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sabato 3 aprile 2010

FLASH SUL CASO CLAPS


Caso Claps, don Vagno trovò il cadavere
di Elisa a gennaio e ripose gli occhiali
Chiare le dinamiche dell'omicidio: aggressione a sfondo sessuale nel sottotetto, ferita con un taglierino e soffocata.
A confronto Don Vagno con le due donne delle pulizie.

sabato 26 settembre 2009

GARLASCO

PAVIA (26 settembre) - Spunta un'amica di Alberto Stasi nel giallo di Garlasco: la mattina dell'uccisione di Chiara Poggi, la ragazza raccontò di essere rimasta a casa, ma il suo telefonino è risultato agganciato a due centraline. A darne notizia, un'inchiesta del Corriere della Sera in cui si spiega come la giovane sia oggi diventata oggetto di nuovi (ennesimi) approfondimenti da parte degli investigatori perchè il suo racconto («ero a casa e ci sono rimasta fino al primo pomeriggio») non coincide con i rilievi tecnico-informatici: il suo cellulare agganciò due "celle" diverse del Comune.

La questione è semplice, riferisce il quotidiano: la teste disse ai carabinieri che la mattina del delitto, il 13 agosto 2007, lei era a casa a Garlasco (non lontano dalla villa dell'omicidio), a scrivere la tesi di laurea. «Dice che si è alzata verso le 7, che ha fatto colazione, che dalle sette e mezzo all'una ha studiato, poi ha pranzato ed è uscita solo verso le quattro. Adesso, più di due anni dopo, periti e consulenti informatici hanno scoperto che il suo cellulare quella mattina agganciò due celle: significa che la copertura del telefonino fu garantita da due centraline diverse, cosa che di solito avviene quando la persona (e quindi il cellulare) si sposta da un'area all'altra».

Da qui le domande: perchè quel collegamento a due celle? Ci sono motivi tecnici che lo rendono possibile anche se il telefono rimane nello stesso luogo? Si puo' dimostrarlo? Oppure la ragazza raccontò il falso? Il perito informatico del giudice Stefano Vitelli vuole andare a fondo dei dettagli tecnici e chiedere al gup nuovi accertamenti.

venerdì 1 maggio 2009

ANCORA GARLASCO

L’imputato perfetto e il verdetto per forza ingiusto

Niente sentenza al pro­cesso per il delitto di Garla­sco. A sorpresa il giudice Stefano Vitelli, che ha defi­nito «incomplete» le inda­gini dei carabinieri, ha di­sposto una superperizia per avere nuovi elementi sull’omicidio di Chiara Pog­gi commesso il 13 agosto 2007. La perizia riguarderà accertamenti sul pc dell'im­putato Alberto Stasi, sul percorso da lui compiuto quando ritrovò il cadavere della fidanzata e sull’orario della morte della vittima. Per Stasi il pm ha chie­sto la condanna a 30 anni di reclusione. Quale sentimento ha suscitato in lui la per altro comprensibile indecisione di chi lo stava giudicando. Gratitudine o rancore?

In fondo lui è il solo per cui questa sentenza alla fine avrà un senso. Per lui, e per i signori Poggi naturalmente, i genitori della ragazza di cui Alberto Stasi è stato per molti anno il fidanzato, e del cui omicidio oggi è accusato. E forse anche per un’astratta idea di Giustizia che in fondo non ha tutta questa importanza.

È assurdo ritenere che una sentenza metta le cose apposto. Non è così che funziona. Che senso ha credere ciecamente nelle sentenze? Citarle come il vangelo a ogni piè sospinto? Come quei risentiti individui che stanno sempre lì a menarcela con le sentenze. E che si agitano e si eccitano quando esse sanciscono colpevolezze o assoluzioni. Non c’è qualcosa di mortuario e di indecente in tutto questo? Come leggere con divertimento la pagina dei necrologi o infilare deliberatamente il naso nell’immondizia.

L’idea che tutti più o meno ci siamo fatti del processo Stasi è che di qualsiasi natura sarà il verdetto esso non risulterà in al­cun modo un progresso signifi­cativo nell’acquisizione della ve­rità. D’altro canto avevamo capi­to sin dal principio che questo era uno di quei processi in cui la verità non avrebbe trovato asilo. E difatti l’intero procedi­mento — come molti altri in questi anni — non ha fatto che regalarci caterve di indizi, sup­posizioni, indiscrezioni, analisi psicologiche, dettagli macabri come pedali di bicicletta insan­guinati o suole di scarpe da gin­nastica non abbastanza insan­guinate, ecc... La sintesi di tutto questa odiosa e ambigua paccot­tiglia promette una colpevolez­za non meno di quanto promet­ta una assoluzione. Si può con­dannare qualcuno che po­trebbe essere innocente?

Si può assolvere qual­cuno che potrebbe essere colpevole?

Perché la sola verità è che, sal­vo qualche in­credibile e inimmaginabi­le rivelazione, non sapremo mai la verità: non sapremo mai se è stato Alberto Stasi ad ammazzare Chia­ra Poggi, oppure no. Né sapremo mai, nel caso fosse lui il colpevole, perché lo ha fatto. Né, se non lo fosse, per­ché non ha protestato la sua in­nocenza con la disperazione che ci si aspetta da chi viene co­sì odiosamente infamato. Come interpretare tutta questa discre­zione?

Tutta questa pudicizia? Come inoppugnabile attestato di col­pa, o come l’ennesima prova della sua innocenza? Il guaio è che il comportamento di un col­pevole che briga per essere as­solto non deve essere poi così dissimile da quello di un inno­cente che è sicuro di essere con­dannato.

C’è da credere che se Alberto Stasi verrà condannato ciò potrebbe avvenire per tre ra­gioni che qualcuno potrebbe ri­tenere fuorvianti o ininfluenti, ma che altri, invece, potrebbero considerare decisive.

1) Perché se non è stato Alber­to Stasi allora chi è stato?

2) Perché ci sono un sacco di cose nella ricostruzione delle ore successive all’omicidio che non tornano, e che Stasi non ha saputo spiegare.

3) Perché Alberto Stasi è l’in­carnazione dell’assassino perfet­to: c’è qualcosa di emblematico nell’esangue pulizia del faccino, nella sobria montatura degli oc­chiali o nel modo garbato di ve­stire, che ti fa pensare ai satani­ci eroi di Bret Easton Ellis; per non parlare del suo contegno di una freddezza perturbante; del suo essere un bocconiano (che, come è noto, ti aliena ogni uma­na simpatia); e naturalmente della varietà imbarazzante di perversioni sessuali testimonia­te dai suoi hard disk ingolfati di immagini pornografiche (alcu­ne di carattere pedofilo). C’è ad­dirittura chi ha enfatizzato il contegno eccessivamente cal­mo di Stasi: per esempio il tono della voce per nulla sconvolto con cui ha chiamato i carabinie­ri per denunciare la morte di Chiara. Così come c’è da pensa­re che se verrà assolto sarà pro­prio perché qualcuno avrà valu­tato la contraddittorietà e la pre­testuosità di tutti questi elemen­ti con estrema cautela. Chieden­dosi, per esempio, quale tono dovrebbe avere la voce con cui un colpevole comunica ai Cara­binieri di aver ammazzato qual­cuno. Oppure, che colpa ha un ragazzo ad avere certe fattezze e non altre? Esiste un solo hard disk di un maschio del Ventune­simo Secolo che non abbia mai ospitato anche solo per qualche secondo una foto pornografica (non pedofila certo)?

E in ogni modo, qualora Al­berto Stasi venisse assolto, è presumibile che il fantasma del sospetto continuerà a persegui­tarlo per il resto della sua vita. Insomma il dato terribile del­la faccenda è che ci troviamo di fronte a uno di quei casi — su cui avrebbe potuto scrivere Al­bert Camus —, in cui il verdet­to finale — di condanna? di as­soluzione? — non potrà che es­sere ingiusto.

Alessandro Piperno

martedì 3 febbraio 2009

EMERGENZA PIRATI DELLA STRADA

dal corriere online

Emergenza pirati della strada
In un anno sono raddoppiati

di VINCENZO BORGOMEO


Ogni tre giorni in Italia viene ammazzato qualcuno da un pirata della strada. E uno al giorno rimane gravemente ferito. Per la pirateria ormai è totale emergenza: nel 2007 sono stati registrati 161 casi, mentre nel 2008 ben 323, con una crescita record del 100,6 per cento. Tradotto in vittime questo incredibile aumento significa 93 morti con un incremento del 36,8% rispetto ai 68 del 2007 mentre il numero dei feriti lo scorso anno ha avuto un balzo del 120,7% con 331 vittime rispetto alle 150 del 2007.

Tutti i casi di pirateria del 2008 (Pdf)

Questi gli incredibili dati che siamo in grado di anticipare e che saranno pubblicati sul prossimo numero de Il Centauro, rivista dell'Asaps, amici polizia stradale.

Triste constatare come poi da tutta questa mole di dati emerga il fatto che - ancora una volta - sono proprio le categorie deboli della strada, in modo particolare anziani e bambini, a pagare un prezzo altissimo: 54 sono gli anziani coinvolti, 41 i bambini, rispettivamente il 12,7% ed il 9,7%. Tra i minori, quelli di età inferiore ai 14 anni rimasti vittima di questo atto di vigliaccheria stradale sono stati in tutto 14 (3,3%), 2 dei quali rimasti uccisi e 12 feriti. I pedoni sono la categoria più tartassata, con 134 eventi: 42 morti (9,9%) e 92 feriti (21,7%). Infine i ciclisti: 42 gli episodi (9,9%), 16 lenzuola bianche (3,8%) e 26 ricoveri (6,1%).

Chiara anche la cosiddetta "geografia" degli episodi di pirateria stradale: al primo posto c'è la Campania con 39 casi (12,1%), seguono la Toscana e l'Emilia Romagna, con rispettivamente 37 e 36 episodi (11,5% e 11,1%). Le regioni più virtuose? Umbria e Valle d'Aosta (0,6%) con due casi, e Basilicata (0,3%) che ha fatto registrare un solo caso.

L'identikit del pirata? "Nella maggior parte dei casi - spiega Giordano Biserni, presidente dell'Asaps - si tratta di uomini di età compresa tra i 18 ed i 44 anni, spesso sotto l'effetto di sostanze alcoliche o stupefacenti e per questo decidono di fuggire, sottraendosi alle proprie responsabilità. Hanno rilievo consistente anche i casi di veicoli con assicurazioni scadute o addirittura false. Spesso è determinante anche il timore di perdere la patente. Le pene, peraltro, non sono particolarmente dissuasive: da tre mesi a tre anni A queste si aggiungono però quelle per le lesioni o l'omicidio".

