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sabato 29 maggio 2010

LA COOP BOICOOPTA

CARRELLO I(COOP)RITA: LA COOP E LA CAMPAGNA ANTIISRAELIANA MASCHERATA

dal Corriere Online

La Coop e l’iniziativa anti-Israele (rientrata)

Quando sotto l’etichetta
si cela il boicottaggio

Dietro la «tracciabilità» una campagna mirata contro uno Stato
di Pierluigi Battista
Nell’Italia che gioca e minimizza con le parole, un boicottaggio prende le forme di un’aggrovigliata questione di «tracciabilità», e una campagna mirata all’ostracismo politico ed economico di uno Stato diventa un banale problema di etichetta, un diverbio a distanza sui prodotti a denominazione di origine controllata.

E invece la guerra Coop (e Nordiconad) contro i prodotti israeliani dell’Agrexco si è rivelata nel giro di poche ore per quello che era: un caso politico, una disputa che al boicottaggio ha sommato un’inedita minaccia di contro-boicottaggio. Altro che «tracciabilità». Ora, stipulato l’accordo (o la tregua), i prodotti ortofrutticoli tornano sui banconi della Coop. La quale Coop ha trovato stavolta in Internet, nei blog, nei social network, un ostacolo insormontabile per la sua strategia di minimizzazione. Dicevano che non era «boicottaggio», che era solo una questione di precisione e di lealtà di mercato, che i clienti dovevano sapere che dietro il «made in Israel» c’erano anche i prodotti raccolti e lavorati dal gigante agro-alimentare Agrexco nei Territori occupati che, come è noto, non sono ancora uno Stato palestinese, ma sicuramente non sono Stato di Israele. Però l’Agrexco ha ribattuto che quei prodotti coprivano solo lo 0,4 per cento del totale e che se c’era da adeguare l’etichetta ai canoni fissati dalle norme Ue, allora non avrebbero opposto alcun impedimento. E allora, c’era bisogno che la Coop stilasse un annuncio tanto impegnativo, nientemeno che la liberazione dei propri scaffali dai prodotti israeliani, alcuni di incerta origine? Non potevano rivolgersi direttamente all’Agrexco, come poi è stato fatto, ma solo dopo l’improvvido, e catastrofico, annuncio del boicottaggio? E poi, sicuri che non era proprio, esattamente «boicottaggio»?

I responsabili della Coop dicono di no, che non è mai stato boicottaggio. Ma poi si scopre che sul sito dell’ong «Stop Agrexco» ci si compiaceva nei giorni scorsi per «l’importante risultato della campagna di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni» (tutto con le maiuscole) «contro l’apartheid israeliano». Solo una «questione di etichetta» o quell’accenno all’ «apartheid israeliano» non denuncia forse un’intenzione politica un po’ meno, per così dire, tecnicistica? «Boicottaggio», ecco comparire, ripetutamente e ossessivamente dai suoi promotori, la parola proibita. Così come compare, sullo stesso sito, la sequenza di azioni dimostrative che in un paio di mesi hanno vigorosamente convinto la Coop ad adottare improvvisamente la decisione ora rientrata: manifestazioni ai supermercati Coop di Largo Agosta e di Via Laurentina a Roma; manifestazioni davanti alla Coop di Pisa, Coop Italia di Casalecchio di Reno, davanti alle Coop di Pesaro e Jesi tramite l’organizzazione «Campagna Palestina Solidarietà Marche», e così via. Molto spesso comparivano volantini in cui si deplorava «il governo israeliano che si è ripetutamente macchiato di crimini contro la guerra e l’umanità». Sempre compariva la parola proibita, «boicottaggio»: quella che la Coop ha sempre negato, quella che basta dare un’occhiata a un po’ di filmati presenti sull’ubiqua e onnipresente YouTube per scoprirne il marchio «Boycott!», con i militanti che indossano la stessa maglietta inneggiante alla «Palestina libera», le stesse scene degli scaffali con i prodotti israeliani presi di mira, lo stesso linguaggio molto aggressivo.

La strategia della minimizzazione, lo sradicamento della parola «boicottaggio» dal lessico della Coop, non hanno retto stavolta alle reazioni che hanno avuto soprattutto sui blog il loro canale di informazione: in modo «trasversale», sia sulla destra che sulla sinistra. Una sinistra che, in un'accorata lettera aperta firmata tra gli altri da Furio Colombo, Emanuele Fiano e Gianni Vernetti, si è interrogata stupefatta sulle ragioni che hanno indotto un’organizzazione «progressista» come la Coop ad assecondare la campagna anti-israeliana, sottovalutando l’impatto emotivo, e il risveglio di memorie orribili, dell’estromissione dei prodotti «ebraici» dagli scaffali di un negozio. Una destra che ha visto Fiamma Nirenstein tra i principali artefici del contro-boicottaggio e che tramite il ministro degli Esteri Frattini si è espressa con un aggettivo, «razzista», dal sapore inequivocabile. Su Facebook sono nati gruppi denominati «Coop boicotta i prodotti di Israele? Noi boicottiamo la Coop» e «Io non compro né alla Coop né alla Conad» che hanno raccolto miglia di adesioni. È comparsa addirittura la tragica foto della sorridente italiana del 1938 che spensieratamente esibisce il cartello «Questo negozio è ariano» sulla vetrina della sua bottega. Si sono scritte lettere aperte a Luciana Littizzetto, testimonial della Coop. La reazione comunicativa della Coop non ha funzionato, a cominciare dalla rassicurante pagina di pubblicità acquistata sui giornali per allontanare dal marchio Coop il fantasma del «boicottaggio ». Oggi si sigla, obtorto collo, un accordo con l’Agrexco. E lo schieramento anti- boicottaggio si ritrova, bipartisan, per un’ultima manifestazione di protesta davanti a un supermercato Coop. Un clamoroso autogoal, nel migliore dei casi. Una ferita aperta con una parte dell’opinione pubblica che non si riconosce nella martellante campagna anti-israeliana

Pierluigi Battista

mercoledì 14 aprile 2010

AVVISO A LOS EVASORES: 10.000 CONTI PRONTI AD EMERGERE


FISCO: 10MILA CONTI ITALIANI IN LISTA HSBC, ENTRO 20 GIORNI I NOMI
(Adnkronos) - Sarebbero 10mila, a quanto apprende l'ADNKRONOS, i correntisti italiani, sospettati di evasione fiscale, presenti nella lista di nomi sottratta dall'ex dipendente Herve' Falciani alla divisione svizzera di Hsbc, e ora in possesso del procuratore di Nizza Eric de Montgolfier. Una lista che la Procura di Torino ha chiesto e ottenuto di poter consultare con una rogatoria che sara' soddisfatta, a quanto si apprende entro 20 giorni, dal Procuratore di Nizza, Eric de Montgolfier.

martedì 13 aprile 2010

SELL HIRST!


da DAGOSPIA, er mejo sito che ci sia

UN MONDO ALLO SBANDO ...
"Vale cinquemila sterline la corsa in taxi con Damien Hirst". L'artista più celebrato del momento regala uno scarabocchio a un tassista londinese e lo stronzo lo fa subito picchiare all'asta per comprare una cazzo di videocamera al figlio presunto creativo (Stampa, p.35).

lunedì 16 febbraio 2009

ANCHE LUI TIENE FAMIGLIA

TENGO FAMIGLIA! - Il figlio dEL PRESIDENTE Napolitano nominato nell’organo che vigilerà l’accesso alla rete Telecom – SCUSATE, Ma che c’entra un professore di diritto pubblico con le telecomunicazioni? Mistero GAUDIOSO… -


Giulio Napolitano e Marianna Madia

La notizia l'ha data l'altro giorno l'agenzia di stampa Radiocor e l'ha confezionata con dovizia di particolari il "Sole 24 Ore" di sabato: l'Authority per le Comunicazioni di Corrado Calabrò ha nominato i membri dell'Organo di Vigilanza che si occuperà dell'accesso alla rete Telecom. I nomi sono: Gerard Pogorel, professore alla Scuola nazionale Superiore delle Telecomunicazioni in Francia; Claudio Leporelli, professore di ingegneria economico-gestionale alla Sapienza di Roma; Giulio Napolitano, professore di Istituzioni di diritto pubblico all‘università di Roma Tre.

Se per i primi due nominati a prima vista non vengono in mente obiezioni, date le materie che insegnano, sul terzo qualche dubbio sorge: che c'entra un professore di diritto pubblico con la rete Telecom? La sua bibliografia (http://www.scienzepolitiche.uniroma3.it/cgi-bin/WebObjects/politiche.woa/QWDirectAction?pageID=316) presenta la gran parte degli interventi dedicati a diritto amministrativo, costituzione, autorità di controllo in genere, ma non pare ci sia un'un attenzione preponderante al settore tlc, anche se Carmine Fotina sul giornale di Flebuccio De Bortoli non manca di sottolineare che si tratta di un "giurista con vaste competenze nel settore tlc". Eppure nessuno se l'è sentita di eccepire sull'incarico conferito al figlio del presidente della Repubblica.

lunedì 9 febbraio 2009

Eluana: il punto di vista di Panebianco

dal corriere online

Quel silenzioso terzo partito


di Angelo Panebianco

Proviamo a riprendere fiato. Il conflitto fra i difensori del «diritto alla libertà di scelta» e i difensori della «sacralità della vita» è degenerato nel modo in cui sappiamo. La violenza dello scontro ha coinvolto le istituzioni al massimo livello e ha spaccato il Paese. Due partiti nemici (si badi: ho detto nemici, non avversari) si fronteggiano e nessuno sa come andrà a finire. Come sempre in questi casi, è scattato, nei due campi, l'ordine di mobilitazione generale, la militarizzazione delle coscienze è in corso, e la consegna, per le opposte schiere, è di non fare prigionieri. Eppure, nonostante la violenza del conflitto, e la polarizzazione che l'accompagna, non è così facile (come vorrebbe farci credere la propaganda dei due contrapposti partiti) spazzare via i dubbi che le persone di buon senso, quali che siano le loro convinzioni morali, devono per forza nutrire di fronte a una vicenda come quella di Eluana. Anche se non è detto che i protagonisti ne abbiano piena contezza, l'intrattabilità politica del tema trova una eco nei «trasversalismi » e in certe contorsioni che si manifestano in queste ore nell'arena pubblica.

