio tv, due galletti finirebbero per battibeccare a san­gue, come in un reality. Ne guadagnereb­be l’audience, forse, ma a scapito del re­sto, a cominciare dalla comprensione. Bisogna adoperarsi per un programma più autorevole e interessante di quello di Santoro, magari in onda alla stessa ora, nello stesso giorno.

Aldo Grasso
26 settembre 2009

GARLASCO

PAVIA (26 settembre) - Spunta un'amica di Alberto Stasi nel giallo di Garlasco: la mattina dell'uccisione di Chiara Poggi, la ragazza raccontò di essere rimasta a casa, ma il suo telefonino è risultato agganciato a due centraline. A darne notizia, un'inchiesta del Corriere della Sera in cui si spiega come la giovane sia oggi diventata oggetto di nuovi (ennesimi) approfondimenti da parte degli investigatori perchè il suo racconto («ero a casa e ci sono rimasta fino al primo pomeriggio») non coincide con i rilievi tecnico-informatici: il suo cellulare agganciò due "celle" diverse del Comune.

La questione è semplice, riferisce il quotidiano: la teste disse ai carabinieri che la mattina del delitto, il 13 agosto 2007, lei era a casa a Garlasco (non lontano dalla villa dell'omicidio), a scrivere la tesi di laurea. «Dice che si è alzata verso le 7, che ha fatto colazione, che dalle sette e mezzo all'una ha studiato, poi ha pranzato ed è uscita solo verso le quattro. Adesso, più di due anni dopo, periti e consulenti informatici hanno scoperto che il suo cellulare quella mattina agganciò due celle: significa che la copertura del telefonino fu garantita da due centraline diverse, cosa che di solito avviene quando la persona (e quindi il cellulare) si sposta da un'area all'altra».

Da qui le domande: perchè quel collegamento a due celle? Ci sono motivi tecnici che lo rendono possibile anche se il telefono rimane nello stesso luogo? Si puo' dimostrarlo? Oppure la ragazza raccontò il falso? Il perito informatico del giudice Stefano Vitelli vuole andare a fondo dei dettagli tecnici e chiedere al gup nuovi accertamenti.

domenica 20 settembre 2009

CINE I-PHONE

CINE-IPHONE! – CHE FARE QUANDO IL LAVORO NON C'È E SEI LA REGISTA DI GRANDI FILM COME “ORLANDO” E “LEZIONI DI TANGO”? SALLY POTTER CONFEZIONA IL PRIMO FILM IN ASSOLUTO PENSATO SOLO PER CELLULARI (NOKIA, GOOGLE E IPHONE) – NEL CAST, JUDE LAW E JUDI DENCH E STEVE BUSHEMI…

Laura Putti per "la Repubblica"

La regista inglese che quasi vent´anni fa ci stupì raccontandoci la trasparente androginia di Orlando e che nel ´97 ci rinchiuse in una stanza insieme a lei e a un danzatore di tango (Lezioni di tango) ha deciso di restituirci libertà assoluta. Tanto da adattare il suo cinema allo schermo più mobile che c´è: quello di un telefonino.
iphone 050

Da lunedì al 27 settembre (in sette puntate da una decina di minuti l´una) il nuovo film di Sally Potter sarà visibile gratis sull´iPhone (anche iPod Touch, Google Android G-Phones 1 e 2, Nokia N96, N95 e 6210) via 3G e WiFi scaricando l´icona della piattaforma Babelgum Mobile dall´iTunes Store.

Il film si intitola Rage, rabbia, ed è il primo in assoluto pensato per la telefonia mobile e trasmesso da un cellulare. Dal 28 settembre sarà anche sul sito di Babelgum (www.babelgum.com/rage), con due episodi alla settimana. Uscirà poi in dvd e più in là nelle sale (distribuito in Italia da Mikado).

