domenica 28 marzo 2010

ELOGIO DELLA SOLITUDINE D'ARTISTA


Solitudine, elogio
dell'artista nella torre d'avorio

Perché restare isolati, non farsi vedere, non disturbare, non mescolare la propria voce a quella degli altri, non aderire a iniziative civili e sociali, disertare salotti e pubblici raduni, è il miglior servigio che uno possa fare a se stesso e all'umanità

Perché restare isolati, non farsi vedere, non disturbare, non mescolare la propria voce a quella degli altri, non aderire a iniziative civili e sociali, disertare salotti e pubblici raduni, è il miglior servigio che uno possa fare a se stesso e all'umanità

Chissà perché le poche cose che davvero amiamo si somigliano in un modo così struggente. Quando nel 1999 mi imbattei in Pastorale Americana, pluricelebrato romanzo di Philip Roth, sentii aria di casa e una specie di euforia dolorosa. Che diavolo mi prendeva? Era quell’America promettente e feroce a farmi quell’effetto? O la sfida all’ultimo sangue tra il più esemplare dei padri e la più musona delle figlie? Oppure tutto dipendeva dal milieu giudaico-borghese con cui mi sentivo implicato? O forse era il modo stupefacente in cui Roth aveva montato il romanzo— degno di Quentin Tarantino — ad apparirmi, già di per sé, una rivoluzione del genere?

La verità, anche se l’avrei capito alla ventesima rilettura, è che c’era qualcosa di sorprendentemente proustiano nelle pagine di Roth. Un impasto di catastrofe e nostalgia. Un’essenzialità del cuore che si specchia nell’esuberanza della prosa. Non so se sia mai stato notato, ma la prima parte di Pastorale Americana non è che una citazione della fine della Recherche. Non solo i titoli si somigliano — Paradiso ricordato e il Tempo Ritrovato — ma anche gli ingredienti narrativi. C’è un attempato scrittore che torna in società dopo un sacco di tempo, e scopre di essere vecchio specchiandosi nell’atroce devastazione cui il Tempo ha sottoposto gli amici di una volta. Proust affida questa sconsolante esperienza al suo alter ego Marcel; Roth a Nathan Zuckerman. Marcel è appena uscito da una casa di cura. Nathan è fresco di un’operazione alla prostata che lo ha menomato. Entrambi sono fuori dai giochi, sostanzialmente impotenti. Due sopravvissuti.

Roth è talmente consapevole del debito che ha con Proust che, per rimetterlo in riga e toglierselo dalle scatole, lo prende perfidamente in giro. Fa assaggiare a Nathan un farinoso dolcetto della sua infanzia sperando che esso gli faccia lo stesso effetto miracoloso della famosa madeleine proustiana: liberandolo dalla paura della morte. «Mangiai, dunque, avidamente, ingordamente, non volendo limitarmi, nemmeno per un attimo, nel vorace accumulo di grassi saturi; ma senza avere, infine, la stessa fortuna di Marcel». Qualche tempo fa J. M. Coetzee ha definito il Roth de Il teatro di Sabbath e di Pastorale Americana (cui il Roth attuale non potrebbe neppure lustrare le scarpe) un «romanziere di autentica portata tragica», capace di raggiungere «vette shakespeariane». Parole che si attagliano al Proust del Tempo Ritrovato, e per le stesse ragioni.

La vita dei pochi scrittori realmente significativi è tutta tesa alla ricerca di quell’intensità shakespeariana: Ivan Il’ic di Tolstoj, I demoni di Dostoevskij, Il castello di Kafka, la trilogia di Beckett, insomma quel tipo di roba lì. C’è sempre un’aria di funebre grandioso sfacelo.