In questo inferno va detto che ormai pochi pirati riescono a farla franca: il 77,1% degli autori viene smascherato, mentre "solo" il 22,9% resta ignoto. Merito certo delle tecniche investigative (su 323 inchieste, 249 hanno condotto all'identificazione del responsabile, arrestato in 125 occasioni e denunciato a piede libero in altre 124) ma deve far riflettere una cosa: in ben 109 casi (43,8%) nel 2008 il pirata della strada era ubriaco o drogato. Ed è un calcolo per difetto perché spesso quando le forze di polizia identificano l'autore dopo qualche giorno dall'incidente non ha più senso sottoporre il sospetto a controllo alcolemico o narcotest.

Ma quando si ha a che fare con un ubriaco o con un drogato è chiaro che qualsiasi regola venga ignorata sistematicamente. La soluzione del problema è quindi a monte: nel tentativo di non dare la possibilità a un drogato o a un ubriaco di mettersi impunemente al volante.
(3 febbraio 2009)

sabato 10 gennaio 2009

È ARRIVATA LA MORTE PER L'ASSASSINO WILLIAM ZANTZINGER

Morto l'assassino di Hattie Carroll
che ispirò la canzone di Bob Dylan
di RITA CELI

Morto l'assassino di Hattie Carroll che ispirò la canzone di Bob Dylan

La copertina del disco
GIOVANE e ubriaco uccise una donna di colore ma, essendo bianco, ricco e privilegiato, scontò in carcere solo tre mesi per quell'omicidio. Erano i primi anni Sessanta, Rosa Parks aveva già segnato un solco nella storia dei diritti civili in America, ma non ancora abbastanza profondo da incidere anche la vita quotidiana. A "celebrare" l'ingiustizia e a raccontare al mondo intero la storia di quel tragico fatto di sangue, violenza e razzismo, ci pensò un altrettanto giovane cantautore, Bob Dylan, che compose quello che è diventato un classico della musica folk, The lonesome death of Hattie Carroll.

William Devereux Zantzinger, l'assassino che ispirò la canzone, ora è morto, all'età di 69 anni. L'annuncio della scomparsa è stato pubblicato oggi dal New York Times, dopo aver ricevuto la conferma dalla Brinsfield-Echols Funeral Home. La famiglia di Zantzinger, che non aveva mai perdonato a Dylan di aver musicato il fatto di cronaca nera di cui era stato protagonista, ha proibito di fornire dettagli sulla causa e il luogo del decesso.

Il 9 febbraio 1963 William Devereux Zantzinger, un giovane bianco di 24 anni, proprietario di una piantagione di tabacco, ordinò da bere a Hattie Carroll, una cameriera nera di 51 anni che lavorava all'Emerson Hotel di Baltimora. Ritenendo che la donna non fosse abbastanza veloce nel servirlo, Zantzinger l'apostrofò pesantemente insultandola con il termine "negra" e la colpì con un bastone. Hattie Carroll, madre di undici figli (uno in più rispetto al testo della canzone) morì la mattina dopo di emorragia cerebrale.

Poco più che ventenne, Bob Dylan rimase profondamente colpito dalla sentenza riportata dai giornali nell'estate del '63 e scrisse di getto la canzone dal titolo The lonesome death of Hattie Carroll, eseguita dal vivo nei suoi concerti prima di essere inserita nel suo terzo celeberrimo album The times they are a-changin' pubblicato nel gennaio 1964. Nel testo non c'è riferimento al colore della pelle della vittima e del carnefice, ma insiste sulle differenze sociali tra i due sottolineando come la ricchezza e i rapporti di potere abbiano influenzato profondamente la sentenza.

Grazie ai suoi avvocati infatti William Zantzinger si vide ridurre l'imputazione da omicidio volontario a colposo, fu condannato a una pena di sei mesi ma ne scontò appena tre per buona condotta. Dopo la sentenza il New York Herald Tribune sostenne che la condanna fu ridotta per evitare di doverla scontare in una prigione di Stato e rischiare così la vendetta dei detenuti afro-americani. Zantzinger scontò la breve pena in relativa sicurezza nella prigione locale della contea di Washington.

Dylan iniziò la canzone partendo dall'omicidio della "povera Hattie Carroll", uccisa da William Zantzinger in un "hotel di Baltimora frequentato dall'alta società". La polizia lo arrestò con l'accusa di omicidio di primo grado, ma "voi che filosofate sulle disgrazie e criticate le paure toglietevi il fazzoletto dal viso, non è ancora il momento delle vostre lacrime". La seconda strofa è dedicata a Zantzinger, "a 24 anni proprietario di una piantagione di tabacco di 600 acri", protetto e curato dai genitori con conoscenze altolocate nel Maryland. Reagì all'arresto con una scrollata di spalle e uscì in fretta su cauzione.

Il brano prosegue con il ritratto di Hattie Carroll, una cameriera di 51 anni che aveva dato alla luce dieci figli, abituata a servire in tavola e gettare la spazzatura, che "non si era mai seduta capotavola e non aveva mai parlato con la gente ai tavoli", e che fu uccisa con un colpo di bastone senza aver fatto nulla a William Zantzinger. L'ultima strofa è nell'aula di tribunale dove il giudice batte il suo martello per dimostrare che la legge è uguale per tutti e che anche i potenti vengono trattati correttamente una volta che la polizia li ha catturati. Quel giudice fissò negli occhi la persona che aveva ucciso senza motivo condannandolo a sei mesi. "Voi che filosofate sulle disgrazie e criticate le paure affondate il fazzoletto profondamente sul vostro viso, questo è il momento per le vostre lacrime" conclude il brano di Dylan.

Zantzinger visse sempre nei dintorni di Baltimora e nel 1991 venne arrestato per truffa dal momento che riscuoteva l'affitto da poveri neri per degli appartamenti fatiscenti che non erano più di sua proprietà. Intervistato dal biografo di Dylan, Howard Sounes, nel 2001, Zantzinger definì Dylan un "insignificante figlio di puttana".

martedì 6 gennaio 2009

IL MONDO SCORRETTO DEL POLITICAMENTE CORRETTO

MAMMA E PAPA' CENSURANO LE FAVOLE
Cenerentola è costretta a lavare e pulire tutto il giorno e Biancaneve offende i suoi amici chiamandoli “nani”». I genitori in rivolta: non le leggiamo sono politicamente scorrette
LONDRA
«Cenerentola è costretta a lavare e pulire tutto il giorno e Biancaneve offende i suoi amici chiamandoli “nani”». E allora mamma e papà “censurano” le favole. Secondo un sondaggio condotto su 3.000 genitori, un nutrito gruppo di intervistati considera le fiabe politicamente scorrette. «Sono troppo tristi, non le leggiamo più»: così i classici dei fratelli Grimm o di Perrault, finora sempre molto amati, rischiano di sparire dalle camerette dei bambini. “Biancaneve e i sette nani” è una delle storie più contestate. Un genitore su dieci pensa che il titolo della celebre favola, che racconta di una principessa odiata per la sua bellezza dalla malvagia regina e strega Grimilde, non sia politically correct: «Bisogna modificarlo».

Biancaneve e Cenerentola sono comunque in buona compagnia. Anche Raperonzolo è “troppo crudele”. Secondo l’indagine del sito TheBabyWebsite.com, il 66 per cento di mamma e papà crede ancora che la Bella addormentata, Hansel e Gretel, Pinocchio diano ai loro figli dei messaggi di moralità. Ma, purtroppo, molti altri ritengono le fiabe così inappropriate da vietarle prima della buonanotte. Cappuccetto rosso, per esempio, è “spaventosa”. Vedere una dolce bambina alle prese con un lupo cattivo che mangia la nonna, non aiuta i sogni dei più piccoli. Per il 17 per cento bisogna evitare letture di questo tipo per non creare incubi spaventosi.

«Le favole ci portano in un mondo fatato che stimola la nostra fantasia» dice un portavoce del sito TheBabyWebsite.com . «I bambini – aggiunge- amano farsi raccontare storie diverse ed è vergognoso che i genitori di oggi vietino storie che per secoli sono state raccontate ai più piccoli di tutto il mondo». La guerra alle favole è aperta e molti classici vengono rimpiazzati da storielle come Gruffalo o Winnie the Pooh. I genitori in rivolta hanno già pubblicato una lista “che provoca il pianto”. Ai primi posti Hansel e Gretel, Biancaneve, Cenerentola e Cappuccetto rosso.

ODIO E PREGHIERA

IL VATICANO CONTRO I MUSULMANI INGINOCCHIATI IN PIAZZA DUOMO VERSO LA MECCA - “NON È UNA PREGHIERA E BASTA. È UNA SFIDA AL SISTEMA DEMOCRATICO E CULTURALE” - SINISTRA ZITTA DAVANTI AGLI STRISCIONI CON STELLA DI DAVID E LA SVASTICA NAZISTA


Gian Guido Vecchi per il Corriere della Sera

«Guardi, a me la preghiera di per sé non disturba, si figuri. Se un musulmano venisse a San Pietro a pregare che dovrei dire? La gente che prega fa sempre bene. Però...». Il cardinale Renato Martino, presidente del pontificio Consiglio della giustizia e della pace e del Consiglio per i migranti, si concede una pausa.

È in quel «però» che c'è tutto il disagio della Chiesa per le immagini dei musulmani in preghiera in piazza del Duomo, a Milano, o davanti a San Petronio a Bologna, il tutto dopo le manifestazioni antiisraeliane e antisemite con striscioni che equiparavano la Stella di David alla svastica nazista.
Antonio Sciortino

In Vaticano non si desidera certo inasprire i toni, i tempi sono già abbastanza difficili. Però...«Ciò che mi ha infastidito e turbato sono proprio quelle bandiere di Israele bruciate, quei cartelli, la preghiera dopo una simile manifestazione di odio», riflette il cardinale. Ecco il punto: «L'essenziale è lo spirito con cui si prega. E la preghiera esclude l'odio».

Parole significative, dette da un cardinale che all'inizio dell'anno, in un'intervista all'Osservatore Romano, osservava tra l'altro che «nella Striscia di Gaza da decenni la dignità dell'uomo viene calpestata; l'odio e il fondamentalismo omicida trovano alimento».

A Bologna è stata durissima la reazione del vescovo Ernesto Vecchi, vicario generale della diocesi: «Non è una preghiera e basta. È una sfida, più che alla basilica al nostro sistema democratico e culturale - ha detto al Resto del Carlino -. Abbiamo avuto la conferma che c'è un progetto pilotato da lontano. Cosa prevede? L'islamizzazione dell'Europa. Se ne accorse il cardinal Oddi, tra i primi. E aveva buone fonti».

Ma l'atteggiamento più diffuso segue piuttosto lo spirito di monsignor Luigi Manganini, arciprete del Duomo di Milano, che ha evitato polemiche osservando tuttavia come ci sia stata «quantomeno una mancanza di sensibilità» negli islamici in preghiera davanti alla cattedrale, «da cristiano non avrei mai partecipato ad una manifestazione che si concludesse con una preghiera di fronte a una moschea».

Lo dice anche Giovanni Maria Vian, direttore dell'Osservatore Romano: «Condivido le preoccupazioni dell'arciprete del Duomo. Bisogna stare molto attenti a non piegare le religioni ad un uso violento e a respingere strumentalizzazioni di ogni tipo». Il quotidiano della Santa Sede ha dato notizia dei fatti di Milano in una cronaca precisa e senza commenti.