Ma la rivoluzione non è soltanto tecnologica; è anche, come dice Sally Potter, etica. «Malgrado annuncino che la crisi economica stia passando, sappiamo bene che i tempi saranno lunghi. Bisogna quindi studiare altri modi, più economici, ma non meno artisticamente importanti, di fare cinema» dice la regista.
sally potter

Eccoci dunque tornati a un cinema di volti, un cinema intimo. «Ma, pur sembrando vuoto, è un cinema pieno di contenuti, saturato di significati. Nel caso di Rage, per creare l´illusione di questa semplicità, ho lavorato moltissimo sulle immagini. Il cinema per me resta una meravigliosa illusione, ma credo che questa minimalità sia sempre di più il suo futuro: per sopravvivere siamo costretti a fare un cinema semplice e per supporti diversi.

sabato 19 settembre 2009

APPLE TABLET IN ARRIVO A FEBBRAIO 2010?

Apple, il Tablet forse a febbraio 2010
di Katia Ancona
I fornitori avrebbero assicurato all'azienda di Steve Jobs la consegna di tutti i componenti per l'assemblaggio entro dicembre. Si parla di un grande iPod con uo schermo da 9,6 pollici che stupirà per le sue prestazioni e per la batteria a lunga durata

Ci risiamo. L'Apple tablet colpisce ancora. Di questo prodotto se ne parla da tempo, da almeno un anno. Le nuove indiscrezioni, provenienti da fornitori taiwanesi di componenti elettronici, lo vogliono sul mercato entro febbraio 2010.

Questa volta la gola profonda è il quotidiano Taiwan Economic News (http://cens.com//cens/html/en/news/news_inner_29201.html). Rispetto ai rumors dei mesi scorsi spunta qualche dettaglio in più sul misterioso oggetto di casa Apple.

Si tratterebbe di una sorta di grande iPod Touch con schermo touchscreen da 9,6 pollici, un processore sviluppato interamente da Apple grazie al team acquisito da P.A. Semi e un modulo di comunicazione 3G HSDPA. Un oggetto che vorrebbe stupire e, allo stesso tempo, sbaragliare la concorrenza soprattutto per la durata della sua batteria. Staremo a vedere, per ora bisogna accontentarsi delle indiscrezioni provenienti da Taiwan che assicurano "molte ore di autonomia operativa". Il suo costo si aggirerebbe tra gli 800 e i 1000 dollari.

Le stesse indiscrezioni rivelano che l'azienda DynaPack International Technology Corporation avrebbe ottenuto dalla Mela un contratto esclusivo per la fornitura mensile di 300 mila batterie ad elevata autonomia e in grado di fare la differenza rispetto ai sistemi concorrenti.

Secondo il Wall Street Journal (http://online.wsj.com/article/SB125115760997755251.html) Steve Jobs si starebbe occupando in prima persona del Tablet e sarebbe stato lui a rimandare per ben due volte l'uscita del leggendario prodotto (i cui primi brevetti risalgono a quasi dieci anni fa) proporio per problemi di alimentazione delle batterie.

A occuparsi della fornitura dello schermo dovrebbe essere la Wintek Corporation, mentre Wanshih Electronic e Mag. Layers Scientific-Technics realizzeranno rispettivamente mini cavi coassiali e componenti di alimentazione.

Tutti i fornitori avrebbero preso l'impegno di consegnare ad Apple i componenti necessari per l'assemblaggio dell'iTablet entro il mese di dicembre rendendone così possibile l'ingresso sul mercato per febbraio.

A differenza dei netbook e dei mini pc visti fino a questo momento iTablet è pensato per operare come media center portatile, come televisione digitale, console di gioco e lettore di e-book, caratteristica che lo renderebbe un temuto rivale per il Kindle Amazon.
(Settembre 17, 2009)

venerdì 18 settembre 2009

DECENNIO CHE VA


I-DECADE – COSA RESTERÀ DELLA PRIMA DECADE DEL NUOVO MILLENIO? NON SOLO 11/9 E CRISI, IL 2000 DELLA DIGITAL REVOLUTION - ABBIAMO UN COMPUTER IN TASCA E NULLA È PIÙ COME PRIMA: I-PONE, I-POD, BLOG, GOOGLE, FACEBOOK, TERRORISMO, COSUMISMO, WIKIPEDIA, TWITTER E OBAMA COL SUO BLACKBERRY…

Enrico Franceschini per "la "Repubblica"


Sembra ieri che sono cominciati, forse perché non si è ancora spento l´eco di «come» sono cominciati. Eppure, quasi senza che ce ne accorgessimo, sono quasi finiti: l´ultimo anno del decennio, il 2010, è dietro l´angolo. Tutti presi dall´avvento di un nuovo secolo, il ventunesimo, e di un nuovo millennio, il terzo (dell´era cristiana, perlomeno), non ci siamo resi conto che ormai siamo arrivati in fondo alla prima decade.