Se il Presidente della Camera, Gianfranco Fini, sceglie di non seguire il leader dello schieramento cui appartiene, aprendo così una frattura difficilmente ricomponibile, ecco che Antonio Di Pietro, l'arcinemico di Berlusconi, dichiara di dare libertà di coscienza ai suoi parlamentari sul provvedimento del governo, ammettendo così implicitamente il proprio accordo con la scelta del premier di tenere in vita Eluana. E si noti che anche alcuni settori del Pd sono orientati a votare a favore. Ormai le cose si sono spinte troppo in là, è troppo tardi per fermare il processo che si è messo in moto ma è giusto per lo meno dare testimonianza del fatto che, oltre ai due partiti che si scontrano, ne esiste anche un terzo, per lo più silenzioso, e che, comunque vada la vicenda, è già stato sconfitto. È il partito di chi pensa che la Politica, la Democrazia, il Diritto, e tutte le altre più o meno utili astrazioni che siamo soliti invocare per imporre faticosamente un minimo di ordine nella vita associata dovrebbero essere tenute fuori dalla porta al di là della quale sono in gioco, come in questo caso, le questioni ultime dell'esistenza. È il partito di chi pensa che occorrerebbe coltivare, nella riservatezza e nella discrezione, una zona grigia, protetta da una necessaria ipocrisia, nella quale le decisioni sul caso singolo (sempre diverso, almeno per qualche aspetto, da qualunque altro caso singolo) restano affidate alla sensibilità e alla pietas del medico che ha in cura il malato e ai sentimenti delle persone che lo amano. Che è quanto si è sempre fatto, checché ne dicano certi sepolcri imbiancati. È il partito di chi pensa che quelle situazioni debbano essere sottratte al clamore delle «battaglie di principio». Condivido quanto ha detto Emanuele Severino (sul Corriere di ieri): a scontrarsi sono due forme di violenza. I due partiti millantano certezze assolute che, su questa terra almeno, a nessuno è dato di possedere.

Fa francamente effetto (e non è un bell'effetto) vedere, nei telegiornali, le opposte fazioni mobilitate e schierate, a Udine e in altri luoghi, l'una a difesa della vita di Eluana e l'altra a difesa del suo diritto a morire. Credo che, in queste ore, nessuno incarni lo spirito dei due partiti contrapposti meglio di Marco Pannella e di Giuliano Ferrara, due uomini stimabilissimi per il coraggio, la passione e l'onestà intellettuale con cui difendono le cose in cui credono. Schierati sugli opposti lati della barricata Pannella e Ferrara hanno tuttavia una cosa in comune: credono entrambi che tocchi alla legge, e alla democrazia che fa le leggi, il compito di imporre la soluzione. Per il diritto del singolo a scegliere, sempre e comunque (Pannella). Per l'intangibilità della vita, sempre e comunque (Ferrara). Anche se la differenza è che, per Ferrara, l'intervento del Parlamento dovrebbe essere la risposta di emergenza a una sentenza emessa in assenza di legge. Spiacente ma sono in disaccordo con entrambi. Deploro fortemente la giuridicizzazione (e l'inevitabile politicizzazione che l'accompagna) di questioni come questa. La legge è uno strumento che gli uomini hanno inventato per ridurre l'arbitrio, per trattare in modo il più possibile simile casi simili. Le «buone» leggi (non sempre le leggi sono buone) rappresentano effettivamente un utile strumento, ancorché imperfetto, per favorire uguali trattamenti e affermare principi universalistici in molte situazioni.

Ma non credo affatto che una legge possa davvero regolare le questioni-limite di cui qui parliamo. Data l'estrema variabilità dei casi, e le profonde, irriducibili, differenze fra le persone, una legge che offre una buona soluzione per un caso può risolversi in una intollerabile forma di violenza in un altro caso. D'altra parte, dire leggi significa dire tribunali. Proprio il caso di Eluana mostra quanta fragilità, quante incongruenze, quante contorsioni, siano contenute nelle sentenze dei tribunali su vicende come la sua. Lo stesso discorso vale per la democrazia. Con tutte le sue brutture e volgarità, è pur sempre la migliore forma di governo, dal momento che consente di risolvere le controversie senza spargimenti di sangue, con il voto anziché con le armi. Da qui però ad affidarle le decisioni sulla vita e sulla morte ce ne corre, o ce ne dovrebbe correre assai. Parlamenti e tribunali, insomma, dovrebbero essere tenuti lontani da queste cose, a conveniente distanza di sicurezza. Certo, i progressi della medicina modificano continuamente le situazioni e la politica subisce un'inevitabile pressione a intervenire. E può anche accadere, in qualche caso, che un Parlamento riesca a sfornare una legge (ci credo poco, ma l'eventualità non può essere scartata a priori) che rappresenti un buon punto di equilibrio fra opposte, e forse ugualmente rispettabili, esigenze. Se non c'è verso di tenere le grinfie dello Stato, ancorché democratico, lontano dalle questioni estreme, che almeno si evitino gli eccessi. La politicizzazione della morte è il misfatto più grave che una democrazia possa commettere.

09 febbraio 2009

martedì 27 gennaio 2009

UNA BOZZA PERICOLOSISSIMA PER LA LIBERTA' DI ESPRESSIONE


"Contro i pirati, censura web"
E' una bozza ma è già polemica
E' arrivata al comitato governativo (sembra messa a punto dalla Siae) la proposta di legge contro la pirateria digitale e ha scatenato l'inferno in rete. A farne le spese potrebbero essere non solo gli utenti ma anche "soggetti come YouTube, a tutto vantaggio di Mediaset e delle altre tv" di ALESSANDRO LONGO

"Contro i pirati, censura web" E' una bozza ma è già polemica
UNA PROPOSTA di legge che, combattendo la pirateria digitale, spinge verso una censura del web. Una censura dall'alto, con un rigore mai visto prima in Italia. E a farne le spese potrebbero essere non solo gli utenti ma anche soggetti come YouTube, a vantaggio di Mediaset e delle emittenti che sentono violati i propri diritti d'autore.

Sono questi aspetti che stanno facendo divampare le polemiche, in rete, sulla prima proposta di legge arrivata al neonato Comitato tecnico governativo contro la pirateria digitale e multimediale. Il documento è trapelato sul web e pubblicato da Altroconsumo, associazione dei consumatori, che lo boccia allarmata: "Il provvedimento appare arcaico, protezionista e contrario agli interessi dei consumatori e dell'innovazione del mercato digitale".

"Ad inquietare sono numerosi punti di quella proposta", spiega a Repubblica.it Guido Scorza, avvocato tra i massimi esperti di internet in Italia. "Per prima cosa, si dà una delega in bianco al governo, per attuare nuove misura a difesa del diritto d'autore. I imponendo responsabilità, in caso di violazione, a utenti e a"prestatori di servizi della società dell'informazione". Chi sono questi soggetti? "Nella proposta si parla anche di provider internet, che però per il diritto comunitario, recepito in Italia, non possono essere responsabili di quanto fatto dai propri utenti. Pensiamo allora che la proposta voglia attribuire responsabilità, ora non certe sul piano giuridico, a soggetti come YouTube e a fornitori di hosting".

"Se passasse questa proposta, certo YouTube perderebbe la causa contro Mediaset e altre emittenti che lo denunciano per la presenza di materiale pirata sul portale", aggiunge Scorza. YouTube (e altri portali analoghi) chiuderebbe in Italia, subissato da cause perse, o sarebbe a cambiare molto il servizio solo per gli italiani.

La proposta non parla di misure contro gli utenti che violano il diritto d'autore (scaricando e condividendo file pirata), "ma quella delega in bianco non lascia presagire nulla di buono. Potrebbe essere la nota misura della disconnessione coatta degli utenti da internet, la cosiddetta dottina Sarkozy, che questo governo, la Siae e Fimi hanno già dichiarato di apprezzare". Dottrina che però è ancora in forse e ha già ricevuto una bocciatura dal parlamento europeo perché lesivo dei diritti degli utenti.

Sorprende poi un articolo, nella proposta, che con il diritto d'autore non ha niente a che vedere ma che ha il sapore della censura a 360 gradi: "Attribuzione di poteri di controllo alle Autorità di governo e alle forze dell'ordine per la salvaguardia su tali piattaforme telematiche del rispetto delle norme imperative, dell'ordine pubblico, del buon costume, ivi inclusa la tutela dei minori".

Insomma, una specie di commissione di censura di quello che sta sul web, come avviene per il cinema, ma con ricadute molto più pesanti: perché andrebbe a porre paletti alla possibilità di ciascun utente di leggere o pubblicare una notizia o un video d'informazione. Su uno sciopero non autorizzato, per esempio, o su alcuni fatti potenzialmente diffamanti per un politico. Si noti che una norma simile, il Child Safe Act, voluto da Bush, è appena stata dichiarata anticostituzionale negli Usa. L'Italia andrebbe quindi contro tendenza, se passasse la proposta.

A contorno di tutta la vicenda c'è un giallo. In rete i primi commenti hanno attribuito la proposta alla Siae, che siede al Comitato. La Siae nelle scorse ore ha smentito quest'attribuzione, ma senza entrare nel merito del documento. Ha smentito, insomma, solo di esserne il padre, ma non ne ha negato l'esistenza. Addetti ai lavori continuano però a sospettare che sia stata proprio la Siae a redigerlo. Il motivo è che il nome della Siae appare indicato come l'autore del documento, nelle proprietà del file della proposta di legge trapelato agli addetti ai lavori (e che Repubblica.it ha potuto leggere).