Calma. «La guerra e l'odio non risolvono i problemi», apre a tutta pagina il quotidiano della Santa Sede con le parole del Papa all'Angelus. «La situazione è tragica. Come disse Pio XII alla vigilia della Seconda guerra mondiale: "Nulla è perduto con la pace. Tutto può esserlo con la guerra"», riflette ancora Vian. E in questo le religioni possono avere un ruolo importante.
Angelo Bagnasco

«Bisogna stare attenti, fare appello alle parti più ragionevoli per evitare ogni deriva violenta. Benedetto XVI lo ha ripetuto fin dall'inizio del suo pontificato: come quando a Colonia, nel 2005, si rivolse ai rappresentanti musulmani invitando a contrastare insieme "ogni forma di intolleranza" e "ad opporci a ogni manifestazione di violenza"».

Certo che la preghiera musulmana in piazza Duomo mette a disagio anche don Antonio Sciortino, direttore di Famiglia Cristiana: «La preghiera per invocare Dio e la pace in quella terra martoriata è sempre positiva. Ma l'importante è l'intenzione. Perché quei gesti di frange estremiste, i roghi e i simboli nazisti associati a Israele, non hanno nulla a che fare con la preghiera. Gli imam lo tengano presente: scegliere di riunirsi in un luogo così plateale legittima il sospetto di strumentalizzazione».

Così anche alla Cei si misurano le parole, nel commento affidato a Don Gino Battaglia, direttore dell'ufficio per l'ecumenismo e il dialogo interreligioso. «La preghiera è cercare Dio: è sempre metter nelle sue mani le nostre attese, speranze, o desideri. Ovvero espressione di gratitudine e di lode. Ha dunque una sua logica che non può mai essere contro qualcuno, a meno di non tradire la sua stessa essenza».
Giuseppe Betori

Mentre il cardinale Angelo Bagnasco, presidente dei vescovi italiani, da Genova liquida così le polemiche sul presepe con la moschea: «È stata una polemica inutile, della quale non c'era proprio bisogno. Vuota e priva di senso». Certo c'è un brutto clima. Ad Empoli un presepe è stato fatto esplodere con una bomba carta, non si sa da chi.

E l'arcivescovo di Firenze Giuseppe Betori non l'ha mandata a dire: «Non possiamo non vedere la connessione tra questo gesto criminale e un contesto di aggressione ideologica alla fede e ai suoi segni pubblici».



[06-01-2009]

sabato 3 gennaio 2009

I PREGIUDIZI CONTRO ISRAELE

L'ipocrisia della sproporzione
I pregiudizi dell'opinione pubblica mondiale

Davanti a un conflitto, l'opinione pubblica si divide tra coloro che hanno deciso chi ha torto e chi ha ragione e coloro che valutano con cautela tale o tal'altra azione come opportuna o inopportuna, anche a costo di rinviare il loro giudizio.

Lo scontro di Gaza, per quanto sanguinoso e terrificante, lascia trasparire tuttavia uno spiraglio di speranza che le immagini drammatiche troppo spesso nascondono. Per la prima volta in un conflitto in Medio Oriente, il fanatismo del partito preso appare in minoranza. Il dibattito in Israele («È questo il momento giusto? Fino a che punto arrivare? Fino a quando? ») si svolge come di consueto in democrazia. Quale sorpresa constatare che un dibattito assai simile divide, a microfoni aperti, anche i palestinesi e i loro sostenitori. A tal punto che Mahmoud Abbas, capo dell'Autorità palestinese, subito dopo l'inizio della rappresaglia israeliana, ha trovato il coraggio di imputare a Hamas la principale responsabilità della tragedia dei civili a Gaza, per aver rotto la tregua.

Le reazioni dell'opinione pubblica mondiale — i media, la diplomazia, le autorità morali e politiche — sembrano purtroppo in ritardo sugli sviluppi dei diretti interessati. A questo proposito non si può far a meno di notare un termine assai ricorrente, a ribadire un'intransigenza di terzo tipo, che condanna urbi et orbi l'azione di Gerusalemme come «sproporzionata ». Un consenso universale e immediato sottotitola le immagini di Gaza sventrata dai bombardamenti: la reazione di Israele è sproporzionata. Cronache e analisi non perdono tempo a rincarare la dose: «massacri », «guerra totale». Per fortuna, si è evitato finora il termine «genocidio». Il ricordo del «genocidio di Genin» (60 morti), ripetuto ossessivamente e poi screditato, è ancora capace di frenare gli eccessi? Tuttavia la condanna incondizionata e a priori della reazione esagerata degli israeliani regola ancora oggi il flusso delle riflessioni. Consultate il primo dizionario sotto mano: è sproporzionato ciò che non è in armoniosa proporzione rispetto alle altre parti, oppure non corrisponde, di solito per eccesso, al giusto o al dovuto, pertanto risulta eccessivo, esagerato, spropositato. È il secondo significato che viene accolto per fustigare le rappresaglie israeliane, giudicate eccessive, incongruenti, sconvenienti, che oltrepassano ogni limite e ogni regola. Sottinteso: esiste uno stato normale del conflitto tra Israele e Hamas, oggi scombussolato dall'aggressività dell'esercito israeliano, come se il conflitto non fosse, come tutti i conflitti, sproporzionato sin dall'origine. Quale sarebbe la giusta proporzione da rispettare per far sì che Israele si meriti il favore dell'opinione pubblica? L'esercito israeliano dovrebbe forse rinunciare alla sua supremazia tecnologica e limitarsi a impugnare le medesime armi di Hamas, vale a dire la guerra approssimativa dei razzi Grad, la guerra dei sassi, oppure a scelta la strategia degli attentatori suicidi, delle bombe umane che prendono di mira volutamente la popolazione civile? O, meglio ancora, non sarebbe preferibile che Israele pazientasse saggiamente finché Hamas, per grazia di Iran e Siria, non sarà in grado di «riequilibrare » la sua potenza di fuoco?

A meno che non occorra portare allo stesso livello non solo i mezzi militari, ma anche gli scopi perseguiti. Poiché Hamas — contrariamente all'Autorità palestinese — si ostina a non riconoscere allo Stato ebraico il diritto di esistere e sogna l'annientamento dei suoi cittadini, non sarebbe il caso che Israele imitasse questo spirito radicale e procedesse a una gigantesca pulizia etnica? Si vuole veramente che Israele rispecchi, in misura proporzionale, le ambizioni sterminatrici di Hamas?

Non appena si va scavare nei sottintesi del rimprovero ipocrita di «reazione sproporzionata », ecco che si scopre fino a che punto Pascal aveva ragione, e «chi vuol fare l'angelo, fa la bestia». Ogni conflitto, che covi sotto la cenere o in piena eruzione, è per sua natura «sproporzionato ». Se i contendenti si mettessero d'accordo sull'impiego dei loro mezzi e sugli scopi rivendicati, non sarebbero più avversari. Chi dice conflitto, dice disaccordo, di qui lo sforzo da una parte e dall'altra di giocare le proprie carte e di sfruttare le debolezze del rivale. L'esercito israeliano non ci pensa due volte ad «approfittare » della sua superiorità tecnologica per centrare i suoi obiettivi. E Hamas non fa da meno, ricorrendo alla popolazione di Gaza come scudo umano senza lasciarsi nemmeno sfiorare dagli scrupoli morali e dagli imperativi diplomatici del suo antagonista. Non si può lavorare per la pace in Medio Oriente se non ci si sottrae alle tentazioni di chi ragiona in base a pregiudizi o ad opinioni preconcette, che assillano non solo i fanatici oltranzisti, ma anche le anime pie che fantasticano di una sacrosanta «proporzione», capace di riequilibrare provvidenzialmente i conflitti. In Medio Oriente, non si combatte soltanto per far rispettare le regole del gioco, ma per stabilirle. È lecito discutere liberamente dell'opportunità di questa o quella iniziativa diplomatica o militare, senza tuttavia presumere che il problema venga risolto in anticipo dalla mano invisibile della buona coscienza mondiale. Non è un'idea «spropositata» voler assicurare la propria sopravvivenza. André Glucksmann (Traduzione di Rita Baldassarre)

André Glucksmann
(Traduzione di Rita Baldassarre)
03 gennaio 2009

giovedì 1 gennaio 2009

ROMEO, IL CONSIP, IL PD, LE COOP

LE SPIE DI ROMEO NASCOSTE AL TESORO - PIÙ SI APPROFONDISCONO I FILONI INVESTIGATIVI E PIÙ SI CONFERMA IL SOSPETTO CHE IL SEGRETO DEL SUCCESSO IMPRENDITORIALE DI ALFREDO ROMEO SIA QUELLO DELL’AGGIUDICAZIONE DELLE GARE CON METODI ILLEGALI…

Da La Stampa

L'altro giorno, il vicepresidente della Provincia, Antonio Pugliese, si è difeso davanti ai magistrati che lo interrogavano sugli appalti da far vincere ad Alfredo Romeo, spiegando che l'immobiliarista «aveva rapporti diretti con la Consip». Davvero l'ex re Mida non finisce di stupire. Più si approfondiscono i filoni investigativi e più si conferma il sospetto che il segreto del successo imprenditoriale di Alfredo Romeo sia quello dell'aggiudicazione delle gare con metodi illegali. Come emerge non solo dall'inchiesta di Napoli ma anche da quella di Bari.
Alfredo Romeo

Nelle carte napoletane d'interesse della Procura di Roma ci sono due intercettazioni telefoniche che parlano della Consip. Due premesse intanto. La prima: la Consip è una società controllata dal ministero dell'Economia e Finanze che, nello spirito del risparmio delle spese, gestisce il programma per la razionalizzazione degli acquisti nella pubblica amministrazione.

La seconda: il "Sole 24 Ore" ha pubblicato una tabellina degli appalti Consip vinti da Alfredo Romeo. Dal 2002 ad oggi, in quattro diverse gare si è aggiudicato nove lotti per complessivi 460 milioni di euro, con offerte al ribasso che oscillavano dal 20 al 40%. Nel 2007, gli ultimi tre lotti: appalti in Puglia e Molise; in Campania e Basilicata e, infine a Roma, Primo Municipio.

E' il 13 giugno del 2007, Romeo parla con l'assessore della giunta Iervolino Giuseppe Gambale: «E' venuto a trovarmi quel funzionario Consip... che ha chiamato la persona...». Risponde l'ex assessore agli arresti domiciliari, Gambale: «Ma mi ha detto, lui sapeva proprio tutto, sapeva i lotti tuoi, quelli di Pirelli, forse dice... Trastevere sta nell'altro lotto quello di Roma-Lazio, e io gli ho detto va bene però... ci sono i Dipartimenti della Campania... poi ci sono altre... Trastevere non sta da te?». Romeo: «Trastevere cazzo non fa parte di Roma centro... Comunque dice che sapeva tutto... fino al punto che lui ha detto questo riguarda il lotto di Pirelli... questo riguarda il lotto di Romeo, infatti il funzionario ha detto che mi fa chiamare per fare la pubblicità a Pirelli».
Giuseppe Gambale

In un passaggio della richiesta di custodia cautelare, i pm napoletani scrivono che alcuni dirigenti Consip «sono veri e propri bracci operativi dello stesso scaltro imprenditore napoletano (Romeo, ndr)». E sospettano che uno di questi sia l'architetto «Marco Gasparri».