A quelle del recente passato sappiamo dare un nome, un´etichetta: gli anni Cinquanta del primo dopoguerra, gli anni Sessanta del boom, i Settanta del terrorismo, gli Ottanta dell´individualismo e della fine del comunismo, i Novanta di Internet.

Ma cosa sono stati gli anni Duemila? Come li ricorderemo? Come li chiameremo? Domande premature, certo. Ma nel giro di qualche mese, quando saremo entrati nell´anno che li chiude, molti inizieranno a farle, un po´ per gioco, un po´ sul serio: media, think tank, sociologi, sondaggi.

E qualcuno li ha già preceduti: Intelligent Life, raffinato trimestrale dell´Economist, dedica un´inchiesta al tema e offre qualche possibile risposta. Gli anni Duemila, sostiene la rivista, sono stati la i-Decade, il decennio della comunicazione digitale, simboleggiata da iPhone e iPod.

Una comunicazione che significa libertà di fare tutto da soli e di farlo in movimento, due concetti che il decennio in via di conclusione ha plasmato sul web, nei siti di interconnessione sociale come Facebook e Twitter, nell´invasione di blog e bloggers, nei «citizen journalists», i cittadini giornalisti, che trasmettono notizie in 160 battute e foto scattate con i telefonini, a dispetto della censura di regime, dall´Iran.

Il decennio di Google e Wikipedia, il motore di ricerca e l´enciclopedia che illuminano il pianeta all´insegna del «fai-da-te», promotori di una comunicazione digitale senza limiti, autarchica e mobile, capace di viaggiare sempre e dovunque, in groppa computer sempre più piccoli (e sempre più belli) e a telefonini sempre più ricchi di risorse. «Potete prenderlo anche in tram» era lo slogan pubblicitario di un digestivo, nell´Italietta anni ‘60: adesso, «in tram», con un iPhone o un iPod, quante cose possiamo fare.


La stessa formula vale anche fuori dalla rete, accompagnata da un´altra parola d´ordine che ha segnato gli anni Duemila: low - cost, intesa come trasporti (aerei) a basso costo. I voli della Ryan Air, della Easy Jet e delle innumerevoli compagnie che le hanno imitate sono stati l´equivalente di un i-Trip, in cui devi fare tutto da solo, dal biglietto al check-in, garante di una mobilità «cheap» che rende liberi di andare, viaggiare, comunicare, come, quando e con chi si vuole.
Blog

Non a caso Michael O´Leary, l´irriverente amministratore delegato della Ryan Air, ama paragonare la sua azienda a un «web con le ali», immaginando il giorno in cui «si volerà del tutto gratis come oggi si naviga gratis sul web, noi guadagneremo facendo pagare extra i servizi a richiesta di ciascun passeggero, come avviene ai navigatori su Internet».

Web e voli low-cost sono dunque aspetti complementari del fenomeno, come spiega Thomas Friedman in «The earth is flat», il saggio che ha fotografato il decennio: hanno fatto ridiventare «piatta» la terra, ristretto e reso più egualitario il pianeta, messo tutti in contatto con tutti e tutto.

A proposito di aerei, però, è stata anche la decade della (nuova) paura di volare. Torniamo al suo purtroppo indimenticabile inizio col «botto»: l´attacco all´America, l´11 settembre 2001, gli aerei dei kamikaze di al Qaeda che sbriciolano le Torri Gemelle di New York.