"Crediamo che adesso, dopo questa polemica, si possa tornare a discutere prendendo le distanze da quel documento. Così, del resto, il governo ci aveva promesso: il ministro Sandro Bondi (per i beni e le attività culturali) aveva detto infatti che la proposta di legge sarebbe arrivata al Comunicato solo dopo una consultazione con le varie parti", dice Marco Pierani, responsabile rapporti istituzionali di Altroconsumo. Consultazione che ancora non è avvenuta. Ecco perché i consumatori si sono sentiti traditi all'arrivo di questa proposta di legge.

(27 gennaio 2009)

lunedì 19 gennaio 2009

4 punti di share persi, i giovani in fuga da ANNOZERO ultrafazioso

Santoro manicheo perde ascolti

Lo penalizzano soprattutto i giovani

Michele Santoro
Michele Santoro
La peggiore puntata, e non solo per qualità. Anche gli ascolti penalizzano l'ultima messa in onda di «Annozero» di Michele Santoro, quella così faziosa da generare la lite con Lucia Annunziata, e il suo abbandono del programma. Così, per una volta, la tele-rissa non porta spettatori, anzi. Giovedì scorso Santoro ha perso 4 punti secchi di share, attestandosi sul 13,35% di media, contro il 17,46% dell'attuale stagione.

Lo penalizzano soprattutto i giovani: fuga da «Annozero» per adolescenti e giovani-adulti (dal 10% di media al 4,9%), e per i trenta-quarantenni (dal 14% di media all'8,2%). Gli unici a restar fedeli sono gli ultra65enni, più abituati a ragionare «per appuntamenti» predefiniti che «per zapping». In questo tracollo così evidente pesano soprattutto due fattori: c'è, da un lato, la difficoltà dell'informazione televisiva a parlare di politica estera, mantenendo vivo un interesse del grande pubblico, specie dei giovani. Ma il secondo fattore mostra che, in realtà, questa difficoltà è un cane che si morde la coda: adottare un punto di vista così schierato e fazioso contribuisce alla fuga. Se ci si avvicina al racconto di una grande e complessa crisi internazionale, fatta di luci e tante ombre, lo si fa in primo luogo con l'intento di capirci qualcosa in più (motivazione che muove in particolare il pubblico giovane). Uno sguardo manicheo, dove tutto è o nero o bianco, fa il peggior servizio (pubblico) a chi avrebbe anche voglia e disponibilità a usare la tv per farsi un'opinione. Per una volta il pubblico ha fatto giustizia di una brutta pagina della storia della tv. In collaborazione con Massimo Scaglioni, elaborazione Geca Italia su dati Auditel

sabato 17 gennaio 2009

(SAN) TORO, IL VIOLENTO MARTIRE DELLA CENSURA

La rozza e astiosa cultura stalinista di Michele Santoro ha colpito ancora. Questa volta, però, inaspettatamente, il violento demagogo ha involontariamente socchiuso le porte della sua mente facendoci intravvedere, per un attimo, il suo funzionamento. (g.c.)

Faziosità e allusioni

Se il «martire dell'informazione» diventa mago delle allusioni

Una brutta pagina di tv quella consegnataci l'altra sera da Michele Santoro ad «Annozero». Imbarazzante. La sua faziosità è nota, la decisione di rappresentare una sola parte del conflitto che insanguina la Striscia di Gaza va messa in conto, la sua retorica votata a una sempre più spinta demagogia non è condivisa da molti ma fa ormai parte del panorama televisivo italiano; ciò che è inaccettabile sono le parole con cui ha liquidato Lucia Annunziata. Nel momento in cui l'ex presidente della Rai ha deciso di abbandonare la trasmissione, Santoro le si è rivolto così: «Fai la giornalista, non venire qui a criticare come si fa la trasmissione... O cerchi meriti da qualcuno?».

Dire a un altro che dissente per cercare il beneplacito, magari una cambiale a scadenza, di qualcun altro (e chi poi? Israele? Berlusconi? i vertici del Pd? la Trilateral?) è un'insinuazione di basso livello, intollerabile. Ma le allusioni malevole, specie se dette in un momento d'ira, quando saltano i nervi e si perde il controllo di sé, sono spesso rivelatrici di una filosofia di fondo. Speriamo che all'Annunziata, per ritorsione, non venga ora la tentazione di scrivere una biografia professionale di Santoro nelle vesti di «cercatore di meriti».

Parlare in un talk show di guerra è sempre difficile e di fronte a certe immagini che arrivano da Gaza si resta annichiliti. Non l'imparzialità, si chiede, non il senso della misura ma almeno la possibilità di essere minoranza (pensarla in un modo differente). Con Santoro è impossibile, proprio non le sopporta, le minoranze. Potesse le eliminerebbe. In nome della democrazia, sia chiaro. Con il conduttore schierato, con l'inviato Corrado Formigli schieratissimo, con lo spazio eccessivo concesso ai ragazzi della comunità palestinese di Milano, era difficile per Lucia Annunziata, che pure non era avvolta in una bandiera con la stella di David, sostenere il contraddittorio. Se n'è lamentata, ha semplicemente fatto presente che «qui si presentano al 99,9 per cento soltanto le ragioni palestinesi».

Apriti cielo! Santoro l'ha caricata di insulti, l'ha congedata con un odioso «non sprechiamo tempo», se l'è presa persino con Walter Veltroni invitandolo a rendersi utile, ad andare a Gaza e non in Africa. E al Presidente della Camera Gianfranco Fini che ieri ha telefonato a Claudio Petruccioli per denunciare «il livello di decenza» superato in trasmissione, Michele Santoro ha risposto sul suo sito con strafottenza, sotto la rubrica «VAF» (acronimo di Valutazione A Freddo): «In un Paese normale il livello della decenza lo supera un Presidente della Camera che, travalicando i suoi compiti istituzionali, interviene per richiedere una censura nei confronti di un giornalista che sta compiendo il suo dovere di informare l'opinione pubblica».

Censura, naturalmente. Quella del martire dell'informazione è la parte che gli riesce meglio. Nessuno pretende l'equidistanza da Santoro; nessuno si aspetta che, a inizio trasmissione, spieghi che c'è una certa differenza tra chi vuole la cessazione del lancio dei Qassam e chi vuole la cancellazione di Israele; nessuno desidera mettergli la mordacchia del pluralismo, ma deve smetterla di credersi l'unico alfiere della libertà d'espressione e accusare gli altri di essere schiavi sciocchi di qualche potere. Non è la prima volta che il populismo, la faziosità, l'ideologia lo confinano nella disinvoltura intellettuale. Chi è incapace di vincere i suoi mali, non tragga però piacere nell'addossarli ad altri.

Aldo Grasso
17 gennaio 2009

lunedì 12 gennaio 2009

GRASSO E POTERE

GRASSO & POTERE – I DIS-VALORI D’ITALIA SULLA BILANCIA DEL DIETOLOGO SGARBI: PERCHE’ Cristiano Di Pietro continua a ingrassare? – sarà la soluzione ai problemi imparata dal padre: il posto fisso CONTRO LA “MOSCERIA” DEL PAESE?…

Vittorio Sgarbi per "il Giornale"


Avete visto come è grasso Cristiano Di Pietro? In questi giorni si sono viste sue immagini di qualche anno fa: un bel ragazzo magro, anche se robusto, ordinato, schivo. Anche il padre in quelle fotografie di repertorio appare più magro. Dunque, perché sono ingrassati?

Soprattutto nel caso di Cristiano la trasformazione sorprendente. Appare grosso, gonfio, perfino rosso. Perché? Perché mangia. Perché mangia e beve. Eppure l'attività di partito è impegnativa, e anche il rapporto con gli elettori e con i provveditori alle opere pubbliche per tener vive, secondo lezione democristiana, le clientele.

Il padre si è mosso molto, e ha meglio smaltito i grassi; il figlio è rimasto in Molise, dove l'attività di partito richiedeva meno energie, e si è gonfiato, fino ad apparire irriconoscibile. Anzi, forse è un altro. In passato aveva fatto molta attività di partito Enrico Berlinguer, ed era rimasto magrissimo; oggi Fassino non è cresciuto di un chilo. Ha mangiato poco. La storia della famiglia Di Pietro è esemplare per capire cosa è diventata la politica. Per evitare di lavorare ci si mette in una lista di partito, meglio se bloccata.

Si viene eletti, e lo Stato paga. Se la cosa appare scandalosa, visti gli stipendi dei consiglieri regionali e provinciali, per qualunque politico, agli occhi dei cittadini, è difficile trovare una giustificazione morale per chi mette in lista parenti e figli che non avrebbero nessun merito distinto, né alcuna possibilità di essere eletti con le loro forze, per trovar loro un posto sicuro e ben remunerato.
Cristiano Di Pietro magro

Quando poi si vede, o si legge, che la politica di quel parente non serve ai cittadini, ma agli amici, allora si torna al rigore, si annunciano misure di ritrovata moralità. Si fa dimettere il figlio dal partito, dove non guadagnava una lira, e gli si lascia conservare il posto nel consiglio provinciale, dove continua ad essere pagato. Così può ingrassare.

Con questi modelli di moralità da cui è derivata la fine dei partiti il Partito democratico è stato messo sotto schiaffo, ed ogni attività politica si è spenta, così come ogni attività economica, nel terrore che ogni iniziativa possa essere interpretata come favoreggiamento o crimine.

L'Italia dei valori umilia Veltroni, costringendolo a restare appeso al candidato democristiano e poi retino e poi dipietrino Orlando per la presidenza della Vigilanza Rai. Quando viene eletto democraticamente un esponente del Partito democratico, Riccardo Villari, lo si lascia insultare, lo si inviata a dimettersi, lo si espelle.

Sempre per vendicare Di Pietro, che ama Orlando come un figlio (avete notato come è ingrassato Orlando? Per essere in linea con l'Italia dei valori), si adoperano tutte le cariche istituzionali. Anche Berlusconi viene incontro a Veltroni inginocchiato davanti a DiPietro, e poi Fini, e poi Schifani; e adesso il capogruppo Quagliariello medita di far dimettere tutti i membri del Pdl nella commissione di Vigilanza. A questo punto si è ridotta la politica nel disprezzo della democrazia. Poi Di Pietro pone il veto su alcuni candidati del Pd in Abruzzo.