Due giorni dopo la conversazione con Gambale, Romeo parla al telefono proprio con Gasparri. E' sollevato perché ha risolto positivamente il dubbio se Trastevere faceva parte del Primo Municipio o no. Romeo: «Allora architetto, intanto volevo dirle che... Trastevere abbiamo verificato sui vostri documenti Consip del ministero dell'Istruzione è Primo Municipio... buon per me... la ringrazio.. però è strano che l'interlocutore... sapesse tutto il contrario... però siccome lei aveva già parlato con lui, e lui aveva questa confusione potrebbe essere tecnicamente professionalmente corretto dirglielo».
Alfredo Romeo

Gasparri: «Va bene, glielo farà senz'altro sapere». Romeo: «Vuole segnarsi questi recapiti? Dottor Giannini 333...». Gasparri: «Ma questo è...? quindi loro aspettano che noi li contattiamo per, per far (incomprensibile) della cosa... quindi chiamo direttamente, chiamiamo direttamente questa qua, o tutti e due sia la Marinello che questo qua, il Giannini è superiore, è capo dipartimento...».

Quello che stupisce nel comportamento di Romeo è proprio questa sua recidività. A Bari, il 12 gennaio, il gup dovrà decidere se rinviarlo a giudizio per una storia di gare Consip del 2003. Con l'ex amministratore delegato, Ferruccio Ferranti, e un dirigente Consip, Renato Di Donna, insieme a due gruppi imprenditoriali, La Fiorita e Manutencoop (cooperativa emiliana) si erano spartiti i lotti da vincere. I due dirigenti Consip avevano rivelato loro tempi e contenuti del bando di gara.

giovedì 25 dicembre 2008

sentanza choc, motivazioni odiose


Motivazione choc. Gasparri: sentenza che fa ribrezzo
«La Reggiani resisteva.
Sconto di pena a Mailat»
I giudici: niente ergastolo anche perché il romeno era ubriaco

Giovanna Reggiani, la donna uccisa da un Rom a Tor di Quinto (da archivio Corriere)
ROMA — Romulus Mailat, il romeno che la sera del 30 ottobre 2007 stuprò ed uccise la signora Giovanna Reggiani vicino alla stazione di Tor di Quinto, agì da solo. Ed ha avuto la condanna a 29 anni in primo grado e non l'ergastolo perché «la Corte, pur valutando la scelleratezza e l'odiosità del fatto, commesso in danno di una donna inerme e, da un certo momento in poi esanime, con violenza inaudita, non può non rilevare che omicidio e violenza sessuale sono scaturiti del tutto occasionalmente dalla combinazione di due fattori: la completa ubriachezza e l'ira dell'aggressore, e la fiera resistenza della vittima». Lo sostiene la motivazione della sentenza della Corte d'Assise presieduta da Angelo Gargani. E Maurizio Gasparri, capogruppo al Senato del Pdl, esplode: «Provo ribrezzo per questa decisione». Paradossalmente, secondo la Corte, è anche l'incredibile forza d'animo della Reggiani ad aver attenuato le responsabilità dell'assassino: «In assenza degli stessi fattori — si legge — l'episodio criminoso, con tutta probabilità, avrebbe avuto conseguenze assai meno gravi ». Mailat, invece, a causa della reazione della vittima «non riesce ad averne ragione a mani nude» e deve usare il bastone. Però il romeno «all'epoca era ventiquattrenne, incensurato, e l'ambiente in cui viveva era degradato. Queste circostanze, assieme al dettato costituzionale secondo cui la pena deve tendere alla rieducazione, inducono la Corte a risparmiargli l'ergastolo, concedendogli le attenuanti generiche equivalenti alle aggravanti contestate, pur irrogando la pena massima per l'omicidio».

Lette le motivazioni, Gasparri, che aveva già criticato l'entità della pena, attacca: «Questi giudici — dice — si devono vergognare. Se non si dà l'ergastolo per una persona del genere, a chi lo si da?». Ma non è solo questo, ad indignare Gasparri: «Di fronte a queste motivazioni, più che di separazione di carriere, bisognerebbe parlare di "abolizione di carriere". Certi magistrati andrebbero cacciati... Spero che il Natale porti un po' di saggezza». Il parlamentare non si ferma qui: «Come legislatore farò tutto il possibile per evitare che si ripetano certe cose, ma come italiano mi vergogno ». I giudici hanno anche ricordato la necessità di non trascurare la Carta nella parte in cui richiama all'esigenza di un recupero del detenuto. Gasparri però non ci sta: «Io credevo nella magistratura. Ma ogni giorno ci sono prove che inducono chi può a rivederne sia il ruolo sia le responsabilità ». Secondo i giudici l'esclusiva responsabilità di Mailat «è pienamente provata. La selvaggia violenza dei colpi sarebbe stata inutile se l'azione fosse stata condotta da più persone». Presenterà appello l'avvocato del romeno, Piero Piccinini: «È una motivazione di una semplicità sconcertante, che lascia interdetti. Sono state fatte forzature logiche che dimostrano che le prove erano insufficienti ». Pronta all'appello anche la procura, contraria alla concessione delle attenuanti generiche. E secondo l'avvocato di parte civile Tommaso Pietrocarlo «è proprio la fiera resistenza della povera signora Reggiani che rende più grave l'episodio ».

Laura Martellini
Ernesto Menicucci
24 dicembre 2008

sabato 20 dicembre 2008

NAPOLICAOS

Auto blu, 6 indagati al Comune di Napoli
Coinvolti due attuali assessori, Mola (Pd) e Riccio (Rifondazione) e 4 ex

NOTIZIE ANTICIPATE DA "IL MATTINO" E RILANCIATE DAL CORRIERE ONLINE

NAPOLI - Una nuova bufera si abbatte sul Comune di Napoli, dopo lo scandalo degli appalti sporchi che ha coinvolto l'imprenditore Alfredo Romeo e altre dodici persone, tra cui due assessori dell'attuale giunta partenopea. Sei amministratori del Comune, due assessori attualmente in carica e quattro di precedenti giunte risultano indagati a chiusura delle indagini sull'uso improprio delle auto blu. Tra gli attuali amministratori - secondo quanto riferiscono organi di stampa - il provvedimento riguarda gli assessori alla Nettezza Urbana, Gennaro Mola, del Pd, e Giulio Riccio, di Rifondazione comunista. I quattro ex assessori sono Giuseppe Gambale, del Pd, già ai domiciliari per la vicenda Romeo, Donata Rizzo e Bruno Terracciano, dell'Udeur, Dolores Madaro, del Pdci. Gli assessori avrebbero usato le auto di servizio per fare shopping, accompagnare amici e parenti, fare viaggi di piacere a Rimini e a Capo Vaticano, una tre giorni a Telese per la festa dell’Udeur, una visita al Polo della Qualità di Marcianise. Due i capi d’accusa ipotizzati dal pm Brunetti: abuso e peculato.

venerdì 19 dicembre 2008

crimini tributari

Nel 2008 gli evasori totali
sono cresciuti del 30%
Sono 6.414 quelli scoperti dalla Guardia di Finanza. Iva evasa per 4,3 miliardi


ROMA - Ammontano a 27,5 miliardi i redditi non dichiarati e oltre 6.400 gli evasori completamente sconosciuti al fisco scoperti dalla Guardia di Finanza nel 2008. È questo il dato più significativo emerso nel corso della tradizionale conferenza stampa di fine anno che si è tenuta venerdì a Roma presso il Comando Generale e con la quale le Fiamme Gialle hanno reso noto il bilancio dell'attività operativa svolta quest'anno a tutela della sicurezza economico-finanziaria.

LE CIFRE - Nel rapporto annuale presentato dal Comandante Generale della Guardia di Finanza, generale Cosimo D'Arrigo, si legge che sono state constatate basi imponibili sottratte a tassazione per 27,5 miliardi e Iva evasa per 4,3 miliardi, ancora superiori ai dati del medesimo periodo della scorsa annualità, che già hanno rappresentato il massimo storico dell'ultimo decennio; inoltre sono state rilevate violazioni Irap per 19,4 miliardi, pari a quasi il 30% in più di tutto il 2007. Grazie ad una mirata e penetrante attività di programmazione delle attività di contrasto all'evasione è aumentato il rendimento medio di ogni singolo intervento ed è pertanto migliorata la qualità complessiva delle verifiche svolte. Si è conseguentemente prodotto un avanzamento sistematico della lotta all'evasione fiscale. Questo dato, viene sottolineato nel Rapporto, è confermato anche dagli esiti dell'attività operativa nei confronti dei soggetti che sfruttano il lavoro nero e irregolare e che non presentano affatto le dichiarazioni dei redditi e Iva.

L'AUMENTO DEGLI EVASORI - I redditi evasi contanti nei riguardi dei 6.414 evasori totali scoperti quest'anno ammontano a 8,8 miliardi, con aumento della resa media di ogni singolo intervento, rispetto a quella dello scorso anno, pari a circa il 30%. Parimenti in sensibile aumento è il rendimento del contrasto all'evasione e all'elusione fiscale internazionale; in questo settore sono state constatate basi imponibili evase per 5,1 miliardi, quasi tre volte a quelle di tutto il 2007, pari a 1,9 miliardi. Anche per le frodi fiscali penalmente rilevanti, che hanno condotto alla denuncia all'autorità giudiziaria di quasi 7400 persone, si è rilevato un aumento dell'Iva evasa mediante l'emissione e l'utilizzo di fatture operazioni inesistenti, pari a 2,3 miliardi, superiore del 45% rispetto a quella scoperta nel 2007. Sul settore della spesa pubblica, per indebite percezioni di incentivi nazionali e comunitari, anche nel settore della spesa sanitaria, sono state scoperte truffe e responsabilità per danni erariali per circa 1,9 miliardi; in questo contesto spicca l'incremento delle frodi al bilancio comunitario, aumentate del 91% rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. Sono stati, inoltre, sequestrati capitali e patrimoni pari a 582 milioni, costituenti prodotto, profitto o reinvestimento di reati di riciclaggio, usura, falsificazione di mezzi di pagamento, trsferimenti all'estero di valuta e altri reati societari e finanziari.

giovedì 18 dicembre 2008

IL REGIME NAPOLETANO DI SINISTRA PRONTO AL CROLLO?


da La Stampa Online
La rabbia di Napoli
"Qui la sinistra ha creato un regime"

E il Pd ora teme che il ciclone si abbatta sul Campidoglio
MARCELLO SORGI
INVIATO A NAPOLI
E se adesso toccasse a Roma? La domanda nessuno la fa a voce alta. Ma la paura è dipinta sulle facce dei politici che sfilano sulle tv locali. Con Napoli, l'accerchiamento è completo. Dopo la Liguria, la Toscana, l'Abruzzo, la Basilicata, la Calabria, il timore che una nuova inchiesta presto punti diritto al quartier generale del Pd cresce di ora in ora, alimentato dal coinvolgimento del parlamentare Lusetti (insieme al collega di An Bocchino) nell’indagine sul «Global service» partenopeo, dalla vicinanza di Lusetti a Rutelli (i nomi dell’ex vicepresidente del consiglio e dell’ex ministro Fioroni compaiono nelle carte giudiziarie), e dalle mille voci che dicono che anche nella Capitale il lungo quindicennio del centrosinistra alla guida del Campidoglio potrebbe entrare a breve nel mirino della magistratura.