Da allora il terrorismo internazionale, la guerra santa islamica di Osama bin Laden, non sono più riusciti a colpire l´Occidente in modo altrettanto «spettacolare», pur insanguinando Madrid, Londra e altre capitali, ma hanno ugualmente marchiato il decennio con l´ansia di una nuova minaccia, come ammonisce l´Istituto Internazionale di Affari Strategici di Londra.
logo facebook

Un quotidiano promemoria ce lo forniscono i controlli negli aeroporti: oggi ci togliamo tutti disciplinatamente le scarpe e la cintura prima di ogni volo, consegniamo biberon, dentifricio, profumo, tutto ciò che potrebbe nascondere esplosivo. Dieci anni or sono soltanto Israele viveva (e viaggiava) così.
Terrorismo islamico a Mumbai

Il decennio ha avuto una sua icona anche a quattro ruote. «Dov´è la Mini d´oggi?», chiede lo stilista britannico Stephen Jones, alludendo all´auto simbolo degli anni Sessanta. Una risposta è che la vecchia Mini si è reincarnata nella nuova, e che la reincarnazione del mito è stata l´idea vincente anche per altri, vedi la nuova Fiat 500. Ma la vera novità, l´auto che sintetizza gli anni Duemila, scrive l´Economist, è la Toyota Prius, l´auto ibrida, evoluzione della specie verso l´auto elettrica del
mercato di domani.

«Rappresenta la nuova coscienza ambientalista, l´aspirazione a salvare il mondo dalla catastrofe climatica», dice Ekow Eshun, direttore dell´Institute of Contemporary Arts di Londra: non per nulla «ecologia», insieme a «terrorismo», è la parola più cliccata su Google, l´altro incubo che ha scandito la i-Decade.

Gli anni Duemila sono stati tutto questo, ma non «solo» questo. Il look 2001-2010, proclamano arbitri del costume come Vogue e Gq, è stato contraddittorio: seni maggiorati dal silicone e lineamenti rifatti dal chirurgo estetico, da un lato; dall´altro una gioventù sempre più magra, alta, androgina, ragazzi e ragazze che possono scambiarsi gli abiti senza problemi.


E la contraddizione si estende ai vestiti: da un lato è stato il decennio del fashion e delle top model, dall´altro dell´affermazione definitiva di un´uniforme comune a tutte le classi, t-shirt, felpa con cappuccio, pantaloni «cargo» militari, scarpe da jogging.

È stato il decennio in cui abbiamo intravisto le città del futuro: ce ne danno un´anticipazione i grattacieli del Dubai, sostiene Julia Peyton-Jones, direttrice della Serpentine Gallery di Londra.


Il decennio del culto della celebrità e del reality-show televisivo, il decennio del jogging, del corpo, della riscoperta del mangiar sano, il decennio del più grande «falò delle vanità» dal 1929 in poi, degli eccessi del consumo, dei bonus ai banchieri e delle banche fallite, come dice Tina Brown, ex-direttrice di Vanity Fair e New Yorker, ora direttrice del DailyBeast.com, un sito di news (ossia di comunicazione digitale).

È stato il decennio in cui abbiamo ricominciato a scrivere (email, Twitter) e in cui è andata in crisi la stampa - ma non tutta: l´Economist, primo settimanale globale del pianeta, diffuso più all´estero che in Gran Bretagna dove ha la sede centrale, ha raddoppiato la tiratura fino a un milione e mezzo di copie, dal 2001 ad oggi.

E in politica il decennio cominciato con George Bush tra le macerie del World Trade Center sta finendo con il primo nero alla Casa Bianca, Obama, il presidente che non molla mai il suo Blackberry.

giovedì 17 settembre 2009

MIKE MUST GO ON


Mike Bongiorno «rivive» in tv. Per gli spot
Richiesta della famiglia, in onda immagini inedite del presentatore con il figlio Leonardo

MILANO — Mike Bongior­no ancora in video: un’iniziati­va sorprendente che non ha precedenti in Italia. Potere del­la pubblicità, cui il presentato­re morto l’8 settembre aveva consacrato un pezzo della sua vita. Da domenica riprende infat­ti la messa in onda degli ulti­mi spot inediti Infostrada con Mike protagonista assieme a Fiorello e a Leonardo, suo fi­glio 20enne. La famiglia Bon­giorno, di comune accordo con Fiorello, ha ritenuto coe­rente non interrompere la messa in onda degli spot Info­strada: una scelta maturata ri­spettando l’entusiasmo e il profondo senso del lavoro che ha sempre animato Mike nella professione e con la con­sapevolezza di interpretare il grande orgoglio e la gioia che aveva provato collaborando, sul set, assieme a suo figlio più piccolo.