D'altra parte non sono suoi figli: perché dovrebbe sostenerli? E in particolare sbarra la strada al più apprezzato e votato di tutti: il sindaco D'Alfonso. Per dargli ragione gli amici
Magistrati gliel'hanno arrestato per il reato di volo aereo. Ma per quale ragione Veltroni doveva fidarsi di più dei candidati di Di Pietro che dei propri compagni di partito? Perché D'Alfonso è stato mollato e poi abbandonato? E perché prima di lui è stato trattato come un delinquente e abbandonato Del Turco? Mollati anche Margiotta, deputato lucano, Cioni, vicesindaco di Firenze, Lusetti, eterno delfino di una causa perduta.

Per non parlare di Bassolino, di Gambale e di innumerevoli altri, tutti improvvisamente criminali. Un'intera classe politica indegna e inadeguata, senza orgoglio, senza fiducia in se stessa. Eppure che i magistrati non siano infallibili, anche al di là delle vicende politiche, basterebbe a dimostrarlo la vicenda dell'assassino assolto in Cassazione e, subito dopo, reo confesso.

E perché dovrebbero aver ragione per D'Alfonso che, terrorizzato, ritira le dimissioni e si mette in malattia facendo l'unico vero reato: un certificato medico certamente falso che stabilisce a priori che per sei mesi il sindaco non potrà guarire. Chiederò che venga processato per questo, dal momento che per la stessa ragione io sono stato condannato, pur essendo in aspettativa senza stipendio. Un vecchio fascista mi denunciò perché non credeva ai certificati medici. Come credere all'improvvisa malattia di D'Alfonso? Forse è motivata da una prostrazione psicologica?

O da una crisi mistica dal momento che D'Alfonso è l'unico sindaco che si è ritirato in convento (vero è che anche la Moratti ha applicato la «clausura» a Milano: ma è un altro discorso). Insomma, tutti soffrono, e solo i Di Pietro ingrassano. Veltroni ha distrutto l'alleanza dell'Ulivo inventando un partito liofilizzato e soffrendo, come ha osservato D'Alema, il populismo di maggioranza di Berlusconi e il populismo di minoranza di Di Pietro: ma mentre il primo è l'antagonista, l'altro dovrebbe essere l'amico.

Che lo ha spento, sgonfiato, e perfino dimagrito. Intanto Cristiano Di Pietro continua a ingrassare e indica la soluzione ai problemi imparata dal padre: il posto fisso. Si può così ben condividere l'analisi spietata di Marcello Veneziani: «Un Paese moscio e melanconico, che ha perso la prospettiva del futuro e della comunità, non fa più sogni pubblici e civili, politici figuriamoci... Non ha più stimoli economici, morali e artistici. Sembra abitato solo da finti invalidi e marocchini».

E continua: «Un Paese in ritirata... Apatia rispetto all'avvenire, creatività scarsa e spirito d'avventura zero... E penso cosa sarebbe senza la guida di un incrollabile energetico come Berlusconi. E mi spaventa guardare intorno e immaginare la scena senza di lui; i suoi possibili eredi, da ogni parte, rispecchiano la mosceria del Paese». Di Pietro ha trovato la soluzione: il suo erede, il figlio, non è moscio. È pingue. Mangia e non fa nulla di utile. Il padre grida contro i corrotti. E lo Stato paga. Veltroni guarda, e non si fida neppure di se stesso. Oh! Romeo, Romeo!

martedì 6 gennaio 2009

ODIO E PREGHIERA

IL VATICANO CONTRO I MUSULMANI INGINOCCHIATI IN PIAZZA DUOMO VERSO LA MECCA - “NON È UNA PREGHIERA E BASTA. È UNA SFIDA AL SISTEMA DEMOCRATICO E CULTURALE” - SINISTRA ZITTA DAVANTI AGLI STRISCIONI CON STELLA DI DAVID E LA SVASTICA NAZISTA


Gian Guido Vecchi per il Corriere della Sera

«Guardi, a me la preghiera di per sé non disturba, si figuri. Se un musulmano venisse a San Pietro a pregare che dovrei dire? La gente che prega fa sempre bene. Però...». Il cardinale Renato Martino, presidente del pontificio Consiglio della giustizia e della pace e del Consiglio per i migranti, si concede una pausa.

È in quel «però» che c'è tutto il disagio della Chiesa per le immagini dei musulmani in preghiera in piazza del Duomo, a Milano, o davanti a San Petronio a Bologna, il tutto dopo le manifestazioni antiisraeliane e antisemite con striscioni che equiparavano la Stella di David alla svastica nazista.
Antonio Sciortino

In Vaticano non si desidera certo inasprire i toni, i tempi sono già abbastanza difficili. Però...«Ciò che mi ha infastidito e turbato sono proprio quelle bandiere di Israele bruciate, quei cartelli, la preghiera dopo una simile manifestazione di odio», riflette il cardinale. Ecco il punto: «L'essenziale è lo spirito con cui si prega. E la preghiera esclude l'odio».

Parole significative, dette da un cardinale che all'inizio dell'anno, in un'intervista all'Osservatore Romano, osservava tra l'altro che «nella Striscia di Gaza da decenni la dignità dell'uomo viene calpestata; l'odio e il fondamentalismo omicida trovano alimento».

A Bologna è stata durissima la reazione del vescovo Ernesto Vecchi, vicario generale della diocesi: «Non è una preghiera e basta. È una sfida, più che alla basilica al nostro sistema democratico e culturale - ha detto al Resto del Carlino -. Abbiamo avuto la conferma che c'è un progetto pilotato da lontano. Cosa prevede? L'islamizzazione dell'Europa. Se ne accorse il cardinal Oddi, tra i primi. E aveva buone fonti».

Ma l'atteggiamento più diffuso segue piuttosto lo spirito di monsignor Luigi Manganini, arciprete del Duomo di Milano, che ha evitato polemiche osservando tuttavia come ci sia stata «quantomeno una mancanza di sensibilità» negli islamici in preghiera davanti alla cattedrale, «da cristiano non avrei mai partecipato ad una manifestazione che si concludesse con una preghiera di fronte a una moschea».

Lo dice anche Giovanni Maria Vian, direttore dell'Osservatore Romano: «Condivido le preoccupazioni dell'arciprete del Duomo. Bisogna stare molto attenti a non piegare le religioni ad un uso violento e a respingere strumentalizzazioni di ogni tipo». Il quotidiano della Santa Sede ha dato notizia dei fatti di Milano in una cronaca precisa e senza commenti.

Calma. «La guerra e l'odio non risolvono i problemi», apre a tutta pagina il quotidiano della Santa Sede con le parole del Papa all'Angelus. «La situazione è tragica. Come disse Pio XII alla vigilia della Seconda guerra mondiale: "Nulla è perduto con la pace. Tutto può esserlo con la guerra"», riflette ancora Vian. E in questo le religioni possono avere un ruolo importante.
Angelo Bagnasco

«Bisogna stare attenti, fare appello alle parti più ragionevoli per evitare ogni deriva violenta. Benedetto XVI lo ha ripetuto fin dall'inizio del suo pontificato: come quando a Colonia, nel 2005, si rivolse ai rappresentanti musulmani invitando a contrastare insieme "ogni forma di intolleranza" e "ad opporci a ogni manifestazione di violenza"».

Certo che la preghiera musulmana in piazza Duomo mette a disagio anche don Antonio Sciortino, direttore di Famiglia Cristiana: «La preghiera per invocare Dio e la pace in quella terra martoriata è sempre positiva. Ma l'importante è l'intenzione. Perché quei gesti di frange estremiste, i roghi e i simboli nazisti associati a Israele, non hanno nulla a che fare con la preghiera. Gli imam lo tengano presente: scegliere di riunirsi in un luogo così plateale legittima il sospetto di strumentalizzazione».

Così anche alla Cei si misurano le parole, nel commento affidato a Don Gino Battaglia, direttore dell'ufficio per l'ecumenismo e il dialogo interreligioso. «La preghiera è cercare Dio: è sempre metter nelle sue mani le nostre attese, speranze, o desideri. Ovvero espressione di gratitudine e di lode. Ha dunque una sua logica che non può mai essere contro qualcuno, a meno di non tradire la sua stessa essenza».
Giuseppe Betori

Mentre il cardinale Angelo Bagnasco, presidente dei vescovi italiani, da Genova liquida così le polemiche sul presepe con la moschea: «È stata una polemica inutile, della quale non c'era proprio bisogno. Vuota e priva di senso». Certo c'è un brutto clima. Ad Empoli un presepe è stato fatto esplodere con una bomba carta, non si sa da chi.

E l'arcivescovo di Firenze Giuseppe Betori non l'ha mandata a dire: «Non possiamo non vedere la connessione tra questo gesto criminale e un contesto di aggressione ideologica alla fede e ai suoi segni pubblici».



[06-01-2009]

domenica 28 dicembre 2008

IL BLUFF ALLEVI: PUNTO PER PUNTO, UTO UGHI DEMOLISCE LA BOLLA DI SAPONE "CLASSICA"

"Il successo di Allevi? Mi offende"
Uto Ughi


dal Corriere Online
SANDRO CAPPELLETTO
Che spettacolo desolante! Vedere le massime autorità dello Stato osannare questo modestissimo musicista. Il più ridicolo era l’onorevole Fini, mancava poco si buttasse in ginocchio davanti al divo». Uto Ughi non ha troppo apprezzato il concerto natalizio promosso dal Senato della Repubblica che ha avuto come protagonista il pianista Giovanni Allevi. Il nostro violinista lo ha ascoltato - «fino alla fine, incredulo» - dalla sua casa di Busto Arsizio e ne è rimasto «offeso come musicista. Pianista? Ma lui si crede anche compositore, filosofo, poeta, scrittore. La cosa che più mi dà fastidio è l’investimento mediatico che è stato fatto su un interprete mai originale e privo del tutto di umiltà. Il suo successo è il termometro perfetto della situazione del Nostro Paese: prevalgono sempre le apparenze».

