martedì 21 settembre 2010

DAL 22 SETTEMBRE DALI' A MILANO

Dalì a Milano a Palazzo Reale; in un fumetto l'incontro con Disney



Salvador Dalì
Salvador Dalì
MILANO - Dopo 50 anni torna a Milano uno dei più importanti artisti europei del Novecento. Il 22 settembre si inaugura infatti a Palazzo Reale la mostra «Salvador Dalí. Il sogno si avvicina», curata da Vincenzo Trione, promossa dal Comune di Milano – Cultura e prodotta da Palazzo Reale con 24 ORE Cultura – GRUPPO 24 ORE. Attraverso 56 opere, la mostra esplora il rapporto tra l’artista surrealista spagnolo e il paesaggio, il desiderio, il sogno, ma spalanca anche un’altra finestra sul mondo di Dalí, poco nota eppure affascinante. A chiusura del percorso espositivo, infatti, sarà possibile ammirare un cortometraggio mai proiettato in Italia, Destino, frutto della collaborazione di Dalí con Walt Disney.
DALÍ E IL CINEMA - Nato nei primi anni 20 dall’esperienza dadaista e influenzato dalla psicanalisi, il surrealismo esplora con l’arte l’inconscio dell’uomo, prediligendo stati come il sogno, l’allucinazione, la fantasia, l’illusione. Il cinema, oltre alla pittura, pare capace di andare al di là del conosciuto e di svelare la «surrealtà», fatta di realtà e sogno. Diversi esponenti del movimento si cimentano così con la macchina da presa. Dalí insieme a Luis Buñuel firma prima Un chien andalou (1929) e poi L'âge d'or (1930): immagini allusive si susseguono senza una vera logica narrativa. Ma non sono solo i film d’avanguardia ad attirare Dalí. È il cinema di per sé, infatti, a poter essere surreale: «Sono venuto a Hollywood e voglio incontrare tre surrealisti americani grandi: i fratelli Marx, Cecil B. DeMille e Walt Disney» scrive a André Breton nel 1937. Per l’artista, arte popolare e avanguardia possono coincidere. Dalí si lega così a Harpo Marx, sviluppando per i celebri fratelli un’idea mai realizzata di lungometraggio. Collabora nel 1945 alla sequenza onirica di Io ti salverò di Alfred Hitchcock: non poteva che esserci intesa con il regista inglese che parlava dei suoi film come di «sogni ad occhi aperti». Infine incontra Walt Disney. I due si piacciono. E si somigliano: gran promotori tanto di se stessi quanto delle loro opere, devoti al proprio lavoro, mescolano fantasie romantiche a un disegno preciso, «realistico». E così nel 1946 Dalí diventa impiegato di lusso presso Disney.

LA COLLABORAZIONE CON DISNEY - Dalí timbra il cartellino per circa tre mesi dalle 9 alle 5. L’idea è produrre un cortometraggio da inserire in un film a episodi. La musica scelta è una ballata messicana, Destino, scartata per il film I tre Caballerros. Disney immagina la storia di una ragazza in cerca del suo amore, Dalí conduce la protagonista in uno spazio-tempo labirintico, giocando con le metamorfosi permesse dall’animazione. Vengono prodotti disegni, schizzi, storyboard. Ma mai il cortometraggio: forse perché l’era dei film a episodi è ormai finita, forse perché il progetto è troppo «sperimentale», forse perché mancano i soldi. Disney e Dalí cessano il loro rapporto di lavoro, ma continuano quello personale.

lunedì 20 settembre 2010

TAROC BRILLO




 
Marco Vallora per "La Stampa"
E' inutile fingere: se verrà provata questa «voce» (già uscita nel 2007) dei falsi Brillo di Warhol, commissionati? Spacciati? Autenticati? Accolti? (qui sta il vero problema) da Pontus Hulten, pontefice dell'arte d'avanguardia, le cose dell'arte moderna, e le acque dell'estetica contemporanea, non rimarranno più le stesse. E per un po' di tempo, almeno, verranno incrinate, e non soltanto dal pettegolezzo giornalistico.
Ma se adesso sarebbe troppo incauto e precipitoso gettarsi a pesce a tranciar giudizi, alcune osservazioni preventive si posson comunque avanzare. Non tanto per difendere la lesa Maestà d'un santone eccentrico, ma per tarpare le ali, sì, in anticipo, al moralismo di quei complici compagni di strada, che già ci par di vedere, ratti, montare sul trampolino dell'ipocrita Presa delle Distanze.
Ora, bando alle vaghezze: Pontus Hulten non è altro che lo specchio barocco dello stato dell'arte in cui ci troviamo. Ci si rechi per esempio alla parigina mostra Second Main: ci si trova di fronte ad una scatola Brillo, d'un trascurabile artista up to date in tutto e per tutto warholiana, con la sola «alzata di concetto» di simularla di qualche millimetro o centimetro più grande. Se non ci saranno prove di lucro, ma solo di presa in giro del sistema, certo Pontus Hulten non avrà fatto altro che esser fedelissimo alla poetica di Warhol, anzi d'aver incarnato la sua «Filosofia. Che sosteneva che l'idea feticistica dell'autografia gli dava ai nervi, che le sue litografie non le tirava lui, ma la sua factory e la sua vecchia mammaccia emigrata: come si fanno i tortellini in casa. Sì, pure post-mortem sua. Ma che gl'importava di sé, dopo, avendo annunciato che l'unico suo sogno era di trasmigrare in un anello, al dito di Liz Taylor? Queste cose, ne la Trasfigurazione del banale un estetologo come Danto le ha spiegate a menadito.
Se invece viene fuori che Hulten, con quella sua aria da gatto sornione, ci ha guadagnato e s'è fatto la villetta in Svezia, il problema non tocca solo lui, ma l'intero sistema-mafia dell'arte. E risulterà davvero il primo, unico curator a farsi mercante, gallerista subacqueo, pataccaro con medaglia nazionale?