Olio di Pascal Adolphe Jean Dagnan Bouvert (1852-1929), 'L'artista nel suo studio' (particolare)
Olio di Pascal Adolphe Jean Dagnan Bouvert (1852-1929), "L'artista nel suo studio" (particolare)
Marcel che dopo tanto tempo torna a far visita ai Principi di Guermantes e Nathan che partecipa, dopo quarant’anni, al raduno dei vecchi compagni del liceo, sono letteralmente trasfigurati dal fuoco di quell’intensità. Un cocktail micidiale di distacco e struggimento. Di frivolezza e solennità. Di energia e senso della morte. Il narcisismo è scomparso. Che senso ha tirarsela se un piede ce l’hai nella fossa e l’altro nel passato? Non ti resta altro che un cocente desiderio violento di capire come stanno le cose.

È come se Marcel e Nathan ci parlassero dal regno dei morti. E chissà che tutta quell’intensità non si spieghi con la reclusione. L’eremitaggio: ovvero la solitudine in cui Marcel e Nathan sono vissuti negli ultimi tempi e la solitudine a cui stanno per tornare. «I veri libri», scrive Proust proprio nel Tempo Ritrovato, non sono «figli della piena luce e delle chiacchiere, ma dell’oscurità e del silenzio». E molte centinaia di pagine prima aveva definito se stesso «lo strano essere umano che, in attesa che la morte lo liberi, vive con le imposte chiuse, non sa niente del mondo, resta immobile come un gufo, e proprio come un gufo vede chiaro solo nelle tenebre».

Nostalgia e paradiso

I nostri tempi non favoriscono la concentrazione. O almeno non quella di cui uno scrittore avrebbe bisogno. IMarcel e i Nathan oggigiorno scarseggiano. Forse per il moltiplicarsi delle sollecitazioni narcisistiche: festival, tv, radio, teatri, tripudianti spregiudicate groopie… Tutto congiura a titillare l’infinita vanità dello scrittore… In questo non ci sarebbe niente di male se non andasse a scapito della concentrazione. Il rischio per chi non fa come quel gufo del Narratore— e non se ne sta un po’ per conto proprio — è di finire con il lasciarsi suggestionare dai gusti corrivi e dai malsani filisteismi della folla. La maggior parte dei lettori chiedono di essere consolati e rassicurati. Il che spinge la maggior parte degli scrittori a cedere all’impulso di mettersi lì a consolare e a rassicurare.

Gli scrittori sul palco di un festival, almeno per il pubblico in sala, sono perfettamente intercambiabili. Te ne stai là sopra e sai cosa si aspetta la gente da te: ha avuto la generosità di venire a sentire le tue pallose elucubrazioni, talvolta ha persino dovuto pagare il biglietto e ora vuole che tu gli serva qualche proclama imbelle. Pretende accorate predicazioni o generiche denunce. Vogliono che tu gli dica che il solo fatto di leggere qualche libro faccia di te e di loro persone migliori di tutte le altre. Vogliono sentirsi parte di un’élite intellettualmente emoralmente superiore. Ridono per finta alle tue battute che non fanno ridere. Vogliono sentirsi brillanti perché ascoltano una persona che dovrebbe essere brillante (altrimenti non staresti là sopra). È così che avviene che piccoli Tartuffi crescano e si affermino. Ma anche che un grande autore si perda nel diuturno smercio di civilissime banalità. Chissà, per esempio, se la ragione per cui alcuni dei più celebrati scrittori israeliani— con alcune smaglianti eccezioni— da qualche tempo a questa parte non imbroccano più un libro decente non sia connessa alla voga che li ha consacrati. Come se, a forza di pontificare sul conflitto israelo-palestinese e sui diritti umani violati, avessero dimenticato quello che sono profumatamente pagati per fare e che fanno sempre peggio: scrivere buoni libri.

Ci vuole fegato per non cedere alle lusinghe mondane (ecco, mi sono ridotto a parlare come un sacerdote!). Bisogna essere dotati di un certo spirito per non cedere alla fatuità della politica, e alla magniloquenza cui molto spesso la politica si accompagna. Bisogna avere un sacco di fiducia in se stessi per non cercare il conforto di sentirsi parte di una consorteria. Proprio perché l’isolamento è deprimente laddove, invece, la condivisione può rivelarsi esaltante, sono pochi quelli che riescono a bastare a se stessi. E a tenersi in disparte.