Napoli come anticamera di Roma. Napoli come paradigma del degrado amministrativo del centrosinistra, che qui è esploso fragorosamente con il disastro della monnezza, ma anche altrove, come s’è visto, funzionava (o non funzionava) allo stesso modo. «In un certo senso la questione giudiziaria non è la cosa più importante - spiega Andrea Geremicca, a lungo vicesindaco ed assessore nella prima stagione delle giunte di sinistra, e oggi a capo della Fondazione «Mezzogiorno Europa» - non perché non sia grave l’arresto di alcuni assessori o il suicidio, prima dell’arresto, di uno di loro.

Ma in termini politici, tutto era già avvenuto prima. La crisi dei partiti. Le guerre tra gruppi e correnti, ai quali i leader nazionali hanno lasciato mano libera, all’interno del Pd neonato. E poi il distacco assoluto della politica dalle istituzioni, l’assenza di discussione, la mancanza di mobilitazione dell’opinione pubblica, la degenerazione del leaderismo, l’asfissia del ricambio della classe dirigente».

Dicono che in questi giorni i membri della nomenclatura napoletana vivano un po’ come quelli sovietici negli anni dello stalinismo: quando sentivano bussare alla porta al mattino, non potevano sapere se a suonare il campanello fosse il lattaio o le guardie venute per arrestarli. Molto più di Genova, Pescara, Potenza o Reggio Calabria, Napoli è da sempre, per definizione, un caso nazionale. La rivoluzione dei sindaci, in fondo, era partita da qui.

La caduta del vecchio sistema qui era stata più fragorosa che altrove, con l’improvvisa cancellazione dei «signori della miseria» che per decenni avevano prosperato sulla disperazione del Sud. Oggi resta ben poco del Rinascimento napoletano che aveva fatto risplendere la città, con Piazza Plebiscito liberata finalmente dal traffico e dalle auto in terza fila, nei giorni lontani del G7 del ‘94. La crisi nel rapporto tra istituzioni sorde e società civile indifferente, rassegnata, l’ha denunciata con forza il cardinale Sepe, forse l’unica autorità riconosciuta e anche il solo che dal pulpito e nelle strade cerca di ricostruire una rete di valori.

Il magistrato-intellettuale Raffaele Cantone, a lungo impegnato contro il clan dei casalesi, la sua personale e reale Gomorra, che lo costringe a vivere sotto scorta, non vorrebbe parlare. Chiarisce che non può esprimersi sulla portata di inchieste a cui non ha preso parte. Ma aggiunge: «La caduta di credibilità della classe dirigente si era già consumata del tutto sulla questione della monnezza. Quando le istituzioni locali, a qualsiasi livello, hanno dimostrato di non essere in grado di porre rimedio a un problema così grave e per così lungo tempo, gettando la cittadinanza nel degrado e mettendone a rischio la salute, si sono giocate insieme prestigio e fiducia».

Né vale il tentativo di Bassolino (e oggi del sindaco Iervolino) di resistere e tentare di recuperare, sull’onda della drastica ripulitura militare ordinata da Berlusconi. «Bassolino può pure aspettare, illudersi che l’indifferenza di una società civile presa politicamente a martellate possa consentirglielo, ma sbaglia a non riconoscere che il suo ciclo s’è chiuso - accusa Biagio De Giovanni, filosofo di fama mondiale, coscienza critica della sinistra napoletana, titolare della cattedra Jean Monnet di storia dell’integrazione europea all’Istituto Orientale - l’idea che l’attesa sia obbligata, per consentire la nascita di una classe dirigente alternativa all’interno del centrosinistra, non sta in piedi.

L’alternativa non è nata perché negli ultimi anni qui c’è stato un regime. Un potere asfissiante in cui, a cominciare dall’interno della sinistra, ogni voce dissonante, ogni critica, ogni obiezione veniva tacitata, con le buone o con le cattive». Consulenze a pioggia. Professori di quelli che scrivono editoriali sui quotidiani assoldati nei think-thank pubblici con stipendi di decine di migliaia di euro. Molte chiacchiere, molti annunci, molte incompiute, quasi nessuna realizzazione.

E se oggi la Iervolino è riuscita a mettere insieme contro di sé, tutti insieme, la Curia, l’Unione Industriali, buona parte degli intellettuali e l’insieme dei giornali locali, non dipende solo dalle avversità degli ultimi tempi. Ma dall’assoluta inefficienza di un’amministrazione paralizzata dai veti interni e dal braccio di ferro tra «cacicchi» e potentati locali. «Il problema non è la moralità dei singoli, alla cui buona fede posso perfino credere, fino a prova contraria. Piuttosto, le amministrazioni immobili - scandisce il presidente dell’Unione industriali Gianni Lettieri - hanno i fondi e non riescono a spenderli. Quando lo fanno, è senza progetti significativi. Prenda il termovalorizzatore, di cui ancora adesso si discute senza realizzarlo. Per il Comune sarebbe un affare, gli consentirebbe di far cassa. Noi abbiamo offerto tutto l’appoggio, anche finanziario, per costruirlo, ma si continua a rinviare. E lo stesso vale per la riqualificazione di Bagnoli o per i quattro milioni e mezzo di metri quadri di proprietà del Comune lasciati in abbandono, o per il Piano regolatore, fermo da quindici anni. Nessuno riflette o si interroga su come vorremmo che fosse Napoli tra dieci anni. E neppure sul giorno per giorno».

C’è però una ragione che, al di là degli sviluppi giudiziari che potrebbero avere il sopravvento, spinge all’arroccamento Bassolino e Iervolino. Se si dimettessero, aprendo la strada a elezioni anticipate, in Campania finirebbe come in Abruzzo, centrodestra al governo, Pd in rovina, fuga in avanti di Di Pietro. «Si lo so, dicono che le elezioni non risolverebbero nulla e non porterebbero personale politico migliore dell’attuale - ragiona Geremicca -. Ma a parte il fatto che noi siamo sempre i migliori e sosteniamo la democrazia quando siamo al governo, pronti a cambiare idea se si profila un ricambio, chi ci dice che tra due anni gli elettori non ci daranno uno schiaffone anche più sonoro di quel che ci aspettiamo? E soprattutto - conclude - chi può assicurare che in questa situazione, in cui è evidente che s’è rotto il rapporto tra governanti e governati, Bassolino e Iervolino ce la faranno a resistere per altri due anni?».

UNA CLASSE DIRIGENTE CORROTTA CHE NON SE NE VUOLE ANDARE

Cosa aspettano ad andare a casa?

Napoli, Pescara, Basilicata. Una classe dirigente corrotta. e che resta attaccata alla poltrona
La bufera giudiziaria annunciata per giorni e giorni da indiscrezioni e boatos è arrivata. Tredici ordinanze di custodia cautelare scuotono il Comune di Napoli: per presunte irregolarità nella delibera del Global service finisce in carcere un big dell’imprenditoria, Alfredo Romeo, che secondo i pm avrebbe fatto in modo di ottenere un appalto «cucito» su misura.

Ai domiciliari due assessori della giunta Iervolino, Ferdinando Di Mezza e Felice Laudadio, e due ex componenti della squadra del sindaco: Enrico Cardillo, che solo pochi giorni fa aveva annunciato l’addio alla politica, e Giuseppe Gambale, già sottosegretario all’istruzione e componente della commissione antimafia. Tra i destinatari delle misure cautelari anche l’ex provveditore alle opere pubbliche della Campania Mario Mautone, e il colonnello della Guardia di finanza già in forza alla Dia Vincenzo Mazzucco, accusato di aver fatto da «talpa» a beneficio degli indagati. E nell’inchiesta spuntano anche i nomi di due politici "nazionali", Italo Bocchino del Pdl e Renzo Lusetti del Pd.
I due parlamentari avrebbero favorito Romeo, e per loro è stata chiesta al Parlamento l’autorizzazione all’uso di intercettazioni che li coinvolgono. Agli arresti domiciliari sono Paola Grattani (sua collaboratrice), Guido Russo (ex funzionario dell’Arpa di fatto collaboratore di Romeo), l’ex assessore comunale all’istruzione ed ex parlamentare Giuseppe Gambale, l’ex assessore al bilancio del comune Enrico Cardillo, gli assessori comunali in carica Ferdinando Di Mezza (sue le deleghe al patrimonio e alla manutenzione degli immobili) e Felice Laudadio (edilizia), l’ex provveditore alle opere pubbliche della Campania Mario Mautone e il colonnello della guardia di finanza già in forza alla Dia Vincenzo Mazzucco. Destinatari di ordinanze sono inoltre Vincenzo Salzano e Luigi Piscitelli.
Ma se, ammettiamo a Milano, un paio di assessori della giunta Moratti venisse arrestata, non chiederemmo le dimissioni del Sindaco? E allora: perchè la Iervolino non se ne va?

Marco

martedì 9 dicembre 2008

che farà Repubblica di fronte alle inchieste giudiziarie che sempre più frequentemente "interessano" il partito di Veltroni?


SE SCOPPIA LA GUERRA TRA REP. E PD
Giampaolo Pansa per "Il Riformista"

Prima o poi, anche Veltroni andrà a incatenarsi davanti a Repubblica, a Roma. Visto il successo mediatico del lucchetto di Leonardo Domenici, sindaco di Firenze, Veltroni farà come lui quando il giornale di Ezio Mauro smetterà di sostenere il Pd con l'entusiasmo di oggi. A quel punto Walter non potrà che lucchettarsi e protestare.
Ma credo che i suoi lamenti non serviranno a nulla.

Schierarsi a favore di un partito non è mai una buona scelta per un quotidiano generalista come Repubblica. Il risultato è un prodotto monocorde, prevedibile, noioso. Quand'anche si scoprisse che il vertice del Pd fa il narcotraffico, i lettori sanno che il giornale non smetterebbe di appoggiarlo. Mentre i fondisti alla Giannini e i rubrichisti come Messina, Longo, Serra e Maltese seguiterebbero a cantare la gloria del partito di Super Walter e a sparare contro il Caimano delle Libertà.
Leonardo Domenici

Tuttavia questo rapporto amoroso non è destinato a durare ancora per molto. L'editore assiste sempre più perplesso al corso politico del proprio giornale. "Repubblica" sta perdendo lettori in misura superiore agli altri quotidiani del suo rango. E non è arbitrario pensare che l'emorragia dipenda soprattutto dal pensiero unico di largo Fochetti.

