giovedì 18 dicembre 2008

IL REGIME NAPOLETANO DI SINISTRA PRONTO AL CROLLO?


da La Stampa Online
La rabbia di Napoli
"Qui la sinistra ha creato un regime"

E il Pd ora teme che il ciclone si abbatta sul Campidoglio
MARCELLO SORGI
INVIATO A NAPOLI
E se adesso toccasse a Roma? La domanda nessuno la fa a voce alta. Ma la paura è dipinta sulle facce dei politici che sfilano sulle tv locali. Con Napoli, l'accerchiamento è completo. Dopo la Liguria, la Toscana, l'Abruzzo, la Basilicata, la Calabria, il timore che una nuova inchiesta presto punti diritto al quartier generale del Pd cresce di ora in ora, alimentato dal coinvolgimento del parlamentare Lusetti (insieme al collega di An Bocchino) nell’indagine sul «Global service» partenopeo, dalla vicinanza di Lusetti a Rutelli (i nomi dell’ex vicepresidente del consiglio e dell’ex ministro Fioroni compaiono nelle carte giudiziarie), e dalle mille voci che dicono che anche nella Capitale il lungo quindicennio del centrosinistra alla guida del Campidoglio potrebbe entrare a breve nel mirino della magistratura.

Napoli come anticamera di Roma. Napoli come paradigma del degrado amministrativo del centrosinistra, che qui è esploso fragorosamente con il disastro della monnezza, ma anche altrove, come s’è visto, funzionava (o non funzionava) allo stesso modo. «In un certo senso la questione giudiziaria non è la cosa più importante - spiega Andrea Geremicca, a lungo vicesindaco ed assessore nella prima stagione delle giunte di sinistra, e oggi a capo della Fondazione «Mezzogiorno Europa» - non perché non sia grave l’arresto di alcuni assessori o il suicidio, prima dell’arresto, di uno di loro.

Ma in termini politici, tutto era già avvenuto prima. La crisi dei partiti. Le guerre tra gruppi e correnti, ai quali i leader nazionali hanno lasciato mano libera, all’interno del Pd neonato. E poi il distacco assoluto della politica dalle istituzioni, l’assenza di discussione, la mancanza di mobilitazione dell’opinione pubblica, la degenerazione del leaderismo, l’asfissia del ricambio della classe dirigente».

Dicono che in questi giorni i membri della nomenclatura napoletana vivano un po’ come quelli sovietici negli anni dello stalinismo: quando sentivano bussare alla porta al mattino, non potevano sapere se a suonare il campanello fosse il lattaio o le guardie venute per arrestarli. Molto più di Genova, Pescara, Potenza o Reggio Calabria, Napoli è da sempre, per definizione, un caso nazionale. La rivoluzione dei sindaci, in fondo, era partita da qui.

La caduta del vecchio sistema qui era stata più fragorosa che altrove, con l’improvvisa cancellazione dei «signori della miseria» che per decenni avevano prosperato sulla disperazione del Sud. Oggi resta ben poco del Rinascimento napoletano che aveva fatto risplendere la città, con Piazza Plebiscito liberata finalmente dal traffico e dalle auto in terza fila, nei giorni lontani del G7 del ‘94. La crisi nel rapporto tra istituzioni sorde e società civile indifferente, rassegnata, l’ha denunciata con forza il cardinale Sepe, forse l’unica autorità riconosciuta e anche il solo che dal pulpito e nelle strade cerca di ricostruire una rete di valori.

Il magistrato-intellettuale Raffaele Cantone, a lungo impegnato contro il clan dei casalesi, la sua personale e reale Gomorra, che lo costringe a vivere sotto scorta, non vorrebbe parlare. Chiarisce che non può esprimersi sulla portata di inchieste a cui non ha preso parte. Ma aggiunge: «La caduta di credibilità della classe dirigente si era già consumata del tutto sulla questione della monnezza. Quando le istituzioni locali, a qualsiasi livello, hanno dimostrato di non essere in grado di porre rimedio a un problema così grave e per così lungo tempo, gettando la cittadinanza nel degrado e mettendone a rischio la salute, si sono giocate insieme prestigio e fiducia».

Né vale il tentativo di Bassolino (e oggi del sindaco Iervolino) di resistere e tentare di recuperare, sull’onda della drastica ripulitura militare ordinata da Berlusconi. «Bassolino può pure aspettare, illudersi che l’indifferenza di una società civile presa politicamente a martellate possa consentirglielo, ma sbaglia a non riconoscere che il suo ciclo s’è chiuso - accusa Biagio De Giovanni, filosofo di fama mondiale, coscienza critica della sinistra napoletana, titolare della cattedra Jean Monnet di storia dell’integrazione europea all’Istituto Orientale - l’idea che l’attesa sia obbligata, per consentire la nascita di una classe dirigente alternativa all’interno del centrosinistra, non sta in piedi.

L’alternativa non è nata perché negli ultimi anni qui c’è stato un regime. Un potere asfissiante in cui, a cominciare dall’interno della sinistra, ogni voce dissonante, ogni critica, ogni obiezione veniva tacitata, con le buone o con le cattive». Consulenze a pioggia. Professori di quelli che scrivono editoriali sui quotidiani assoldati nei think-thank pubblici con stipendi di decine di migliaia di euro. Molte chiacchiere, molti annunci, molte incompiute, quasi nessuna realizzazione.

E se oggi la Iervolino è riuscita a mettere insieme contro di sé, tutti insieme, la Curia, l’Unione Industriali, buona parte degli intellettuali e l’insieme dei giornali locali, non dipende solo dalle avversità degli ultimi tempi. Ma dall’assoluta inefficienza di un’amministrazione paralizzata dai veti interni e dal braccio di ferro tra «cacicchi» e potentati locali. «Il problema non è la moralità dei singoli, alla cui buona fede posso perfino credere, fino a prova contraria. Piuttosto, le amministrazioni immobili - scandisce il presidente dell’Unione industriali Gianni Lettieri - hanno i fondi e non riescono a spenderli. Quando lo fanno, è senza progetti significativi. Prenda il termovalorizzatore, di cui ancora adesso si discute senza realizzarlo. Per il Comune sarebbe un affare, gli consentirebbe di far cassa. Noi abbiamo offerto tutto l’appoggio, anche finanziario, per costruirlo, ma si continua a rinviare. E lo stesso vale per la riqualificazione di Bagnoli o per i quattro milioni e mezzo di metri quadri di proprietà del Comune lasciati in abbandono, o per il Piano regolatore, fermo da quindici anni. Nessuno riflette o si interroga su come vorremmo che fosse Napoli tra dieci anni. E neppure sul giorno per giorno».

C’è però una ragione che, al di là degli sviluppi giudiziari che potrebbero avere il sopravvento, spinge all’arroccamento Bassolino e Iervolino. Se si dimettessero, aprendo la strada a elezioni anticipate, in Campania finirebbe come in Abruzzo, centrodestra al governo, Pd in rovina, fuga in avanti di Di Pietro. «Si lo so, dicono che le elezioni non risolverebbero nulla e non porterebbero personale politico migliore dell’attuale - ragiona Geremicca -. Ma a parte il fatto che noi siamo sempre i migliori e sosteniamo la democrazia quando siamo al governo, pronti a cambiare idea se si profila un ricambio, chi ci dice che tra due anni gli elettori non ci daranno uno schiaffone anche più sonoro di quel che ci aspettiamo? E soprattutto - conclude - chi può assicurare che in questa situazione, in cui è evidente che s’è rotto il rapporto tra governanti e governati, Bassolino e Iervolino ce la faranno a resistere per altri due anni?».

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