domenica 30 marzo 2008

repressione in Cina

Mercoledì, 26 Marzo 2008

“Rieducazione” per i monaci tibetani

L’indignazione per il Tibet non si spegne nell’opinione pubblica internazionale. E costringe i governi occidentali ad aumentare la pressione sulla Cina. Dopo due settimane di silenzio per la prima volta dalla ribellione di Lhasa è intervenuto George Bush. Il presidente americano ha telefonato al suo omologo cinese, Hu Jintao, per invitarlo a “impegnarsi in un dialogo sostanziale con i rappresentanti del Dalai Lama, e a consentire l’accesso in Tibet a giornalisti e diplomatici”. La Casa Bianca ha precisato però che l’America non boicotterà i Giochi. Il presidente degli Stati Uniti per il momento non ha preso neppure in esame la possibilità di disertare la cerimonia d’apertura, un gesto che invece non è escluso dal francese Nicolas Sarkozy. Il Parlamento europeo ha rilanciato con forza questa proposta per estenderla a tutti i leader dell’Unione. Aprendo una seduta straordinaria convocata sul Tibet, il presidente dell’Europarlamento Hans-Gert Poettering ha dichiarato: “Tutti i politici devono chiedersi se è possibile partecipare alla cerimonia inaugurale dei Giochi, qualora la Cina insista nel rifiutare il dialogo con il Dalai Lama”. Il boicottaggio dei Giochi e quello della cerimonia inaugurale sono due opzioni ben diverse. Nel primo caso si può temere che la maggioranza dei cinesi si sentirebbe offesa e ferita nel suo orgoglio patriottico. L’assenza dei capi di Stato occidentali nella tribuna d’onore con Hu Jintao alla cerimonia inaugurale sarebbe invece un gesto di condanna mirato chiaramente contro i vertici del regime colpevoli della repressione in Tibet. L’Europarlamento ha anche approvato per acclamazione l’invito rivolto dal suo presidente al leader spirituale dei buddisti tibetani: “Il Dalai Lama è benvenuto in questa assemblea ogni volta che vorrà venire”. Le notizie che giungono dal Tibet non sono segnali di dialogo e distensione. Al contrario, si riaprono le porte dei laogai. Per i monaci buddisti tibetani catturati nelle retate di questi giorni comincia un’odissea tristemente nota, la deportazione nei lager cinesi. E’ il trattamento che il regime di Pechino riserva ai seguaci del Dalai Lama dagli anni Cinquanta: lavori forzati, sedute di rieducazione politica cioè lavaggio del cervello, indottrinamento patriottico, umiliazioni e spesso torture. Generazioni di monaci sono passate attraverso queste sofferenze, molti ne sono morti, senza che la Repubblica popolare riuscisse a piegare la resistenza del popolo tibetano. Ma Pechino insiste con i metodi di sempre. Lo ha rivelato il professor Dramdul del Centro di ricerca tibetologica, un pensatoio di regime che si occupa “scientificamente” della questione tibetana per conto del partito comunista. “Rilanciare l’educazione patriottica è necessario – ha detto l’esponente del regime – perché la cricca del Dalai Lama ha manovrato per sabotare lo sviluppo del Tibet e il buddismo tibetano. L’educazione dei monaci serve a contrastare l’influenza di piccoli gruppi secessionisti che tramano dall’estero”. La nuova ondata di deportazioni dei monaci nei laogai viene annunciata insieme con un aggiornamento del bollettino di guerra nelle operazioni contro i ribelli tibetani. Secondo le cifre ufficiali fornite dal governo cinese salgono a 660 i rivoltosi che si sarebbero “arresi alle autorità”, e che saranno giudicati per le violenze avvenute durante la più grande rivolta tibetana degli ultimi vent’anni. Il bilancio delle vittime è stato aggiornato a 19 morti da parte cinese, mentre il governo tibetano in esilio parla di 140 uccisi dalle forze dell’ordine. La polizia a Lhasa ha anche diffuso una nuova lista di 53 “super-ricercati” sui quali è stata posta una taglia. E’ arrivato a Lhasa un gruppo di 26 giornalisti stranieri selezionati dal governo di Pechino, scortati e sorvegliati da funzionari del ministero degli Esteri. E’ la prima volta che dei reporter stranieri vengono ammessi in Tibet dopo l’esplosione dei disordini del 14 marzo. Un cronista dell’Associated Press ha descritto le condizioni particolari in cui si è svolto il loro arrivo e la visita collettiva. “L’autobus dall’aeroporto a Lhasa andava volutamente lentissimo nonostante le nostre proteste. Abbiamo passato tre posti di blocco. Un ufficiale ha spiegato che stavano fermando gli automobilisti solo per controllare eccessi di velocità, infrazioni al codice della strada o il mancato uso della cintura di sicurezza. Davanti agli edifici pubblici abbiamo visto polizia militare in tuta mimetica e con armi automatiche puntate, in stato di massima allerta. Ci hanno portati in visita a una clinica bruciata durante le proteste. La sera i nostri accompagnatori ci hanno sconsigliato di uscire dall’albergo e ci hanno chiesto di informarli su ogni nostro movimento”. Il ministero degli Esteri ha rifiutato di rispondere alle nostre domande sui criteri con cui sono stati selezionati i giornalisti stranieri per la visita “guidata” a Lhasa. Il Foreign Correspondents’ Club of China, l’associazione della stampa estera, ha denunciato questa “visita breve e sotto massima sorveglianza” come un tradimento degli impegni formali presi da Pechino quando si candidò a ospitare le Olimpiadi. L’associazione ha elencato “più di 40 violazioni degli impegni sulla libertà di circolazione”, ha denunciato “varie forme di intimidazione dei giornalisti”, ha chiesto al governo cinese di “permettere a tutti gli altri giornalisti stranieri di viaggiare in Tibet senza interferenze”. I diplomatici non sono trattati meglio di noi. L’Australia, il cui governo laburista ha ottime relazioni con la Repubblica popolare, ha presentato una richiesta formale perché un gruppo di diplomatici stranieri possano andare in Tibet come osservatori indipendenti. La richiesta è stata respinta da Pechino con la giustificazione che il governo cinese non vuole mettere a repentaglio “la sicurezza degli stranieri”.

Pubblicato in Tibet, Olimpiadi

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