sabato 12 settembre 2009

POP E CENSURA IN CINA

Cina, guerra al pop straniero
"tradurre le canzoni online"
Il governo ordina restrizioni per l'apertura e la gestioni di siti musicali. Una commissione dovrà "approvare" e trasporre in cinese tutti i testi. "Star come Madonna nocive per i giovani" dal nostro corrispondente GIAMPAOLO VISETTI

Cina, guerra al pop straniero "tradurre le canzoni online"
PECHINO - Dopo il porno, il pop. Il potere, in Cina, conferma di temere soprattutto un nemico: internet. L'ultimo bersaglio di Pechino è la musica. Il governo ha ordinato di "ripulire" i siti musicali. Ufficialmente per combattere la pirateria, come più volte suggerito dagli Usa. In realtà per controllare un settore, a detta del partito comunista "sfuggito di mano".

Entro il 31 dicembre chiunque voglia aprire o conservare un sito di musica, dovrà richiedere l'approvazione di una speciale commissione. La regola che sta facendo gridare alla censura produttori e navigatori di tutto il mondo riguarda però le canzoni. Ogni brano straniero, per ottenere l'approvazione, dovrà essere fornito in forma scritta e tradotto anche in cinese, oltre che essere presentato al governo con "immagini esplicative e idonea introduzione". Nel mirino, dunque, anche i video. Un lavoro di traduzione linguistica immenso, assai costoso e che richiede tempi lunghi.

Il ministero, investito dalle polemica sul web, ha spiegato che lo scopo è "rimuovere da internet la musica volgare, compresi i pezzi di cattivo gusto". Non sono stati indicati i criteri di giudizio, né da chi saranno emesse le sentenze. "La misura - dice Zhang Yiwu, ordinario di diritto all'università di Pechino - consentirà di evitare le influenze negative della cultura pop straniera". Il docente non ha chiarito quali sono le "influenze negative". Secondo funzionari governativi, "star scandalose come Madonna o come altri gruppi rock occidentali, nuociono ai giovani". Il portavoce del ministero della Cultura ha invece voluto rassicurare sui tempi di valutazione della censura.

"Abbiamo attivato - ha detto - un sistema innovativo. Tutte le procedure potranno essere espletate online e la risposta dell'esame non richiederà più di quattro giorni". Esclusi anche dalla possibilità di presentare brani e i video, le singole persone fisiche. Gli esperti sostengono che, nonostante le promesse, "non è chiaro come il ministero possa smaltire tutte le domande in meno di quattro mesi" I big del settore, Google, Yahoo e Baidu, non hanno per ora rilasciato commenti ufficiali. La Cina, con 338 milioni di utenti, è il più grande mercato del pianeta per la musica online. Davanti alle polemiche, il governo ha chiarito che "la norma servirà a controllare la commistione di contenuti buoni e cattivi", ma pure "la grande quantità di musica importata senza approvazione" e la violazione del diritto d'autore. Le case discografiche considerano "inapplicabile" il giudizio sulla "volgarità" dei brani musicali e "inaccettabile l'obbligo di traduzione in cinese di ogni testo". La maggioranza sembra orientata a boicottare la nuova "Internet culture license" introdotta da Pechino. Cautamente positivo invece il giudizio sulla lotta alla pirateria.

Nell'ultimo anno le vendite di musica in Cina hanno generato un giro d'affari da 85 milioni di dollari. L'accesso illecito, ossia i brani scaricati illegalmente, e la falsificazione dei dischi hanno però toccato il 99% del settore. Già da anni il governo censura film e libri importati e controlla accuratamente la scaletta dei concerti dei gruppi stranieri. Il risultato è stato il boom del commercio in nero, che offre film e dischi importati magari di infima qualità, ma prima ancora della loro uscita sul mercato internazionale. La "guerra del pop", mentre da mesi le autorità cinesi cercano di limitare l'accesso a internet, o di obbligare ogni navigatore a registrarsi inserendo il proprio numero di passaporto, ha visto una sola reazione positiva. Gary Chen, direttore della cinese "Orca Digital", fornitore di musica gratuita e partner di Google in Cina, sostiene che "pretendere un link dotato di regolare licenza" per vendere musica sul web, è "un passo decisivo per costruire un'industria sana e lecita nel Paese".