Il grande scrittore jugoslavo Danilo Kiš ha visto in Nabokov il campione di questi altezzosi solitari che «non hanno scommesso sull’istante, piuttosto sull’eternità». Proprio perché per Nabokov «la storia rappresenta l’apparenza dell’apparenza». E sentite come Kiš chiude il cerchio del nostro discorso: «Tutta l’opera di Nabokov non è che una proustiana Ricerca del tempo perduto, esploso e frantumato, e le farfalle, quelle dei libri e quelle di cui andava a caccia nel vasto mondo (…), altro non sono che il segno dell’eterna nostalgia, la sola prova che il paradiso è esistito».

Paradiso e nostalgia. Vedete? Eccone un altro che dall’aldilà prova a gettare un occhio da questa parte della barricata. Non bastavano Marcel e Nathan. Ora c’è anche Vladimir che, a dispetto degli altri due, con la sua famigerata autoironia, dà minor peso alla propria scelta isolazionista, mettendone in luce gli aspetti edonistici. Raccomandando «non come prigione dello scrittore ma solo come suo indirizzo permanente, la vituperatissima torre d’avorio, purché ovviamente fornita di telefono e di ascensore». E, vorrei aggiungere io, di sigari e di qualche cofanetto di Doctor House o de I Simpson.

Altri uccelli solitari

Ma a proposito di metafore ornitologiche sentite un po’ questa. Da una lettera del giovane Flaubert a Louise Colet: «Non sono l’usignolo, ma la capinera con il suo grido acre che si nasconde nel profondo del bosco per non essere sentita che da se stessa». Flaubert vuole stare per i fatti suoi. Sta scrivendo Madame Bovary (dico Madame Bovary!) nell’umida pace della sua Croisset, e tutti quanti— amici e amanti— lo reclamano a Parigi, dove le cose accadono, dove la gente à la page si incontra scambiandosi idee e opinioni interessanti. Ma il giovane, altezzosissimo Flaubert non ci sta. Non li vuole vedere. Dalle sue lettere capiamo che non ce n’è uno che non gli faccia schifo: disprezza Lamartine, disprezza Musset, disprezza davvero tutti. La cosa che odia più al mondo è il fatuo cicaleggio dei cenacoli letterari. Vive solo per il giro delle sue frasi. Gli interessano le sue frasi più di qualsiasi altra cosa nell’universo. Che c’è di male in questo?

Ogni tanto mi capita di leggere qualche nostalgico peana sulla società letteraria che non c’è più. I tempi di Moravia, di Pasolini, della Morante. I caffè. Le lunghe conversazioni. I viaggi. Mi prende una tale nausea e un tale disgusto. Provate a immaginare quale nido di vipere fosse. Provate a immaginare gli snobismi, le ipocrisie, le frustrazioni. Non serve leggere Massa e potere di Elias Canetti per capire che anche imigliori messi in un gruppo danno il peggio di sé. Vengono in mente le parole che Molière mette in bocca ad Alceste, il suo meraviglioso misantropo: «Non c’è niente che odii tanto quanto le contorsioni di questi grandi funamboli delle dichiarazioni di amicizia, questi affabili dispensatori di frivoli abbracci, questi accattivanti dicitori di parole inutili, che con tutti fanno a gara a chi fa più cerimonie, e che trattano allo stesso modo il galantuomo e il cafone».