Che cosa più la infastidisce di Allevi: la sua musica, le sue parole? «Le composizioni sono musicalmente risibili e questa modestia di risultati viene accompagnata da dichiarazioni che esaltano la presunta originalità dell’interprete. Se cita dei grandi pianisti del passato, lo fa per rimarcare che a differenza di loro lui è "anche" un compositore. Così offende le interpretazioni davvero grandi: lui è un nano in confronto a Horowitz, a Rubinstein. Ma anche rispetto a Modugno e a Mina. Questo deve essere chiaro».

Come definire la sua musica? «Un collage furbescamente messo insieme. Nulla di nuovo. Il suo successo è una conseguenza del trionfo del relativismo: la scienza del nulla, come ha scritto Claudio Magris. Ma non bisogna stancarsi di ricordare che Beethoven non è Zucchero e Zucchero non è Beethoven. Ma Zucchero ha una personalità molto più riconoscibile di quella di Allevi».

C’è più dolore che rabbia nelle sue parole.
«Mi fa molto male questo inquinamento della verità e del gusto. Trovo colpevole che le istituzioni dello Stato avvalorino un simile equivoco. Evidentemente i consulenti musicali del Senato della Repubblica sono persone di poco spessore. Tutto torna: è anche la modestia artistica e culturale di chi dirige alcuni dei nostri teatri d’opera, delle nostre associazioni musicali e di spettacolo a consentire lo spaventoso taglio alla cultura contenuto negli ultimi provvedimenti del governo. Interlocutori deboli rendono possibile ogni scempio, hanno armi spuntate per fronteggiarlo».

Che opinione ha di Allevi come esecutore? «In altri tempi non sarebbe stato ammesso al Conservatorio».

Lui si ritiene un erede e un profondo innovatore della tradizione classica. «Non ha alcun grado di parentela con la musica che chiamiamo classica, né con la vecchia né con la nuova. Questo è un equivoco intollerabile. E perfino nel suo campo, ci sono pianisti, cantanti, strumentisti, compositori assai più rilevanti di lui».

Però è un fenomeno mediatico e commerciale assai rilevante.
«Si tratta di un’esaltazione collettiva e parossistica dietro alla quale agisce evidentemente un forte investimento di marketing. Mi sorprende che giornali autorevoli gli concedano spazio, spesso in modo acritico. Anche Andrea Bocelli ha un grande successo, ma non è mai presuntuoso quando parla di sé. Da musicista, conosce i propri limiti».

Allevi è giovane. Non vuole offrirgli qualche consiglio? «Rifletta tre volte prima di parlare. Sia umile e prudente. Ma forse non è neppure il vero responsabile di quello che dice».

C’è un aspetto quasi messianico in alcune sue affermazioni, in questa autoinvestitura riguardo al proprio ruolo per il futuro della musica. «Lui si ritiene un profeta della nuova musica, parla come davvero lo fosse. Nuova? Ma per piacere!».

Ma come interpretare questo suo oscuro annuncio: «La mia musica avrà sulla musica classica lo stesso impatto che l'Islam sta avendo sulla civiltà occidentale?» «Evidentemente pensa che vinceranno Allevi e l’Islam. Vi prego, nessuno beva queste sciocchezze».

provare per credere: consultate la voce "biografia" del sito di Allevi: un esercizio di autoesaltazione impressionante (g.c.)


http://www.giovanniallevi.it/sito/biografia.html

martedì 23 dicembre 2008

IL SOLITO DOPPIOPESISMO DI SINISTRA

La maledizione doppiopesista

di Pierluigi Battista

La maledizione del doppiopesismo, ancora una volta. Quella malattia politica e culturale che spezza ogni unità di giudizio, fomenta l'indignazione a corrente alternata, alimenta il pregiudizio che tra di «noi» si possa regalare per grazia ricevuta un trattamento più indulgente e autogratificante di quello abitualmente riservato all'avversario. È questa sindrome del doppio standard che si manifesta ancora una volta nelle parole di Renato Soru, una delle figure più innovative, moderne e post-ideologiche della famiglia democratica. Parole da cui si evince che anche il conflitto di interessi è sottoposto alla logica del doppio standard: intollerabile se ne sono responsabili gli altri; una trascurabile inezia se ad esserne prigioniero è uno dei «nostri».

Soru si è dimesso da governatore della Sardegna. Ieri ha sciolto la riserva e ha deciso di ricandidarsi per le prossime elezioni regionali sarde confermando che un apposito blind trust rimedierà al conflitto di interessi espressamente indicato da una legge regionale della Sardegna come motivo di incompatibilità tra la proprietà di un'azienda e la carica di presidente della Regione. Ma è qui che nascono i problemi. Perché la sinistra ha da sempre fieramente indicato nel conflitto d'interessi dell'avversario Silvio Berlusconi la più colossale anomalia del sistema italiano, bollando come una risibile panacea la legge che sul tema è stata emanata nella precedente legislatura del centrodestra e considerando anche il blind trust come una misura largamente insufficiente, monca, facilmente aggirabile. E invece, quando Alberto Statera su Repubblica ha chiesto di rispondere a chi «ironizza dicendo che Racugno a Tiscali è come "Fedelu Confalonieri" a Mediaset e suo fratello all'Unità è come "Paolu Berlusconi" al Giornale », Soru ha liquidato sprezzantemente come «sciocchezze» quelle domande sacrosante eppure trattate come spregevoli insinuazioni.

Non sono «sciocchezze », sono il normale sospetto cresciuto nell'atmosfera del conflitto di interessi. Se poi si risponde come Soru, e cioè rivendicando al professor Racugno (intervistato oggi da Alberto Pinna per il Corriere) una «specchiata onestà e moralità», è fatale che si commettano insieme almeno due deprecabili errori. Con il primo si getta gratuitamente un'ombra sulla «specchiata moralità» degli avversari, che invece possono vantare titoli di «moralità» non inferiori a quelli giustamente attribuiti a Racugno. Con il secondo si persevera nella pretesa di una pregiudiziale «superiorità morale» di cui ci si sente investiti come per un diritto acquisito. Ma questo secondo errore continua ad essere una fonte di guai da cui il mondo del Partito democratico farà bene a liberarsi al più presto. È la malattia doppiopesista che oramai viene accolta con sempre maggiore freddezza e incredulità dall'opinione pubblica italiana. È la stessa malattia che traspare dall'insofferenza con cui, dentro e attorno al Partito democratico, ci si lamenta in questi giorni per il legittimo interesse con cui vengono seguite le inchieste che stanno minando numerose giunte di centrosinistra. È la malattia che scambia per «sciocchezze » tutte le domande sulla coerenza di chi si sente per principio sottratto all’esame spietato dell'opinione pubblica. Domande che esigono una risposta, prima che sia troppo tardi.

23 dicembre 2008

giovedì 18 dicembre 2008

New York: iPod Tax


Negli Usa arriva l'iPod tax
stangata sulla musica digitale
Lo stato di New York vuole il 4% su ogni brano scaricato. Le major del disco insorgono: "Una decisione che ci spingerà nel baratro" di ERNESTO ASSANTE


Negli Usa arriva l'iPod tax stangata sulla musica digitale
SONO anni che le grandi case discografiche multinazionali combattono con la Apple per aumentare il prezzo dei download su iTunes, rompendo quello che fino ad oggi sembrava un muro invalicabile, quello dei 99 centesimi a canzone. E invece a far salire i prezzi delle canzoni scaricate ci riuscirà il governatore dello stato di New York, David Paterson, che ha deciso di introdurre una tassa del 4 per cento su ogni canzone scaricata. E anche su ogni altro contenuto d'intrattenimento distribuito digitalmente.

"È una mazzata su un mercato che sta cercando di risollevarsi dalla crisi". Lo dicono i responsabili della Riia, l'associazione dei discografici americani. "È una tassa del tutto immotivata che rallenterà la crescita e spingerà ancora più verso il baratro l'industria della musica", gli ha fatto eco uno dei responsabili dell'Ifpi, l'associazione internazionale della discografia.

Ma le proteste dei discografici non dovrebbero fermare il governatore, che ha un problema molto grande da affrontare, quello del calo delle entrate fiscali dovuto alla crisi di Wall Street. "Il punto in cui siamo è questo - ha detto Paterson ai giornalisti - forse ci avremmo dovuto pensare quando pensavamo che le tasse che incassavamo da Wall Street fossero inesauribili. Ora quelle tasse sono scivolate via. E bisogna fare qualcosa".

Per provare a "chiudere" un buco di circa 15 milioni di dollari nel budget Paterson ha proposto l'introduzione di ben 88 nuove tasse e balzelli, non solo quella sui download, prontamente battezzata "iPod Tax". Il governatore vuole infatti tassare anche i biglietti del cinema, le corse in taxi, le bottiglie di soda, di birra e di vino, i sigari, le palestre e i massaggi, i vestiti sotto i 100 euro, le tv via cavo e satellite. Puntare sul download ha una motivazione indubbia: il mercato della musica digitale, al contrario di quello dei cd, è in continua crescita da molti anni. In alcuni paesi del mondo, come la Corea ad esempio, rappresenta già oggi il 50% del mercato, ma in altri, come gli Stati Uniti, seppure le vendite crescano in maniera esponenziale, il guadagno digitale non è riuscito a compensare le perdite causate dal drastico calo di vendite dei cd, portando ad un serio ridimensionamento dell'industria discografica.

La leva del prezzo basso del download, 99 centesimi per canzoni, 9 dollari e 99 per un album intero, è stata la principale usata da Steve Jobs e dalla Apple per imporre non solo l'iPod ma soprattutto iTunes, il negozio di download digitale della sua azienda, che attualmente rappresenta più del settanta per cento dell'intero mercato digitale mondiale. Pian piano iTunes ha iniziato a rendere scaricabili anche programmi televisivi, libri, film, diventando il centro del nuovo mercato elettronico dell'intrattenimento.