STOLEN ANDY


Usa, rubata collezione di Andy Warhol
Sono state trafugate una decina di tele. Il furto è avvenuto a casa di un collezionista a Los Angeles


LOS ANGELES- Come ogni mattina è entrata nella sala da pranzo. Per mettere in ordine e spolverare. Ma a differenza di ogni mattina sulle pareti mancavano i quadri. Già, le dieci tele dell'opera «Gli atleti» di Andy Warhol erano spariti. Quadri che valgono milioni di dolalri. Così la donna delle pulizie del noto collezionista Richerd L. Weisman non ha perso altro tempo e ha chiamato la polizia. Il furto è avvenuto il 3 settembre.

LE INDAGINI- Lo rivela il Los Angeles Times. Gli investigatori non capiscono come sia potuto succedere. Non c'è segno di effrazione, senza contare che i ladri hanno lasciato nella casa altri quadri dello stesso artista. Il proprietario era appena partito per un viaggio. Qualcuno parla di furto su commissione. In ogni caso la polizia ha offerto un milione di dollari a chiunque possa fornire notizie utili per ritrovare l'opera. Cioè i ritratti di atleti famosi realizzati alla fine degli anni Settanta dal noto artista pop.

venerdì 4 settembre 2009

BARBIE FOOT


Bigliardino, Barbie al posto degli omini
Ventidue bamboline bionde, more e rosse in minigonna e capelli fluenti si fronteggiano sul classico tavolo

MILANO - Diciamo la verità: il bigliardino sarà anche un «gioco da maschi», ma di certo quei ventidue omini che si fronteggiano sul tavolo da gioco e che vengono fatti mulinare in aria nel tentativo di colpire una pallina impazzita e di mandarla in buca (pardon, in porta), in genere di rosso e di blu vestiti (ma esistono varianti cromatiche di tutti i tipi), hanno un sex-appeal pari a zero e non scatenano le fantasie femminili come un Cristiano Ronaldo in carne e ossa (o, meglio ancora, in pantaloncini).

BARBIE - Sarà per questo che la designer francese Chloe Ruchon ha deciso di portare una ventata di femminilità nel mondo dei calciobalilla reinterpretando in versione rosa i baby foot di francesissima definizione. Sono nati così i «Barbie foot», ovvero il bigliardino delle Barbie, tutto glamour e colore (naturalmente, rosa), dove ventidue bamboline in minigonna si fronteggiano sul classico tavolo: alcune sono bionde, altre more e ci sono perfino delle rosse, ma tutte hanno le (belle) fattezze della celebre bambola della Mattel, che quest’anno festeggia il mezzo secolo d’età.

DESIGN - Nato dalla collaborazione fra la stessa casa-madre delle Barbie e la BabyFoot Bonzini (azienda francese che da oltre 60 anni costruisce bigliardini), il Barbie Foot è stato presentato al recente Dmy Design Festival di Berlino del giugno scorso e nel mese di agosto è stato esposto nel concept store parigino Colette. Disponibile in edizione limitata (ne sono stati realizzati appena nove esemplari), il «fashion-bigliardino» è lungo tre metri e largo uno e pesa duecento chilogrammi. Misure a parte, però, prima di fiondarvi a comprarlo meglio fare i conti con il portafoglio, perché se volete davvero il «Barbie foot» nel salotto di casa dovete essere pronti a sborsare ben 10 mila euro.

ART & BRAND


lips © giovanni caviezel

Opere da tre soldi – Damien Hirst fa i saldi. Takashi Murakami vende giocattoli. E le canzoni di Martin Creed si scaricano sull'iPod - Gli artisti scoprono il mondo dei gadget - E la factory ideata da Warhol lascia il posto alla company...

Alessandra Mammì per L'espresso

Non è più vero che "Good business is the best art", come diceva Warhol, il cinico. Tempi più cinici di lui ci insegnano che oggi è vero esattamente il contrario: "Good art is the best business". Quel business che ha scavalcato gallerie, musei, fiere ed è esploso nel mondo in forma di gadget, moda, status symbol. Più di Warhol e meglio di Warhol che predicava ai discepoli: "Il tuo prodotto non dovrebbe avere niente a che fare con te".
warhol by berengo gardin

Ovvero: niente pathos, niente artigianato, niente segno dell'artista. Non opera ma prodotto appunto, oggetto neutro che va ben oltre la fisicità del creatore. Perché in quegli anni Sessanta non se ne poteva più della Bohème e dell'esistenzialismo, degli artisti maledetti e perennemente innamorati, delle loro strabordanti biografie e delle opere ideologiche e ruggenti da ultimi figli del Romanticismo.