Sì, è così che funziona là fuori: non si fa alcuna distinzione tra il galantuomo e il cafone. Molière lo sapeva. Molière, il saltimbanco, ne soffriva. Erano i tempi di Port-Royal. Di giansenismo imperante. La gente aveva una gran voglia di chiudersi in convento. Un secolo prima Montaigne (il più grande recluso della storia, altro che Salinger) si era ritirato dalla vita pubblica per scrivere cose di intelligenza e lucidità esemplare. Ritirarsi dalla vita pubblica era stato il prezzo da pagare a tutta quell’intelligenza e a tutta quella lucidità. Ecco perché dico che la retraite (così la chiamava Montaigne) non è un vezzo di alcuni letterati ma un’esigenza dello spirito. Una prova di integrità e indipendenza che uno deve dare a se stesso, non certo al mondo.

In una recente confessione intima, George Steiner si chiedeva con vezzoso rincrescimento: «Quale miopia, quale impulso autistico mi ha portato a considerare ogni collettivo, fosse esso un comitato o una folla, un’accademia di studiosi o una squadra sportiva, intrinsecamente sospetto? Quale arroganza preventiva (…) ha fatto di me un "inassociabile" e mi ha convinto che se gli altri sono d’accordo con me, vuol dire che sto dicendo delle banalità o delle cose insensate? Come mai ho deciso di rifiutare di aggiungere la mia firma a manifesti programmatici, appelli, proteste con le cui idee e istanze in gran parte concordo?».

Rispondere a Steiner non è mica difficile: stare soli, non farsi vedere, non disturbare, non mescolare la propria voce a quella degli altri, non aderire a iniziative sociali, disertare i pubblici raduni, è il miglior servigio che uno possa fare a se stesso e alla comunità. In fondo la socialità è sopravvalutata. E tra filantropia emisantropia— a dispetto di quel che dicono i dizionari— non c’è mica tutta questa differenza.

Alessandro Piperno

dal Corriere Online

SI PUO' FARE A MENO DELLA TV


Campagna elettorale, così il web
ha cambiato le regole del gioco


Il format di Enrico Mentana ha provato due cose fondamentali

Si può fare a meno della tv, lo ha dimostrato il «Mentana Condicio». Queste elezioni regionali, grazie a una cavillosa interpretazione della par condicio, rischiavano di essere il funerale del confronto: niente dibattiti tv, in quarantena i contraddittori fra politici. Il format di Enrico Mentana ha provato due cose fondamentali: la prima è che mettere il bavaglio alla tv è ormai un ridicolo controsenso; la seconda, più importante ancora, è che la tv tradizionale o generalista non è più al centro della scena mediatica.

Per questo, giovedì 11 marzo, quando su corriere. it ha preso le mosse il confronto fra Ignazio La Russa ed Enrico Letta, è da considerarsi una data importante: grazie alla indiscussa professionalità del conduttore, il pubblico ha dimostrato di essere capace di migrare da un mezzo all’altro, dalla «vecchia» tv al «nuovo» web. Con l’introduzione della tecnologia digitale, la tv ha mutato il suo statuto e si è trasformata, nel corso di un grande processo di frantumazione, in un new medium. Cioè in un medium interattivo, personalizzabile, delocalizzato, convergente; solo così è possibile trasformare la dimensione comunicativa in un atto sempre più complesso e partecipativo da parte degli spettatori. Sotto questa luce, lo show di Michele Santoro dal PalaDozza di Bologna ha esibito straordinarie capacità di mobilitazione: dell’audience, certo, ma più ancora delle nuove tecnologie distributive: Internet, satellite, digitale terrestre, tv locali, radio, siti, blog, social network, streaming. Mentana e Santoro hanno avuto il merito di sperimentare la sinergia tra nuovi media e vecchi contenuti. Hanno avuto il merito di proporre prodotti professionalmente ineccepibili, anche dal punto di vista tecnico.

Si può fare a meno della tv generalista, specialmente nei momenti in cui il mezzo non svolge soltanto una funzione di intrattenimento ma serve anche a riflettere, a immaginare il proprio destino politico: ciò che caratterizza il cambiamento in atto è l'idea della radicale personalizzazione del consumo. La tv generalista continua a rimanere una grande luogo comune, un discorso condiviso, l’offerta mainstream per eccellenza: le nuove tecnologie, però, non servono più ad «ammazzare il tempo» ma a renderlo proficuo.