Tutti gli editorialisti la vedono nello stesso modo e scrivono il medesimo articolo. Le opinioni in contrasto con il coro non sono ammesse. Anche il lettore più distratto sa in partenza che cosa leggerà l'indomani. Un bel guaio in questi tempi di crisi, quando è facile rinunciare all'acquisto di una testata che non ti dà nessun brivido. A cominciare dal brivido dell'imprevisto.

In più oggi "Repubblica" rischia di perdere per strada i lettori di stretta osservanza diessina e adesso democratica. La questione morale sta devastando il Pd. Molte procure hanno aperto indagini su esponenti del partito di Veltroni. Tutte queste inchieste generano verbali e intercettazioni, pane quotidiano per i giornali. La direzione di "Repubblica" non rinuncerà mai a pubblicare quanto hanno scoperto i suoi cronisti giudiziari, eccellenti cani da tartufo. Gettando nello sconforto chi è sempre stato convinto della superiorità etica della sinistra. Ma dallo sconforto al rifiuto di leggere, il passo può essere breve.
Leonardo Domenici

Sto descrivendo uno scenario che in parte abbiamo già sotto gli occhi, grazie alle catene del sindaco di Firenze. In questa vicenda folle, s'intravede quanto avverrà. E che oggi possiamo definire la nemesi non di un potere, ma di due poteri.

Il primo è quello di un giornale diventato l'alleato insostituibile di un partito. Per citare un esempio solo, l'edizione toscana di Repubblica è sempre stata il sostegno robusto dei Ds e oggi del Pd. Non era una scelta obbligata neppure in una regione rossa. Ma così è avvenuto, e non solo per volontà del responsabile dell'edizione, Pietro Jozzelli. Nessun capo redattore può muoversi come si è mosso lui senza il placet del direttore, ossia di Mauro.
Giampaolo Pansa

A Firenze questo ha reso Repubblica un potere alla pari del sindaco Domenici e del governatore toscano Claudio Martini. Dall'alleanza fra il giornale e la sinistra locale è nato un asse informativo-politico che ha reso intoccabile la giunta fiorentina. Ma dopo anni e anni di cordiale amicizia, nelle ultime settimane questo blocco si è rotto su un terreno delicato e scivoloso: l'inchiesta giudiziaria sugli affari edilizi del gruppo Ligresti e sulle presunte connivenze di esponenti del Pd.

Del resto, che cosa poteva fare Repubblica? Lasciare che le carte e le intercettazioni di quell'indagine finissero in bocca alla Nazione e all'edizione fiorentina del Corriere della Sera? Il giornale di Mauro ha deciso di no. E per la prima volta è entrato in conflitto con il Pd, il potere travolto dall'inchiesta giudiziaria.

Il partito di Veltroni si è visto ripudiato di colpo da Repubblica. La crisi da abbandono ha trovato la propria raffigurazione nel sindaco Domenici che s'incatena di fronte al giornale traditore. E urla contro il palazzo dove si è stabilito di lasciarlo alla mercè degli accusatori. Anzi che è diventato uno dei suoi persecutori.
Carlo De Benedetti

Il risultato è uno scontro impari, perché Repubblica, oggi, sembra pronta a sopportare anche cento sindaci rossi in catene. Lo testimonia la replica secca del giornale ai lamenti di Domenici. In poche righe, il palazzo di largo Fochetti ha bollato come «una piccola oligarchia» i dirigenti del Pd fiorentini coinvolti nell'inchiesta. E ha garantito ai lettori che continuerà a scoprire gli altarini della sinistra a Firenze e altrove.

A questo punto gli sviluppi possibili sono due. Il potere perdente, quello del Pd fiorentino e nazionale, potrebbe dichiarare guerra al giornale di Mauro. Per esempio rivelando i retroscena della lunga alleanza fra Repubblica e la sinistra, non solo a Firenze. Ma è un'ipotesi irrealistica, viste le condizioni disastrose del partito di Veltroni.

La seconda ipotesi è che Repubblica, soprattutto per volere dell'editore, dichiari sciolta un'alleanza che ormai può recarle soltanto danno. Se questo accadrà, si riapriranno molti giochi nella stampa italiana, un mondo in crisi per le arcinote ragioni. Dunque, non resta che vedere come finirà.

venerdì 5 dicembre 2008

L'ESPLOSIVA INCHIESTA DI DE MAGISTRIS

dal corriere online

Saladino, spunta l'agenda
con i nomi dei politici
La testimone: «In almeno tre occasioni Antonio mi parlò di incontri avuti con Mancino»


Il pm Luigi De Magistris (Ansa)ROMA — Stavolta a dirlo sono le carte della procura di Salerno e le agende di Antonio Saladino. Luigi De Magistris aveva puntato le indagini verso un intreccio potente di interessi. Un grumo di affari, potere, amicizie eccellenti che metteva d'accordo politici di maggioranza e opposizione, magistrati e imprenditori contigui alla mafia, generali e vescovi con l'aiuto di raffinati tessitori. Per questo le sue inchieste «Why Not», «Poseidone » e «Toghe Lucane» dovevano essere sottratte a lui, frantumate e disperse.

Le accuse
L'inchiesta che scuote il mondo politico e istituzionale fino al Colle riparte da lì. Dalle accuse del magistrato, nel frattempo spogliato delle indagini e trasferito a Napoli. Poi ripercorre il filo delle sue inchieste che si incentrano sulla figura di Antonio Saladino, «punto apicale di Cl e della Compagnia delle Opere della Calabria». E tra i vorticosi contatti spunta il nome del vicepresidente del Csm, che ha sempre sostenuto di aver incontrato Saladino una sola volta nell'85, presentatogli da un giovane candidato alle elezioni. C'è la telefonata «di ben 183 secondi » partita dall'utenza di Mancino e giunta a Saladino, che l'ex presidente del Senato ha precisato venne compiuta da un suo collaboratore. Ma di lui parla anche Caterina Merante, socia di Saladino: la testimone dalla quale è scaturita tutta l'indagine. «Nel corso di questi anni in almeno tre occasioni Antonio Saladino ha avuto modo di riferirmi di incontri da lui avuti con Nicola Mancino, anche quando era presidente del Senato».

Le agende di Saladino
Il 26 febbraio 2008 De Magistris ricostruisce la rete di relazioni di Saladino attraverso la consultazione delle agende che lui stesso aveva sequestrato durante una perquisizione all'indagato. Le agende sono poi state trasmesse alla procura di Salerno. Dagli appuntamenti emerge un quadro molto più ramificato di quanto si era pensato ai tempi dell'indagine su Prodi quando spuntarono i nomi del senatore di Forza Italia Pittelli, di Luigi Bisignani, del generale della GdF Poletti. Saladino aveva rapporti bipartisan. Si va da «La Torre, numero progressivo 04, credo esponente ds molto vicino all'on. D'Alema». Interessante per il pm l'incontro La Torre e Valerio Carducci «collegamento del Saladino con gli ambienti politici romani». Al numero 07 «il generale della Guardia di Finanza Adinolfi. Sul quale — riferisce De Magistris — stavamo concentrando l'attenzione proprio quando è intervenuta l'avocazione». Al numero 09 il nominativo «ritengo, dell'onorevole Minniti». Poi vicino a quello di Carducci. Il 12 luglio appuntamento con Mastella. E un «incontro con un vescovo». Il 26 ottobre «riferimento all'ex ministro dell'Interno Pisanu, all'europarlamentare Sandro Gozi (vicino a Prodi). Nelle agende anche i nomi dei «coniugi Bassolino» (n.85). Il fratello dell'ex ministro Antonio Marzano (96). E dell'attuale ministro Renato Brunetta. Al numero 115 si annota: «Carducci da Corrias/ Alemanno; Pisanu Angelo X Ancitel; Poletti».

I politici
Nello svolgimento delle indagini emergono molti altri politici contattati da Saladino. Si va dall'ex segretario ds Nicola Adamo a Francesco Rutelli, ai presidenti della Regione Calabria, Giuseppe Chiaravalloti e Agazio Loiero, ai quali Saladino promette voti. De Magistris parla anche della società Tesi, «riconducibile alla moglie dell'ex segretario Ds» che aveva avuto commesse nell'informatica, nella sanità e nell'ambiente. In essa figurano «rappresentanti di quasi tutti i partiti politici. Dalle sinistre «alla famiglia Abramo, Sergio già sindaco di Forza Italia, Why not, riconducibile all'epoca a Saladino il quale aveva rapporti di affari stretti e intensi con la cosiddetta Loggia di San Marino e gli ambienti molto vicini al presidente del Consiglio Prodi».
A far scalpore sono però soprattutto le accuse di De Magistris ai colleghi. Non ha risparmiato nessuno. Rammaricandosi anche per il mancato intervento del presidente della Repubblica «un intervento che avevo auspicato pubblicamente». Nelle 1800 pagine di decreto di perquisizione e sequestro, le accuse sono tutte nero su bianco.

Contro i colleghi
Il 12 novembre 2007 De Magistris accusa i colleghi: «Togliendomi Poseidone mi hanno voluto lanciare un messaggio per cercare di fermarmi perché ancora non sapevano ancora del livello che avevano raggiunto Toghe Lucane e Why Not».
Per questo «hanno dovuto accelerare la mia richiesta di trasferimento cautelare e qui si innestano poi, evidentemente, anche delle sinergie istituzionali perché è ovviamente inquietante il silenzio istituzionale sulla vicenda, per esempio, del trasferimento cautelare e in qualche modo il coinvolgimento di Prodi e Mastella (indagati da De Magistris ndr)... Io credo che non si sia mai visto che un Ministro della Giustizia chieda il trasferimento cautelare di un magistrato che indaga sul Presidente del Consiglio di cui lui è ministro e che regge in modo determinante la maggioranza che è un po' fragile e soprattutto che chiede il trasferimento di chi sta lavorando in qualche modo su di lui... e il ministro Mastella lo sapeva benissimo, intercettazioni che lo riguardavano direttamente... quindi vuol dire che necessariamente si è disposti anche a mettere sul tappeto il rischio di una rottura istituzionale sui rapporti tra esecutivo e Magistratura o anche una rivolta dell'opinione pubblica o dei magistrati a fronte di un atto così grave...».

I legami d'affari
Il pm De Magistris denuncia anche legami di tipo affaristico che si consolidano attraverso la costituzione dell'Istituto per il turismo del Sud e la nuova Merchant spa con il supporto della Banca Nuova Spa con sede in Palermo. «È questo il caso della Free foundation for research on european economy».