Il primo passo fu disarmarli con una zuppa al pomodoro, il secondo calpestarli con una intera Factory e infine annientarli con il gelido biondo platino di una parrucca e lo sguardo impassibile del primo artista impresario.

Ma a sferrare il colpo finale è l'attuale trasformazione dell'impresario in brand, e della factory in company che gestisce la globalizzazione, conquista il mercato reale e virtuale, scavalca persino quello artistico promuovendosi in modo autarchico.

Autunno 2007. Takashi Murakami porta in giro per il mondo la sua mega mostra chiamandola ' MURAKAMI' un titolo che è epitaffio dell'individualità dell'artista, dove muore persino la firma e resta solo il copyright.
Andy Warhol

Settembre 2008. Damien Hirst nel ruolo di autore e promoter indice per la prima volta un'asta da Sotheby's senza intermediari. E vende tutto. Urge riflessione. E la riflessione arriva dal primo ottobre in forma di mostra nel luogo più indicato a tanta impresa: la Tate Modern di Londra. 'Pop Life. Art in a material world' recita il titolo che gira intorno a inquietanti pensieri.

Se il mondo è materiale gli artisti sono oggi più materialisti di lui. A loro non basta più trasformare in icona la società dei consumi e dello spettacolo. Vogliono entrare nella pancia della balena, infiltrarsi nei meccanismi, usare il mercato come una strategia scientifica di conquista del loro pubblico ed espandere i confini del mondo dell'arte in quelli del commercio vero e proprio.

Cliccare per credere: www.othercriteria. com. È il sito della casa di produzione di libri, gadget e magliette a firma Damien Hirst. Il suo webshop come tutto il commercio on line è prodigo di occasioni. Tra le 'special offers' del momento compaiono due sedie a sdraio firmate e scontate al prezzo di 500 sterline e una sfilata di T-shirt con teschi luccicanti e croci pastello al 30 per cento in meno se acquistate per un minimo di tre capi.

Mettere crocette con le taglie nell'apposita finestra, poi buttare il tutto nel basket in cui si possono sempre aggiungere pezzi unici da 50 mila sterline in su e cataloghi firmati al prezzo di 500 sterline contro le 190 della copia in libreria.

È il mercato, bellezza: quello dell'arte on line che è diventato opera di per sé. È un'opera solo a vederlo il sito giapponese, in puro giapponese e esclusivamente per acquisti in yen, che ha aperto Murakami per vendere i suoi toys, i suoi cartoon, i suoi cuscini e i portachiavi impupazzati.
Takashi Murakami

Il sito si chiama Kaikai Kiki Market Place (http://kkm.kaikaikiki.co.jp), esattamente come la sua fondazione che promuove giovani artisti, organizza fiere, controlla il mercato, gestisce joint venture con potenti brand come Vuitton e titola giustamente le grandi mostre itineranti MURAKAMI.

Bisogna capire dove stiamo andando. E la Tate ci prova, nella persona di uno dei curatori della mostra Catherine Wood che nel suo saggio cerca disperatamente i padri di tanta rivoluzione. Da una parte trova ovviamente Warhol, dall'altra Duchamp. In fondo fu lui a spersonalizzare l'opera, a firmare un orinatoio, a miniaturizzare i suoi capolavori mettendoli tutti in una valigetta di cuoio prodotta a multiplo.

Non c'era ancora lo shop online e le miniature erano affidate agli artigiani del presepe, ma il principio in fondo era lo stesso. Quello che mancava però, era l'esplosione del capitalismo globale che trasforma ruolo e immagine dell'artista. Non a caso la nascita degli Young British Artists (Hirst in testa) avviene proprio in quella Londra anni Novanta uscita dalla crisi e diventata la capitale della finanza globale.