Lo stato di New York non sarebbe comunque il primo a introdurre questa tassa, altri diciassette stati americani l'hanno già attivata da alcuni anni, Nebraska, Tennessee, il District of Columbia, Alabama, Louisiana, Maine, New Jersey, New Mexico, South Dakota, Arizona, Colorado, Hawaii, Idaho, Indiana, Kentucky, Texas, Utah. La tassa, in realtà, non ha mai colpito i grandi retailers come iTunes, che ha sede in California, dove i download non vengono colpiti. La legge americana non consente di tassare il download nel luogo da cui viene richiesto, ma nel luogo da cui viene messo a disposizione degli utenti, il che fino ad oggi ha reso iTunes, operativo dalla California, immune da aumenti.

mercoledì 10 dicembre 2008

OBAMA E "CROOK COUNTRY"


NELLA "CONTEA DEI LADRI" CORROMPERE È LA REGOLA...
da "La Stampa"

Possiamo escludere che Obama sia stato al corrente di quanto faceva il governatore Rod Blagojevich?». L'insidiosa domanda del reporter del «Chicago Tribune» al procuratore Patrick Fitzgerald è una finestra sul mondo della politica di Chicago, denominato «Crook County» ovvero la contea dei ladri, dove a regnare è il sospetto. Il vero nome della contea che ospita Chicago è Cook ma il gioco di parole cela il cinismo con cui gli abitanti e l'America intera danno per assodato l'intreccio fra politica, crimine e malaffare nella città in cui spadroneggiava Al Capone, trovò la morte l'imprendibile rapinatore Bill Dillinger e governa il medesimo partito - i democratici - dal 1931, quando William Hale Thompson lasciò il posto a Anton Cermark, assassinato due anni dopo.

martedì 9 dicembre 2008

PREZZI IN VOLO

Aeroporti italiani, i parcheggi
sono più cari dei voli
Lo scrittore Marcello Fois: ho preso troppe batoste a Bologna e Olbia, ora uso solo taxi prima del decollo

MILANO — Un clic, e via con la prima prova online. Volo Bologna-Francoforte: 25,18 euro. Parcheggio auto nell'aeroporto di partenza, per una settimana: da 74,2 euro (quando va bene) a 89,6 (quando si finisce nel posteggio più caro). Un altro clic, e via con la seconda prova. Volo Palermo- Roma: da 31,98 euro. Parcheggio auto: 84 euro. Quando il parcheggio costa come o più del volo. Perché il biglietto aereo diventa low cost ma il tagliando del posteggio si trasforma in business. La prova del nove è stata effettuata sull'ultima indagine firmata da Altroconsumo. L'associazione dei consumatori mette in guardia: «Attenzione al mezzo che avete scelto per andare in aeroporto. Se avete pensato di tirar fuori dal garage l'auto, per comodità, velocità e libertà di orari (aggiungiamo noi: perché obbligati, per tanti è l'unico modo), sappiate che il parcheggio potrebbe risolversi in un salasso. Arriva a costare quasi come un altro biglietto aereo ». I più cari nella classifica di Altroconsumo i milanesi: «Si spendono da 3,6 a 10 euro all'ora a Malpensa, da 89 a 189 euro la settimana a Linate ». Poi quelli romani: «24 euro la tariffa giornaliera a Fiumicino ». L'aeroporto di Bologna: «Fino a 89,6 euro la settimana ». In alcuni casi il salasso è obbligato, in altri molto dipende da quanto si è bravi a scegliere il parcheggio giusto. Posti coperti e scoperti, dentro e fuori lo scalo, a sosta breve e a sosta lunga. Altroconsumo ha preso in esame tutti quelli presenti nei 12 aeroporti più trafficati d'Italia. Sia chiaro: «Il parcheggio è diventato un business per tutte le società di gestione aeroportuale del mondo — spiega Michele Cavuoti, responsabile indagini di mercato di Altroconsumo —. I grandi italiani, quanto a tariffe minime, sono in linea con gli altri europei. Anzi.

Ma quanto a tariffe massime sono tra i più cari. E finire nei posti più costosi non è poi così difficile». Già. «L'offerta è tanta, la fretta pure, le informazioni non sono immediate». E così, nella giungla delle tariffe e delle strisce blu («a Malpensa i posti auto sono 10.000»), il rischio di pagare di più è fortissimo. Come difendersi allora? Primo: «Mai avventurarsi nel primo parcheggio che capita », dicono da Altroconsumo. «Chi sbaglia parcheggio a Napoli Capodichino arriva a sborsare fino a 196 euro per una settimana: la cifra più alta dopo Londra». E ancora: «A Bergamo Orio la sosta di un giorno può essere più cara anche del 275%». L'altra regola è rispettare l'equazione più vicino- più caro. Con qualche eccezione: «A Torino il P9, raggiungibile a piedi è meno costoso dei remoti». Ecco così che dopo la caccia online al volo e all'hotel più economico, s'impone anche quella del parcheggio. Il modo più semplice è andare sui siti degli aeroporti. In alcuni siti inglesi e Usa basta inserire i propri dati per ottenere la soluzione più conveniente. Tirano le somme da Altroconsumo: «La verità è che non esiste vera concorrenza tra i parcheggi perché appartengono tutti all'aeroporto». Del resto «costituiscono una voce di bilancio importante, compensa settori in perdita». Un esempio: «Nel bilancio 2007 della Sea (che gestisce Linate e Malpensa) i parcheggi rappresentano il 20,7% delle attività non aeronautiche». E non sempre le offerte sono tagliate sulle diverse esigenze dei passeggeri. Prendiamo le tariffe giornaliere: «Sono quelle più indecorose, per un motivo molto semplice: tanto sono le ditte a pagare. E guarda caso gli aeroporti più cari sono quelli ad alta concentrazione business». Un punto cruciale per Marcello Fois, scrittore che «pendola» tra Bologna e Olbia e viaggia in mezzo mondo. «Le tariffe vanno tarate sui viaggiatori normali». E da viaggiatore normale, appena atterrato a Città del Messico, racconta la sua esperienza: «Più di una volta mi sono trovato a dover pagare il parcheggio più del volo, persino il doppio». Ma adesso basta: «Uso solo il taxi, alla fine è più economico».

Alessandra Mangiarotti
09 dicembre 2008

IL DIVAN POETA...

da DAGOSPIA, er mejo sito che ci sia


FRA LE BRACCIA DI SANDRO BONDI
Gianni Mura per La Repubblica

‘Il Giornale' di ieri (sabato, ndr) dedica ampio spazio (e fa bene) alle poesie di Sandro Bondi. Titolo del libro: "Fra le tue braccia", editore Aliberti. Accattivante l´attacco del pezzo: "Ma chi l´ha detto che la poesia è morta? Provate a dirlo al ministro della Cultura Sandro Bondi, che di questa meravigliosa arte sembra essere, se non l´ultimo cantore, certamente uno dei più fecondi".

Ho pensato che il nostro lettore non potesse essere tenuto all´oscuro. Ecco quindi "A Massimo Cacciari": "Malinconica ironia/Beffarda timidezza/Recondito pensiero/ Sguardo sorridente". Segue "A Marcello Dell´Utri": "Velata verità/ Segreto stupore/Sguardo leggero/Insondabili orizzonti".

Una forma stilistica, dicono, molto simile agli haiku giapponesi, che a me pare incernierata su una rigorosa par condicio tra aggettivi e sostantivi, come traspare dalla più lunga "Ad Anna Finocchiaro": "Nero sublime/Lento abbandono/Violento rosso/Fugace ironia/Bianco madreperla/Intrepido mistero".

Leggo sul Giornale: "Solo l´insistenza della casa editrice ha convinto un riottoso Bondi a pubblicare tutta la sua produzione poetica, che il ministro ha dedicato ad Alda Merini". Voto alla riottosità di Bondi 6,5 (perché non ha retto), voto all´insistenza della casa editrice 4. Il voto alle poesie di Bondi lo dia semmai la Merini, che è del ramo.

2 - REPORT BY DAGO
Ben detto Mura, solo che il poeta semisvenuto Don-Bondi ha rischiato davvero il coccolone per il suo libretto di poesiucole da bardo di provincia. Il secondo libro da ridere del ministro della Cultura ha infatti - sotto sotto - una bizzarra storia che merita tutta di essere raccontata oggi, giorno dell'Immacolata Vergine.

Quando la casa editrice democratica Aliberti (davvero democratica: pubblica Bondi...), spedisce al Pallore Gonfiato di Berlusconi le bozze del libro - ultimo atto prima di licenziarlo alle tipografie - succede il quarantotto. Il pio Bondi chiama la redazione della casa editrice e spara un piagnisteo da prefica: "Se esce così sono rovinato!". E giù lacrimoni e inginocchiamenti: "No! Non pubblicatelo!", si dispera come un vitello che sta per essere portato al mattatoio.

Cosa era successo? Il solito copione che motteggia: il diavolo fa le pentole ma non i coperchi. E così tra le pagine del libro erano finite anche alcune lettere in versi dedicate a una signora molto cara a Sandrone (che è ben coniugato). Una volta epurate le letterine, via alla pubblicazione. Ora sorge spontanea la domandina: chi è la bella musa del mistero? Ah, saperlo...

lunedì 8 dicembre 2008

giornalismo


‘TESORETTO QUERCIA’ IN BRASILE - GIRA IL VENTO: IL TRIBUNALE DI TORINO HA RESPINTO LA RICHIESTA DI DANNI (MEZZO MILIONE DI EURO) AVANZATA DAI DS E D’ALEMA NEI CONFRONTI DEL GIORNALISTA DELLA ‘STAMPA’ PAOLO COLONNELLO E DEL SUO DIRETTORE GIULIO ANSELMI…

Michele Brambilla per Il Giornale

Siccome si dice sempre che i giornalisti danno notizia delle indagini sui politici ma tacciono poi sulle assoluzioni, ecco una storiella al contrario che forse riequilibra un po’ torti e ragioni. Il tribunale di Torino ha respinto la richiesta di danni (mezzo milione di euro) avanzata dai Ds e da Massimo D’Alema nei confronti del giornalista della Stampa Paolo Colonnello e del suo direttore Giulio Anselmi.