Virginia Piccolillo

giovedì 4 dicembre 2008

IL CASO ORLANDI - IL LIBRO DI NICOTRI

Lettera di Pino Nicotri a Dagospia

Caro D'Agostino, intanto ti ringrazio per la generosa ospitalità data alla notizia della pubblicazione del mio secondo libro sul caso di Emanuela Orlandi, edito da Baldini-Castoldi-Dalai con il titolo e sottotitolo "Emanuela Orlandi - La Verità - Dai Lupi grigi alla banda della Magliana". Come si ricava già da queste parole scritte a tutto campo in copertina appare chiaro che il libro contiene una disanima della dinamica dei fatti certi, nel senso di documentati in modo inoppugnabile, e non l'esibizione di quanto effettivamente accaduto a Emanuela.

Cosa è accaduto a questa ragazza non lo sa nessuno, oltre alla Segreteria di Stato vaticana, mentre invece è possibile raccontare - ed è ciò che ho fatto io - cosa è stato costruito SOPRA e ATTORNO alla sua sorte grazie a comportamenti e complicità sordide di vario stampo e livello, che hanno avvalorato prima la ridicola e insostenibile montatura del rapimento per uno scambio con il terrorista turco Alì Agca e poi - rivelatasi questa per l'appunto una montatura perfino dopo l'estradizione in Turchia di Agca - cercano di avvalorare l'attuale faccenda che ruota attorno alla banda della Magliana. Un domani, chissà, si darà la colpa ai cinesi, o agli iraniani, o ai pakistani o .... ai marziani.


Emanuela Orlandi

Ho letto con interesse e attenzione su Dagospia una "smentita" alle "tesi di Nicotri" da parte di chi sostiene che la vicenda della Orlandi non è "una storia piccante, di sesso e morbosità da confessionale, di diari segreti o festini curiali". "Smentita" francamente ardua, anzi campata totalmente per aria, visto che io NON sostengo tesi - mi limito a mostrare, in modo documentato e inconfutabile, di che fango sono fatte quelle ufficiali, di comodo - e meno che mai mi permetterei di avvalorare "una storia piccante, di sesso e morbosità da confessionale, di diari segreti o festini curiali".

E' fin troppo evidente che la tua lettrice, Rita Di Giovacchino, NON ha letto il mio libro e neppure il suo sintetico abstract. Se Di Giovacchino vuol fare pubblicità al suo libro, che leggo essere un romanzo, faccia pure, ma senza involgarire il mio, per il semplice motivo che non è né corretto né legittimo farlo. E poiché non è né corretto né legittimo, non sono disposto a tollerarlo, non sono cioè disposto a tollerare l'attribuzione di "tesi" o deliri che non mi appartengono. Vorrei far notare che ho dedicato il mio libro "a Ercole Orlandi padre che molto ha sofferto e al quale molto è stato fatto soffrire". Non intendo certo essere io a farlo rivoltare nella tomba.

Per onestà intellettuale nel mio libro NON nego a priori che la banda della Magliana possa avere avuto un qualche ruolo, magari di aiuto alla montatura stando anche il fatto che a parlare giustappunto di montatura per quanto riguarda il rapimento non sono io, ma i magistrati della Repubblica italiana. I quali, con la sentenza istruttoria del giudice Adele Rando, hanno sgomberato il campo da vari equivoci sostituendoli con alcuni punti fermi:

1) - Emanuela NON è stata rapita per essere scambiata con Agca, e anzi il "rapimento" i magistrati lo vedono come un depistaggio per coprire i reali motivi della scomparsa;


Paul Marcinkus

2) - Mirella Gregori NON c'entra niente con la scomparsa della Orlandi. Capisco che possa dispiacere a "Chi l'ha visto?", che insiste in tv a pestare l'acqua nel mortaio anche su questo "rapimento gemello", ma il giudice istruttore Adele Rando così ha sentenziato, in accordo con il sostituto procuratore generale Giovanni Malerba. E del resto basta leggere la cronaca degli avvenimenti per essere certi che non c'entra niente.

3) - il Vaticano non solo non ha MAI voluto collaborare, ma ha anche mentito e ordinato di mentire. Per esempio, lo ha ordinato al vice capo della sicurezza vaticana ingegner Raul Bonarelli il giorno prima di essere ascoltato come testimone dai magistrati citati. E' per questo dirigente della vigilanza vaticana, non per terroristi turchi o agenti segreti di Mosca e dintorni, che il magistrato ha chiesto uno stralcio per concorso nella scomparsa.

4) - Il compianto vice capo di allora del Sisde, prefetto Vincenzo Parisi, ha testimoniato la propria convinzione che la montatura del "rapimento" NON può essere stata tenuta in piedi senza complicità interne al Vaticano;

5) - Nelle stesse ore il cui papa Wojtyla lanciava i suoi ripetuti appelli, assolutamente straordinari e ancora ingiustificati, ai "rapitori" perché lasciassero libera la ragazza, monsignor Giovanbattista Re, dirigente di una sezione della Segreteria di Stato, rifiutava l'offerta di monsignor Giovanni Salerno di auscultare, lui che si occupava di finanze del Vaticano, i molti ambienti con i quali aveva contatti - dagli ambienti diplomatici in giù (molto in giù... ) - per cercare di capire che fine avesse fatto Emanuela. Ovvero: mentre il Vaticano con la mano destra, cioè con Wojtyla, lanciava appelli buonisti ai "rapitori", con la mano sinistra, cioè con la Segreteria di Stato, se ne fregava bellamente della sorte della "rapita". Deve essere stato in ossequio al precetto evangelico "Non sappia la sinistra cosa fa la mano destra". Eppure da ragazzo questo precetto mi è sempre stato spiegato diversamente....


Emanuela Orlandi

6) - Cosa straordinaria, ma sulla quale si accanisce significativamente il silenzio di tutti un po' - dagli ospiti di Pippo Baudo, e lui compreso, fino a "Chi l'ha visto?" - nessuno chiede ad alta voce come mai il funzionario del parlamento italiano, dottor Gianluigi Marrone, che inviava in Vaticano le rogatorie internazionali dei magistrati italiani desiderosi di interrogare alcuni cardinali, era lo stesso che dal Vaticano, in qualità di suo Giudice Unico, rispondeva "NO!" a quelle sue rogatorie. Cioè a se stesso! E nessuno osa chiedere come mai una sua segretaria, Natalina Orlandi, non abbia mai avuto nulla da eccepire su questo straordinario doppio ruolo, pur essendo lei una sorella di Emanuela.

Sia chiaro: non è necessario dubitare della buona fede né di Marrone né di Natalina perché faccia accapponare la pelle il silenzio di tutti i mass media (anche) su queste straordinarie coincidenze, impensabili in qualunque altro Paese civile. E si badi bene che anche queste coincidenze sono state scoperte e messe per iscritto da magistrati della Repubblica italiana, non da vaneggiatori o pippibaudi di professione. Fa uno strano effetto vedere giornalisti e canali televisivi "di sinistra" accusare il berlusconismo italiano di mettersi sotto i piedi i magistrati e poi dover constatare che loro fanno altrettanto, se non peggio, con i magistrati del caso Orlandi. A cosa si arriva in nome dell'audience, in nome del "mistero" di turno da rifilare all'opinione pubblica, in nome della dura legge "the show must go on!" e in nome del voler baciare la pantofola.

Potrei continuare. A pagina 182 del mio libro c'è l'impressionante elenco delle frottole raccontate e fatte raccontare dal Vaticano: mi sono astenuto dal farne la somma, lasciando libero il lettore di farla lui. Ove volesse. Ove cioè non avesse paura del risultato...

Lo "scoop" di "Chi l'ha visto?" riguardante la tomba di Enrico "Renatino" De Pedis nella basilica di S. Apollinare, contigua all'omonimo palazzo che ospitava la scuola di musica frequentata dalla Orlandi, come può essere considerato uno scoop se si tratta da faccende rivelate già quasi 10 anni prima da Il Messaggero? Per quella strana tomba da principe della Chiesa per un principe del crimine c'era già stata perfino una protesta del sindacato di polizia e della Lega Nord. Atro che scoop a... scooppio ritardato!


Enrico De Pedis

Senza tener conto che nel sito Internet del rettore di quella basilica, don Piero Vergari, si trova tutto il necessario per chi volesse telefonare a "Chi l'ha visto?" per alimentare il "mistero" della tomba di Renatino e della gratitudine di monsignor Poletti.... Se però qualcuno - come in effetti è avvenuto - durante la trasmissione telefona in diretta spacciandosi per "un amico di "Renatino" De Preti", decenza vorrebbe che la conduttrice Federica Sciarrelli e le sorelle Orlandi sue ospiti non facessero finta di non accorgersi che dire "De Preti" invece che "De Pedis" è un infortunio che può capitare solo a un millantatore, o mentitore che dir si voglia, ma certo non a chi ha conosciuto bene quel defunto boss della banda della Magliana.

Per carità, la gentile lettrice Di Giovacchino che si è premurata di smentirmi in nome del suo romanzo è libera di dire e sostenere ciò che vuole. Specie se, come in effetti avviene, trattandosi di un romanzo lo fa come parto della propria o altrui fantasia, cioè senza l'ombra di una prova. Nessuno chiede prove, per un romanzo. E se le tesi - o meglio le ipotesi - della Di Giovacchino e della sua base Sabrina Minardi si riveleranno provate da prove certe, sarò il primo a rallegrarmene, se non altro perché potrò finalmente mettermi l'animo in pace anch'io.

Ma in ogni caso, come che sia, la gentile lettrice non può certo attribuirmi "tesi" o affermazioni, per giunta pecorecce, che non mi sono mai sognato di fare. Anche nel capitolo finale del libro, là dove riporto quanto raccontatomi (non solo) dall'interno del Vaticano riguardo la morte di Emanuela in Salita Monte del Gallo la sera stessa della scomparsa, mi sono premurato di specificare che non ci sono prove a sostegno di quel racconto. Racconto che al mio interlocutore è stato certamente fatto, da due agenti del Sisde a suo dire, ma che non posso sapere se corrisponda a verità.

Concludo facendo notare che Baldini-Castoldi-Dalai ha voluto pubblicare il mio libro nella sezione Saggi. Di fatto, è anche un saggio su come in Italia a volte si faccia (pessimo) giornalismo, cosa che del resto io ho sperimentato sulla mia pelle il 7 aprile 1979 grazie anche a firme "eccelse". Ed è un saggio su come anche ai nostri giorni possa formarsi una "Verità", vale a dire una leggenda metropolitana transcresciuta a Verità, sulla base della nostra cattiva percezione della realtà e del nostro amore per le fughe verso il sogno. Un amore che la Storia ci ha fatto pagare caro più di una volta.

[03-12-2008]

sabato 29 novembre 2008

i soliti due pesi e due misure della giustizia

Mendicante a quattro anni
I giudici: non è schiavitù

«È la tradizione dei rom». Insorge il centrodestra

ROMA — Un bambino rom, anche se di soli quattro anni, che mendica insieme con la mamma, e lo fa soltanto per alcune ore e non per l’intera giornata, non è sfruttato e la mamma non può essere condannata per riduzione in schiavitù. Lasciandosi dietro una lunga scia di reazioni indignate o perlomeno dubbiose, la Cassazione ha così annullato una sentenza della Corte d’Appello di Napoli che aveva condannato Mia, una madre rom scoperta a fare accattonaggio con il figlio.