Aldo Grasso

venerdì 19 marzo 2010

LA TV GENERALISTA, FRA ALDO BUSI E IVANA TRUMP, HA GIA' SCELTO


Busi radiato dalla Rai: ipocrisie annunciate

Quando si dice avere nerbo: Aldo Busi è stato radiato da tutte le trasmissioni Rai. La decisione è stata presa da Viale Mazzini dopo le escandescenze dello scrittore nella puntata di mercoledì sera: «Il direttore di Raidue, Massimo Liofredi, sentito il direttore generale della Rai Mauro Masi, ha ravvisato nel comportamento dello stesso palesi e gravi violazioni delle regole e delle disposizioni contrattuali». Busi non metterà più piede in Rai (gli restano sempre gli studi Mediaset).

Quello che doveva essere un reality nobilitato dalla cultura, si è concluso nel peggiore dei modi, all’insegna della più sfacciata ipocrisia. Busi ha trasceso, lanciando strali contro gli omofobi, il Papa e il governo. Ma si sapeva che Busi avrebbe «abusato»: è nella sua natura, nel suo stile, nei suoi libri. Se colpa c’è, va ricercata in chi l’ha invitato: ovvio che un personaggio come Busi susciti curiosità, contribuisca alla risonanza mediatica e, quindi, al successo della trasmissione. Alla partenza, intervistato da Aldo Cazzullo, aveva dichiarato le sue intenzioni: «Una clausola mi imponeva di non parlare in modo offensivo di politica e di religione. Ho preteso che venisse tolta. Altrimenti cosa dovrei dire tutto il giorno? Cip-cip?». Cip-cip: prima gli concedono la licenza d’uccidere e poi si strappano i capelli perché ha premuto il grilletto. Basta rivedere la scena finale del suo abbandono per capire tante cose. Perché Busi ha deciso si andare via? Il corpo estraneo è stato espulso. Gli anticorpi della tv generalista (da un concorrente, famoso nel suo condominio, che si esprime solo in romanesco a Mara Venier, da Rossano Rubicondi al figlio adottivo di Renato Zero) lo hanno cacciato. Busi aveva esaurito le energie di sopportazione perché è duro stare tre settimane con persone che parlano un’altra lingua fingendo di parlare la tua.

Senza mai la possibilità di confrontarsi. Busi era l’unico che parlasse in italiano, gli altri, a cominciare dalla conduttrice (che si è inerpicata in una sublime distinzione tra forma e sostanza da «signora mia»), mettono insieme alla rinfusa vocaboli ed espressioni, articolano parole senza un minimo di costrutto, sono prigionieri delle frasi fatte e dei peggiori luoghi comuni (dove si annida il conformismo e l’insincerità). Per questo la Ventura continuava a ripetergli: «Rischi di non essere capito, hai capito?». Su una sperduta isola del Nicaragua si è consumato il dramma dell’incomunicabilità e dell’ipocrisia, mentre la telecamere inquadrava una rifattona americana che non sa come ammazzare il tempo, se non divertendosi a collezionare mariti. Chi scegliere tra Aldo Busi e Ivana Trump? La tv generalista non ha avuto dubbi e infatti, nel motivare il suo abbandono, Busi ha detto un cosa interessante: «Me ne vado perché non c’è più racconto». In tv il racconto è tutto, e a volte non bastano i format, non bastano gli autori, non bastano i conduttori. Ci vorrebbe anche un po’ di creatività e di responsabilità. Busi poteva risparmiarsi un congedo così inopportuno, così inaccettabile. Ma ora Masi, Raidue, Magnolia, la Ventura evitino di impartirci lezioncine di morale.

Aldo Grasso