Il nuovo scenario economico modifica dall'interno ruolo e immagine dell'artista. Fa notare Catherine Wood che l'entrata in scena di Jeff Koons cambia addirittura il dress code: "Con le sue ordinarie giacche e cravatte, il suo fascino da ragazzino, l'aria sveglia da ex Wall Street trader, Koons distrugge l'immagine eccentrica e bohème dell'artista segregato dalla società normale". Altro che segregati.
Damien Hirst

Koons e i suoi fratelli sono perfettamente omogenei ai meccanismi dell'economia tanto da non aver più bisogno di parrucche, travestimenti, effetti speciali per sentirsi artisti. Guardateli: Murakami con la sua aria da fanciullone cresciuto, Martin Creed coi completi da college, Hirst con maglietta e jeans bracaloni. Niente stranezze. Siamo di fronte a geniali costruttori di immagini che come tali possono benissimo diventarne i venditori. E non come la benefica Fondazione di Keith Haring, una vera multinazionale che mette il marchio su penne, magliette e giochi da costruzione per devolvere il tutto ai malati di Aids. Qui l'artista si è trasformato in businessman.

Di più. Secondo Wim Delvoye, immaginifico artista belga "è finita l'epoca di curatori e critici. Gente che non è professionale come lo siamo noi, non ha la forza di visione che abbiamo noi. Oggi l'artista può riconquistare l'autonomia che aveva nel Rinascimento ed è la prima volta che accade in cinquecento anni". Tanto riscatto passa anche per il suo sito cliccabile, la Wim City a cui non manca naturalmente un ben fornito shop.

In fondo l'accesso diretto all'opera in forma di multiplo da pochi soldi è democratizzazione dell'arte. L'inglese Julian Opie ne fa un punto di forza del lavoro. Produce di tutto: dal magnete per frigorifero alla carta da parati, dai film alle sculture, dai quadri in 3D ai segnalibri, tutto democraticamente su www.julianopieshop.com a prezzi popolari. E ancor più economici sono i brani musicali di Martin Creed (www.martincreed.com) da scaricare per pochi centesimi di sterlina direttamente sull'iPod.
Koons jeff

Cosa buona e giusta perché per Creed il lavoro musicale è contraltare di quello visivo e non c'è mostra che non preveda l'esibizione della sua band. Libera musica - libera arte - libero web: l'opera-prodotto è anche simbolo di una rivoluzione sociale.

"Rovesciando la nozione di Underground", ci spiega la Wood," gli artisti ora portano ogni cosa in superficie, sperimentando la loro forza nel mondo attraverso i gradi di visibilità che riescono a raggiungere". E la visibilità rafforza il brand, il conto in banca e la possibilità di creare e operare all'interno dei meccanismi globali.

Ad accorgersi delle infinite potenzialità di tale sistema fu qualche anno fa Larry Mangel, dealer e direttore di una galleria d'arte americana, che esponeva Richard Serra e Donald Judd, Roy Lichtenstein e Anselm Kiefer. Tutte cose carissime, inaccessibili alla classe media. Mangel in realtà non aveva problemi: vendeva a musei e ricchi collezionisti ma cercava un'idea per conquistare un mercato più ampio.

Qualcosa che miniaturizzasse e mettesse in rete le opere proprio come aveva fatto Duchamp in scala artigianale con la sua 'Boîte-en-valise'. È allora che nasce 'Cerealart', sito dove comprare in forma lillipuziana un intero museo: dai mostri di Winnipeg di Marcel Dzama ai ministencil con le scritte di Lawrence Weiner per addobbare i muri di casa fino alla riproduzione esatta della 'Wrong Gallery'di Cattelan-Gioni-Subotnick in scala 1:6.

E così quella minuscola galleria-vetrina di New York dove non si entrava, non si comprava e non si vendeva, nata come uno schiaffo situazionista-concettuale al sistema di mercato è ora in vendita sul web in una tiratura di 2.500 esemplari a 1.650 dollari a pezzo con tanto di autentica degli autori. Colpo di coda dei tempi e conferma che davvero "good art is the best business".

Avrebbe dovuto saperlo Warhol il cinico quando si trovò di fronte una Campbell's più cinica di lui che nei tardi Sessanta lanciò una campagna con questo slogan: "Una copia di questa lattina è stata battuta all'asta per migliaia di dollari, voi potete avere l'originale per pochi cents". Ecco dov'è davvero lo spirito guida dei tempi. Bisogna suggerirlo alla Tate.