La polizia aveva sorpreso due volte Mia in una strada di Caserta seduta per terra con un bambino più piccolo in braccio, mentre quello di quattro anni tendeva la mano ai passanti e poi dava alla mamma i soldi. In primo grado la donna era stata condannata a 6 anni sia per riduzione in schiavitù sia per maltrattamenti in famiglia. In appello la Corte non aveva ravvisato i maltrattamenti ma aveva confermato la riduzione in schiavitù e condannato Mia a 5 anni. La Cassazione ha ribaltato tutto: la donna non può essere condannata per riduzione in schiavitù ma soltanto per maltrattamenti in famiglia. La pena sarà inferiore.

Per la Suprema Corte non soltanto Mia non faceva parte «di un’organizzazione volta allo sfruttamento dei minori», ma occorre anche «prestare attenzione alle situazioni reali». Primo: la donna mendicava per povertà. Secondo: mendicava con il figlio soltanto dalle 9 alle 13, quindi non c’è «quella integrale negazione della libertà e dignità umana del bambino che consente di ritenere che versi in stato di completa servitù ». Terzo: non si possono «criminalizzare condotte che rientrino nella tradizione culturale di un popolo». Il mangel, l’accattonaggio usualmente praticato dagli zingari, scrive la Cassazione, per «alcune comunità etniche costituisce una condizione di vita tradizionale molto radicata nella cultura».

Lo fanno adulti e bambini, non c’è da scandalizzarsi. Altroché se c’è da scandalizzarsi, replicano indignate le parlamentari del centrodestra. Per Gabriella Carlucci, vicepresidente Pdl della commissione Infanzia, «la sentenza derubrica a maltrattamenti in famiglia lo sfruttamento dei minori e legittima la riduzione in schiavitù dei piccoli rom». Barbara Saltamartini, componente della stessa commissione, si chiede come sia possibile che «mendicare anche soltanto "part-time" non venga considerata una forma di costrizione per un bambino di quattro anni? Questa sentenza sembra obbedire ad una logica ideologica, i bambini rom non sono bambini di serie B».

Nel centrosinistra non si grida allo scandalo ma neppure si giustifica la teoria messa in piedi dalla Cassazione. «Questo è veramente un caso di relativismo etico — dice la parlamentare del Pd Livia Turco —. Io capisco lo sforzo che hanno fatto i giudici per comprendere il contesto, anche culturale, in cui vive quella famiglia rom ma questo sforzo non può portare ad accettare una condizione che è contraria ad ogni valore comunemente condiviso in difesa dei diritti dei bambini». Stessa certezza per la vicepresidente Pd della bicamerale Infanzia, Anna Serafini. «È ovvio che non ci troviamo di fronte ad un’organizzazione criminale che sfrutta i minori. Ma anche in questo caso c’è un interesse superiore del bambino che non possiamo dimenticare. È il suo diritto a non vedersi privato dell’infanzia e sottratto alla scuola».

Mariolina Iossa

domenica 23 novembre 2008

SOTTO INCHIESTA META' DELLE UNIVERSITA' ITALIANE


SOTTO INCHIESTA META' DELLE UNIVERSITA' ITALIANE
da il Giornale online

Gian Marco Chiocci
Luca Rocca

Roma - Concorsi farsa, parentopoli, baronati, esami venduti, test fantasma, appalti, sesso per un trenta senza lode. Ecco tutte le inchieste avviate sulle università da parte di procure, giudici contabili, tribunali amministrativi. Nonché istruttorie «interne» avviate dagli stessi atenei, rivelazioni degli studenti anti-baroni. Una trentina di fascicoli aperti su un totale di 66 atenei in Italia. Vuol dire che praticamente la metà delle università in un modo o nell’altro è coinvolta in uno scandalo.

martedì 11 novembre 2008

FACCIAMO SALTARE IL TAPPO GENERAZIONALE!!!


Italia, un Paese da sbloccare
dove non crescono i giovani leader

ETTORE LIVINI


Italia, un Paese da sbloccare dove non crescono i giovani leader

Barack Obama

Nell'era di Barack Obama, in un mondo dove gli equilibri geopolitici di dieci anni fa sono già materia per storici, l'Italia si conferma l'angolo d'Europa più allergico al ricambio della propria classe dirigente. Abbiamo l'Oscar per i leader politici più vecchi (il 49,6% ha più di 71 anni, contro una media del 30% per il resto del continente).

Le poltrone che contano nel campo dell'arte e della cultura sono occupate da un'élite con i capelli bianchi, età media vicina ai 70 anni. Tutti mondi dove le donne - tra l'altro - rimangono una minoranza da Wwf. L'anagrafe, certo, non è l'unica unità di misura per calcolare la qualità di un estabilishment. "Il capitale sociale di esperienze accumulato negli anni è un bene prezioso" ammette Nadio Delai, sociologo, presidente di Ermeneia e coordinatore del Rapporto Luiss 2008 "Generare classe dirigente". L'Italia però ha una cronica tendenza ad abusarne. Il 45,2% dei cosiddetti leader tricolori - i numeri uno di politica, economia, professioni e istituzioni - è ultrasettantenne, contro il 31% della Gran Bretagna e il 28% della Spagna. Un tappo generazionale.

Una gerontocrazia autoreferenziale che non piace al paese (il 73% degli italiani - dice la Luiss - la ritiene irresponsabile, il 68% incompetente, il 79% poco innovativa) e che fatica ad assumersi responsabilità reali.

"È un'elite sui generis - è l'amara fotografia di Delai - attenta a tutelare i suoi diritti ma che tende a sfuggire ai propri doveri, visto che solo il 3% di loro si riconosce davvero come classe dirigente".

Generalizzare, naturalmente, è come sempre sbagliato. In Italia esistono qua e là timide oasi dove il ricambio generazionale del paese marcia a ritmi simili a quelli del resto del continente. Il sistema delle imprese, ad esempio, sta provando un passo alla volta a svecchiare la propria carta d'identità. "Il nostro mondo la sua parte la sta facendo - dice Federica Guidi, presidente dei Giovani imprenditori di Confindustria - Abbiamo fatto saltare il tabù di genere, nominando due donne alla guida delle organizzazioni di categoria. E ci sono molte aziende che hanno rinnovato, ringiovanendoli, i propri vertici".

Certo qualche nodo resta: il timone delle aziende tende spesso a passare di padre in figlio (o figlia). Il vecchio capitalismo di relazioni nato attorno a Mediobanca - anche se un po' segnato dal tempo - è tutt'altro che morto. Il 50% delle imprese del Belpaese però - calcola Banca d'Italia - ha cambiato tra il 2002 e il 2006 il proprio management e gli amministratori delegati under 55 (qui da noi poco più che bamboccioni) sono saliti dal 29 al 44%, avvicinandosi alla media europea. E se a livello nazionale la quota rosa di imprenditrici è ancora bassa - il 17,3% del totale, metà della Francia e un terzo della Gran Bretagna - tra i dirigenti sotto i 35 anni la percentuale uomini-donne è un promettente 50-50.

"Le medie aziende che hanno sfidato la globalizzazione - ammette anche Delai - sono assieme a qualche scheggia di amministrazione locale e a un pezzo del sociale uno dei crogioli più interessanti per la formazione di un nuovo estabilishment".

La buona volontà di pochi però non basta. "I blocchi strutturali del sistema paese rendono difficile lavorare anche a noi - continua Guidi -. Il sistema è ingessato. I giovani faticano a emergere. L'egualitarismo ereditato dal '68 è superato. D'accordo, un po' di tutele devono rimanere e tutti devono essere messi in uguali condizioni di partenza. Ma poi bisogna rendersi conto che oltre ai diritti ci sono anche i doveri e il sacrificio. È una rivoluzione culturale che deve iniziare dalla scuola. Conta il merito".

Una tesi magari condivisibile. Ma se dalla grammatica si passa alla pratica, nemmeno i supermanager pensano che la svolta sia dietro l'angolo: il 96,7% della classe dirigente italiana (contro il 79,9% del resto della popolazione) è convinta che una società più meritocratica farebbe migliorare il paese. Ma un altrettanto plebiscitario 84,7% (contro l'80,6) ammette rassegnato che le raccomandazioni qui da noi contano ancora molto di più delle capacità del singolo. "E non è solo questo - dice Delai -. Il merito da solo non basta. Serve magari a far soldi, ma per forgiare una vera classe dirigente deve essere abbinato a una reale sensibilità per l'interesse collettivo".

Se l'economia si muove al ralenti nella sua battaglia contro la gerontocrazia, la politica se possibile, va addirittura in retromarcia. Cambiano i partiti ("quelli di una volta almeno contribuivano al ricambio generazionale con ottime scuole interne", rimpiange Delai), si mescolano le maggioranze e gli uomini (il ricambio parlamentare è stato in media vicino al 50% a legislatura) ma la cooptazione conta sempre più del valore. E a decidere, alla fine, sono sempre i soliti noti. L'ultima legge elettorale - quella che elimina le preferenze - è il capolavoro che cristallizza in una norma lo strapotere di questa gerontocrazia ingessata: nel 2006 il 75% dei parlamentari è stato ricandidato, di gran lunga la percentuale più alta delle ultime quattro elezioni. E il 33% dei trombati al voto, secondo i calcoli della Luiss, è stato riciclato in poltrone alternative di municipalizzate o enti locali.
Le energie per il ricambio, a guardare le statistiche, non mancherebbero. L'Italia - dicono tutti i sondaggi - ha mantenuto intatta la sua fiducia nelle istituzioni a livelli simili a quelli di Francia e Gran Bretagna, malgrado il vento dell'anti-politica.

"Il passaggio generazionale non si costruisce però solo macinando master in serie all'estero - conclude Delai -. La nuova classe dirigente impara a crescere solo lavorando vicina alla vecchia. Il trapianto tout court della società civile nei palazzi romani è un esperimento che non ha funzionato". Le contaminazioni virtuose tra il meglio del paese e le sue istituzioni in effetti faticano a decollare, imprigionate nella logica perversa della leadership di relazioni e della cooptazione. "Nel resto del mondo l'ingresso in politica è considerato l'apice per una carriera manageriale o universitaria - dice Andrea Sironi, giovane professore della Bocconi e fino a pochi giorni fa prorettore per l'internazionalizzazione dell'università milanese -. Succede in Francia con l'Ena, o a Londra dove primo ministro è un ex rettore come Gordon Brown. Qui invece gli accademici migliori snobbano la politica e i ministri sono spesso cresciuti nelle segreterie di partito...".

E in un momento in cui la crisi finanziaria sta riaprendo le porte di imprese e banche allo stato, il rischio è che il tappo generazionale che grava sull'Italia, invece che saltare, consolidi la sua presa sulla stanza dei bottoni del paese.