lunedì 15 febbraio 2010

IL RIDICOLO BON TON DEI RISTORANTI DI LUSSO

Il ridicolo bon ton dei ristoranti di lusso. Dal blog Mangiare a Milano di Valerio Visintin.
13/02/2010

Il ridicolo bon ton dei ristoranti di lusso

Scritto da: Valerio M. Visintin alle 18:17
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BonTon.jpgL’altro giorno, sedendo a un tavolo del Marchesino, consideravamo quanto sia macchinoso, ridicolo e più che altro scomodo il cerimoniale dei ristoranti d’alto bordo.

In questa creatura senile del sommo Gualtiero Marchesi (dove l’ambiente è così così, dove si mangia così così, dove il conto è grosso così) si replica in pose di gesso tutto il cliché di un bon ton anacronistico, che non solleva nemmeno quel po’ di stupore da museo delle cere. Perché confligge col nostro comfort, col nostro diritto a goderci la cena tranquilli e indisturbati.

Il primo atto è la consegna dei tovaglioli, che in effetti non scorgiamo sulla tavola di bianco vestita. Ce li porta un ragazzino incartato in un frac che non gli vuol bene. Reca con sé una cesta. La culla tra le braccia come le contadinelle del presepio. Pare non contenga minacce, finché ne estrae fulmineo un lenzuolo, tenendolo per un angolo e facendolo fluttuare nell’aria come le micidiali armi dei thugs salgariani. Impossibile credere che si tratti di un tovagliolo. Per fortuna lo spavento è mitigato dalla certezza che ci terranno in vita almeno sino al saldo del conto.

Ma in questi aurei saloni hanno ben altre prove in serbo per noi. La più ostica è l’individuazione di un cameriere al quale rivolgersi per qualche semplice domanda sul menu o per una qualsiasi contingenza. È un problema che si pone non già per assenza di personale. Piuttosto, per la ragione contraria, essendo in atto un valzer di figure in giacca nera rigidamente costrette a singoli doveri. Alcuni sfilano silenti e segreti come fantasmi, sordomuti per contratto, relegati a mansioni minori e invisibili all’occhio umano. Altri sono abilitati alla consegna dei piatti, ma hanno il divieto di recepire le comande. Poi c’è l’addetto al pane, che non può servire il vino. C’è l’addetto al vino che del pane non deve intuire nemmeno l’esistenza. E c’era, anni fa in uno di questi ristorantoni, un severo signore in sosta davanti alla cucina, il quale si limitava a ricambiare amabilmente i nostri sorrisi. Per indurlo a un’attenzione più attiva, gli feci cenno, discreto ma inequivoco, di avvicinarsi al nostro tavolo. Non fu una buona idea, poiché il bruto reagì seccamente voltandoci le spalle. Scoprimmo qualche minuto più tardi che si trattava di un noto avvocato in anticipo sui suoi commensali.

L’ambito nel quale, sopra a tutti, il galateo della ristorazione si produce con accanimento patologico è, però, quello che riguarda il vino. A parte le dimensioni dei calici, che crescono di anno in anno come le piante da giardino; a parte le manfrine del sommelier che in casi non rari assaggia il vino prima di farlo testare al cliente (ma, perbacco, è il mio vino!); è invalsa la più fessa delle usanze. Tenere, cioè, la bottiglia lontana dal nostro tavolo e dalla nostra vista, in un recesso misterioso e inaccessibile. È già abbastanza irritante subire il continuo, arbitrario rabbocco del bicchiere; ma con l’esilio della bottiglia si istituisce definitivamente un rapporto di totale dipendenza dal cameriere preposto alla mescita.

Ebbi uno scontro verbale a questo proposito col sommelier di Cracco Peck (lo chef non si era ancora reso indipendente dalla celebre gastronomia). Non ci fu niente da fare. Arrivò persino a dire che se mi avesse portato la bottiglia al tavolo avrebbe mancato di riguardo agli altri avventori.

Così, ora non litigo più. Mi limito a tessere un sordo duello col cameriere. Bevo all’impazzata, bevo in dribbling, bevo in contropiede, bevo di nascosto ad ogni occasione per poter tuonare con rimprovero: “Mi serve questo vino, per cortesia, o no?”.
Naturalmente concludo la battaglia in leggera defaillance alcolica. Ma volete mettere la soddisfazione?

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