A far infuriare D’Alema era stato un articolo del 6 giugno 2007, in cui Colonnello dava notizia di un dossier della Kroll, un’agenzia di investigazioni americana fra le più importanti al mondo. In quel dossier, chiamato «Project Tokio», si diceva che secondo «fonti d’intelligence in Italia» c’erano, in Brasile, conti segreti di alcuni esponenti dell’allora maggioranza di governo, «in particolare del ministro degli Esteri Massimo D’Alema».

La notizia era stata intercettata dagli uomini della Security Telecom di GiulianoTavaroli, e finita quindi all’attenzione della magistratura milanese. Il giorno dopo, l’intero mondo politico (maggioranza e opposizione, va detto) s’era schierato contro «l’ennesimo caso di malcostume giornalistico». Al Tg1 D’Alema aveva detto: «Quello che colpisce è che un giornale serio come La Stampa, che ha quella proprietà, utilizzi questa spazzatura, la faccia diventare notizia e la getti nella vita politica italiana. Questo colpisce, ferisce e preoccupa».

Quindi aveva beffardamente annunciato la causa civile per danni e il sicuro incasso: «Il conto “Quercia” adesso diventerà il conto “Ulivo” con il Partito democratico... ». Invece, il giudice Maria Francesca Christillin ha ora rigettato il ricorso di Ds e D’Alema condannandoli a pagare 5.500 euro di spese processuali. Questo non vuol dire che D’Alema avesse un conto (che non ha mai avuto) in Brasile. Vuol dire che, come ha scritto il giudice, Colonnello ha semplicemente riportato la notizia di un’indagine in corso, oltretutto contestualizzandola tra i «veleni» sparsi in quel momento sulla politica.

Colonnello e La Stampa avevano quindi fatto, e bene, il loro dovere. Ma è questo che a volte non si tollera. Per mesi si parlò di «fango», l’Unità diede lezioni di giornalismo a Colonnello e ci furono inviati della Stampa che, a differenza dei colleghi degli altri giornali, non poterono seguire le missioni del ministro degli Esteri sugli aerei di Stato. Così, tanto per far capire quale, tra le due«caste», abbia poi maggiori poteri di pressione.

giovedì 4 dicembre 2008

luca "napoletone" luciani in Brasile?

(...) avrete letto le assicurazioni di Bernabè sul consolidamento sempre maggiore di Tim Brasile. Infatti, bebè è così preso dalla società che balla la samba che ha deciso di spedirci come responsabile uno che non ci voleva per niente andare, alias il fatidico Luca Luciani, quello di Napoleone vittorioso a Waterloo. Il mitologico gaffeur sarebbe stato sbattuto al muro da Bernabè:
o vai in Brasile o vai a casa...


mercoledì 3 dicembre 2008

CLEMENTINA FORLEO: INTERVISTA A "LIBERO"

CLEMENTINA PRENDE IL FUCILE - LIBRO-INTERVISTA DELLA FORLEO: GLI ABUSI CARCERARI DI MANI PULITE, LA MASSO-MAFIA, DALEMA – “LE PAROLE DI NAPOLITANO MI HANNO FERITO” – “QUEI PRANZI CON GLI EX COLLEGHI D’AMBROSIO NON LI DOVEVA FARE”…

Da "Libero"
Clementina Forleo

"Clementina Forleo. Un giudice contro", edita Aliberti e scrive Antonio Massari. Pubblichiamo stralci del libro dedicato a Clementina Forleo, il gip più famoso d'Italia. Si è occupata, fra le altre, dell'inchiesta Antonveneta-Bnl e quindi di D'Alema, Fassino, Latorre. In una lunga intervista la Forleo affronta punti cruciali: il conflitto tra esecutivo e magistratura; il caso del pm Luigi de Magistris che lei ha difeso; ma soprattutto il nodo dei rapporti fra politica e magistratura


Dottoressa, lei diventa giudice nel 1994. Un anno importante per la sua storia personale... Che ricorda, di quei mesi?
«In quel momento l'"avversario" era il potere politico. Ed è altrettanto vero che i magistrati erano uniti. Mettiamola così: era una sorta di battaglia. Una battaglia - a mio avviso fisiologica - che vedeva contrapposto il potere giudiziario al potere politico. Quel potere politico, però, aveva un colore ben definito: c'era un nemico».

Il nemico era Berlusconi?
«Il pool di Mani Pulite si ribellò a un decreto del Governo Berlusconi, fu allora che convocò la famosa conferenza stampa».

Al Governo c'è ancora Berlusconi. Chi l'ha vinta quella fisiologica battaglia?
«Non credo che siano questi i termini giusti per affrontare la questione. Lasciamo perdere, almeno per un attimo, la presenza di Berlusconi. Ragioniamo in termini più astratti».
Massimo D'Alema

In termini più astratti chi l'ha vinta questa battaglia?
«La battaglia è sempre in corso. Altrimenti non sarebbe fisiologica. A mio avviso, però, s'è accresciuta la forza del potere politico e s'è indebolita l'immagine della magistratura. E le radici di questo mutamento risiedono anche in taluni innegabili eccessi che furono compiuti in quegli anni. Mi riferisco al 1994, al contesto storico di Mani Pulite, che non va sottovalutato per analizzare anche l'attuale rapporto tra politica e magistratura».

Ci dica.
«Alcuni eccessi hanno rafforzato il consenso popolare verso certa politica. E hanno minato già da allora la fiducia popolare nella magistratura».

Quali eccessi?
«Non dimentichiamo: qualcuno s'è suicidato in carcere. Non voglio dire che il carcere fosse immeritato, intendiamoci, perché in carcere non devono finirci solo i ladruncoli. Però...».

Però?
«Però ci fu un abuso dello strumento carcerario. Ripeto: non lo dico perché vennero coinvolti personaggi eccellenti. Condanno l'abuso, sia quando investe i colletti bianchi, sia quando investe i più deboli, magari l'immigrato che spintona il commesso dell'ipermercato che l'ha appena sorpreso a rubare. L'abuso è abuso. Punto».

Poi s'è messa a difendere Luigi de Magistris.
«È stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso e di cui però non mi pento. Avevo seguito la vicenda di de Magistris attraverso i giornali e mi aveva incuriosito l'immagine di questo giudice coraggioso, che nel Sud lotta da solo. Io sono nel Sud, amo la mia terra, e una volta sono stata invitata a scrivere una frase in calce a un calendario paesaggistico.
Giorgio Napolitano

Le dico questo perché le stesse frasi le ho riportate ad Annozero, nella prima delle due trasmissioni "incriminate": scrissi che quella è la mia terra, dove sempre vivrò attratta da un indescrivibile desiderio, ovvero: spero che nel frattempo, il buio che la offusca sia stato debellato, e con esso la rassegnazione della sua gente. E' questo il sentimento che nutro verso il mio Sud. In de Magistris ho visto una persona che, in quest'ottica, per la vicenda che stava affrontando, era "liberatorio" nei confronti del Sud. Liberatorio rispetto ai tanti don Rodrigo che sopravvivono del nostro Sud. Ma c'era qualcosa in più, che avevo capito, seguendo le sue vicende».

Cosa?
«Avevo capito che il nervo scoperto non erano tanto le inchieste Why Not e Poseidone, quanto quella sulle Toghe Lucane, che apriva uno squarcio sui malanni del terzo potere dello Stato, il potere giudiziario. de Magistris, a mio avviso, a prescindere dai singoli indagati in Toghe Lucane, stava affondando le mani in un contesto ben preciso: le infiltrazioni nella masso-mafia meridionale, ed era incappato in magistrati che rivestivano ruoli direttivi (...).

Nella sua vicenda, a un certo punto, irrompe anche il presidente della Repubblica...
«Sì, ho vissuto questo come una pressione, perché si trattava del capo dello Stato, e un capo dello Stato non era mai intervenuto per dire quello che un giudice deve scrivere, o non scrivere, in suo provvedimento. Ciampi o Pertini sicuramente non avrebbero detto quelle cose. Quelle parole mi hanno fatto male: le ho ritenute un'offesa al Paese. Quando qualcuno ha scritto cose più pesanti, in altre ordinanze, e in Italia ce ne sono state, Napolitano ha taciuto».
Gerardo D'Ambrosio

Tra le icone della magistratura c'è anche Gerardo D'Ambrosio: ha nutrito dubbi pure sul suo comportamento.
«Gerardo D'Ambrosio è stato ai vertici della Procura fino a poco tempo fa. Poi diventa senatore DS e si schiera pubblicamente contro la mia iniziativa di trascrivere le telefonate di D'Alema e gli altri parlamentari. Ma questo non mi riguarda. Il punto è un altro: lo vedo, per caso, mentre va a pranzo con alcuni pm che s'occupavano delle scalate. E questo m'indigna. Perché ritengo che, se qualcuno lascia la toga per diventare un politico, poi dovrebbe avere il buon gusto di non creare confusione di ruoli (...). Aveva stigmatizzato l'idea di trascrivere le telefonate di D'Alema, Fassino e Latorre, che in quel momento erano i vertici del suo partito. Per questo, quel pranzo tra D'Ambrosio e i colleghi, nel quale avremmo potuto parlare di tutto, io lo ritenni inopportuno (...)».

Le è capitato di piangere in pubblico. E qualcuno l'ha criticata per questo.
«Io non rinnego quelle lacrime. Le lacrime hanno un senso. E hanno avuto ancora più senso alla luce di quello che è successo. Quando dicevo: qualcuno vuole delegittimarmi, vuole farmi passare per una pazza, sono stata la Cassandra di me stessa».

lunedì 24 novembre 2008

VERO & FALSO

da DAGOSPIA, er mejo sito che ci sia!


VIENI AVANTI, TONINO – FACCI SPUTTANA IL LIBRO BY DI PIETRO: OGNI COSA DETTA, SCRITTA E SBUGIARDATA – “PURO DELIRIO” SUL CAV. – I RETROSCENA SULLA MERCEDES – I PRESTITI E LE DIMISSIONI – MANETTE A GARDINI - VERSACE INNOCENTE (MA COLPEVOLE)…

Filippo Facci per "Il Giornale"

Nulla è più inedito dell'edito, e nulla è più falso di un falso ripetuto. È la morale che si trae dai primi stralci de «Il guastafeste», libro-intervista che Antonio Di Pietro ha realizzato con Gianni Barbacetto, un giornalista transigente come uno scriba col suo faraone. In questo libro ogni cosa appare già detta, già scritta e già sbugiardata: nei fatti, negli atti e nondimeno in «Antonio Di Pietro, Intervista su Tangentopoli» che è un altro libro realizzato dall'ex magistrato nel 2000 con Giovanni Valentini

Quindi nessuna novità: semmai, come direbbe lui, reiterazione del reato e ulteriore inquinamento delle prove. Con l'aggravante che per confutare un libro di Di Pietro non basterebbe neppure un altro libro, tante sono le omissioni e le semplificazioni. Ma divertiamoci un pochino lo stesso.

BERLUSCONI È COME IL FÜHRER
Prima però dobbiamo liquidare le parti di puro delirio: «Per Berlusconi i magistrati rappresentano ciò che gli ebrei rappresentavano per Hitler: razza infame da eliminare, anzi dementi da mandare nei manicomi. Non lo dico io: l'ha affermato lui stesso. Non credo che bisognerà aspettare molto. La soluzione finale è vicina». È vicino anche il sanatorio, se Di Pietro volesse sottoporsi a un comune controllo medico: neppure l'ignoranza può più assolverlo: parliamo dell'uomo che aveva appena paragonato Berlusconi a Videla, un dittatore assassino che fece fuori due generazioni di argentini buttandole dagli aerei. «Neanche sotto il regime fascista si era tentato di infinocchiare l'opinione pubblica con i soldati nelle città. Neanche Mussolini, con le sue otto milioni di baionette, aveva osato tanto». Aspettando approfondimenti, Di Pietro potrebbe cominciare con 20 gocce di Lexotan la mattina presto.

MA QUALE MERCEDES
«Dopo averla tenuta in prova per qualche giorno, mi resi conto che consumava troppo. Perciò non la comprai». Fine della spiegazione: peccato che a contraddirlo ci sia la realtà confortata da tre sentenze da lui inappellate. Leggiamo: si fa riferimento ai favori che un imprenditore inquisito per bancarotta, Giancarlo Gorrini, fece al magistrato, e si legge di «sistematico ricorso di Di Pietro ai suoi favori», dunque «Nel 1990 Gorrini aveva poi ceduto a Di Pietro (...) un'auto Mercedes 300 CE, provento di furto già indennizzato dalla compagnia assicuratrice Maa, per un importo di circa 20-25 milioni a fronte di un valore dell'auto di circa 60 milioni

L'auto era stata rivenduta dopo 2/3 mesi da Di Pietro, il quale aveva trattenuto la somma percepita per la vendita. «I fatti si erano realmente svolti ed alcuni rivestivano caratteri di dubbia correttezza, se visti secondo la prospettiva della condotta che si richiede a un magistrato». La stessa sentenza spiega che l'auto fu rivenduta all'avvocato Giuseppe Lucibello per 50 milioni; i soldi furono restituiti con assegni circolari emessi nel maggio 1994 ma incassati in novembre, poco prima delle dimissioni. Di Pietro si stava ripulendo.

IL PRESTITO, I PRESTITI
Di
Pietro, nel libro, ammette di aver ricevuto un prestito da cento milioni ma precisa di non averli restituiti «con banconote avvolte in carta di giornale, li ho restituiti con assegni». Anzitutto: di quale prestito parla? Dei cento milioni senza interessi ottenuti dall'inquisito Gorrini? O degli altri cento senza interessi ottenuti dall'imprenditore inquisito Antonio D'Adamo? Senza contare le altre periodiche buste di contanti, le case, i vestiti, i lavori per il figlio e per la moglie, la Lancia Dedra per la moglie, i telefonini, una libreria, persino uno stock di calzettoni al ginocchio.

Anche questo è tutto a sentenza, e difficilmente il Csm l'avrebbe perdonato: ma Di Pietro si dimise. Per quanto riguarda i soldi restituiti in assegni circolari e non in carta di giornale, la questione è semplice: i soldi furono restituiti con assegni circolari ma poi incassati e avvolti in carta di giornale, sempre poco prima che si dimettesse. Classica omissione alla Di Pietro.

POTEVO SALVARE GARDINI

Il nostro racconta per l'ottantesima volta la sua verità su Gardini: in sintesi dice che spiccò un ordine d'arresto e poi «Il suo avvocato comincia con me una trattativa», «Do la mia parola: non andremo ad arrestarlo». «Se avessi detto: "Prendetelo", Gardini sarebbe vivo. Ma avevo dato la mia parola». E, alle 8 del mattino dopo, Gardini si sparò.
Vediamo com'è andata davvero. Nella prima estate 1993 Raul Gardini pensava di potersela cavare come avevano già fatto Cesare Romiti e Carlo De Benedetti: un memoriale decoroso al momento giusto, tanto per cominciare. Ma altri segnali erano di cattivo presagio.

Quando venne a sapere che il pm Francesco Greco (non Di Pietro: Francesco Greco) aveva chiesto un primo mandato d'arresto contro di lui, quasi non ci credette: ma il gip Antonio Pisapia in ogni caso rispedì tutto al mittente. Francesco Greco tornò tuttavia a lavorarci, sinché il gip Italo Ghitti, il 16 luglio, accolse il mandato di cattura, che rimase sospeso come una spada di Damocle. Il 17 luglio 1993, Gardini venne a sapere che il mandato d'arresto contro di lui era stato firmato: al che, coi suoi due avvocati, uno dei quali era Giovanni Maria Flick, predispose ben più di un decoroso memorialetto: si dichiarava disponibile a parlare di tutta la vicenda Enimont e quindi anche di soldi ai partiti e contabilità parallela e paradisi fiscali.

Chiese un interrogatorio spontaneo come altri avevano ottenuto, e mandò l'altro avvocato, Dario De Luca, in avanscoperta: ma quest'ultimo tornò con le pive nel sacco e il segnale era preciso, non volevano interrogarlo: volevano arrestarlo. Meglio: volevano interrogarlo, poi arrestarlo e poi reinterrogarlo da galeotto. Il 20 luglio Gardini apprese che Gabriele Cagliari si era suicidato nello stesso luogo in cui Di Pietro lo voleva spedire, e questo con un mandato d'arresto che intanto era sempre lì, sospeso. Sinché i legali dissero a Gardini che il mandato d'arresto era già firmato e che la galera doveva farsela.

Dissero che avevano ottenuto di rimandare l'arresto al giorno dopo, ma era un mezzo bluff, perché in realtà il proposito di arrestarlo nel pomeriggio era stato rimandato solo per evitare che le successive perquisizioni potessero protrarsi sino a notte fonda: cosicché, con le sue gambe o col cellulare della polizia, Gardini sarebbe andato in procura e poi in galera. Il mattino Gardini lesse Repubblica (che riportava alcune anticipazioni de Il Mondo che lo riguardavano) e non resse più, si uccise.

La reazione di Di Pietro, a caldo, fu questa: «Nessuno potrà più aprire bocca, non si potrà più dire che gli imputati si ammazzano perché li teniamo in carcere sperando che parlino». Aveva ragione: qualcuno si ammazzava prima ancora di finirci. Quel giorno stesso, Di Pietro mandò ad arrestare parenti e amici di Raul Gardini, tra i quali Carlo Sama e Sergio Cusani.

VERSACE È INNOCENTE, MA COLPEVOLE
«Sconfitto io? L'indagine su Versace riguardava le tangenti alla finanza. Ebbene: le tangenti sono state pagate, i finanzieri sono stati condannati. Versace è stato condannato in primo grado e in appello e alla fine, in Cassazione, ha convinto l'ultimo giudice di essere stato costretto a pagare». Non è proprio così. Gli stilisti Mariuccia Mandelli (Krizia), Gianfranco Ferrè e Santo Versace, più altri, furono inquisiti dal Pool e dapprima condannati a Milano, ma successivamente assolti a Brescia: si sentenziò che non avevano corrotto la Guardia di finanza.


Filippo Facci

È vero, semmai, che altri stilisti inquisiti nella stessa indagine, e che pure si ritenevano innocenti (tra questi Giorgio Armani e Gimmo Etro), frattanto avevano optato per la legge del Pool, e quindi scelto di patteggiare a Milano con teorica ammissione di colpa. La vera domanda che lo scriba Barbacetto avrebbe potuto fare al suo faraone, dunque, è questa: il Pool chiese circa 3.200 rinvii a giudizio in dieci anni, ma in altri 1.300 casi le posizioni degli inquisiti sono finite ad altre sedi.

Bene: si dà il caso che il numero di questi inquisiti finiti in altri tribunali, e regolarmente assolti, sia straordinariamente alto; come mai? Gli esempi sono tanti: l'editore Sergio Bonelli (accusato a Milano e assolto a Brescia) e il manager Franco Nobili (in galera a Milano e innocente a Roma) e l'ex ministro Clelio Darida (in galera a Milano e assolto a Roma) e i manager Vittorio Barattieri e Daniel Kraus (in galera a Milano e assolti a Roma) e il commercialista Generoso Buonanno (in galera a Milano e assolto a Mantova) eccetera. Oltretutto: perché i suddetti risultano esclusi dalle statistiche del Pool di Milano? Questa pagina è finita, il libro di Di Pietro purtroppo.

[24-11-2008]