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venerdì 12 agosto 2011

I MENÙ A PREZZI STRACCIATI DELLA CASTA CHE INTEGRIAMO CON LE NOSTRE TASSE


dal Corriere online

Pasta, patate e zucchine: 2 euro a deputato

Ora tocca al menu di palazzo Montecitorio dopo che Schifani è intervenuto per frenare l'ira del web

Pasta, patate e zucchine: 2 euro a deputato
Ora tocca al menu di palazzo Montecitorio dopo che Schifani è intervenuto per frenare l'ira del web
Il deputato Carlo Monai (Idv)
Il deputato Carlo Monai (Idv)
MILANO
- Dopo aver divulgato il menu di palazzo Madama ora il web butta in pasto al pubblico anche la carta del ristorante di Montecitorio. E se Sparta piange Atene non ride. Anche alla Camera si mangia a «prezzi stracciati». E ovviamente il prezzo pagato dagli avventori non basta a pagare le spese.

ALLA CAMERA- Qualcuno - dopo quello del Senato - ha trafugato materialmente anche un menu del ristorante dei deputati e lo ha pubblicato tale e quale. A Montecitorio i prezzi sono più alti ma niente a che vedere con quelli che tutti i giorni si vedono al supermercato. Qualche esempio: un piatto di pasta varia dai 2 euro, quella con patate e zucchine, ai 5 e 30 del risotto con gamberi e pachino. Quanto costerebbe questo piatto al ristorante? Non meno di 12-15 euro. Esattamente un terzo. E via di questo passo con i secondi che variano dai 4 euro di una leggera insalata di pollo ai 5 e 30 del carrè di agnello al forno. Insomma prezzi fuori mercato.
QUANTO CI COSTA - Al Senato per ogni coperto del ristorante si deve raddoppiare la cifra corrisposta dai commensali. L'operazione costa circa 1.200.000 euro l'anno. Una realtà svelata dal deputato dell'Idv Carlo Monai al settimanale l'Espresso. Il web ne riprende la foto del menu: apriti cielo. Risultato su Corriere.it: in trecentomila hanno preso visione dei privilegi a tavola dei senatori italiani e una parte ha inondato il nostro sito, e blog vari, di commenti ironici e furiosi. Un coro: «Tutti a mangiare al Senato!». Un successo mediatico. Tant'è che a fine serata il presidente del Senato Renato Schifani ha fatto sapere che i prezzi della ristorazione interna verranno presto adeguati ai costi effettivi. Intanto però sarebbe utile sapere da quando saranno «attualizzati» i prezzi. Anzi, ancora più importante sarebbe annunciare i sacrifici che si chiedono agli italiani contemporaneamente a quelli che farà la «casta». Vedremo .
Clicca per vedere il menu di Montecitorio
Clicca per vedere il menu di Montecitorio
I POLITICI - Ma non è solo il web a indignarsi. «Rinnovo la mia proposta al collegio dei questori del Senato di rinunziare agli alloggi di servizio e di trasformare tutti gli attuali centri di spesa del Senato (ristorante, buvette, barberia (gratis, ndr), spaccio, banca, infermeria) relativi ai servizi resi ai senatori e agli ex-senatori a prezzi politici in centri di utili, affidando con regolare gara a società esterne qualificate i servizi stessi da pagare, da parte dei parlamentari ai prezzi correnti di mercato» Queste non sono le parole anonime di un commentatore su Internet bensì pensieri «pesati» di un membro della commissione Affari Costituzionali: il senatore pidiellino Raffaele Lauro. E allora da dove iniziare? Forza web: «Auto blu, voli blu, tassi del mutuo scontati, occhiali gratis, psicoterapia pagata, massaggi shiatsu, balneoterapia, cure termali...». Intanto il direttore del Corriere della Sera, Ferruccio de Bortoli, lancia una proposta via twitter: @DeBortoliF: «Chiudere i ristoranti di Camera e Senato e dare ticket agli onorevoli»

sabato 29 maggio 2010

LA COOP BOICOOPTA

CARRELLO I(COOP)RITA: LA COOP E LA CAMPAGNA ANTIISRAELIANA MASCHERATA

dal Corriere Online

La Coop e l’iniziativa anti-Israele (rientrata)

Quando sotto l’etichetta
si cela il boicottaggio

Dietro la «tracciabilità» una campagna mirata contro uno Stato
di Pierluigi Battista
Nell’Italia che gioca e minimizza con le parole, un boicottaggio prende le forme di un’aggrovigliata questione di «tracciabilità», e una campagna mirata all’ostracismo politico ed economico di uno Stato diventa un banale problema di etichetta, un diverbio a distanza sui prodotti a denominazione di origine controllata.

E invece la guerra Coop (e Nordiconad) contro i prodotti israeliani dell’Agrexco si è rivelata nel giro di poche ore per quello che era: un caso politico, una disputa che al boicottaggio ha sommato un’inedita minaccia di contro-boicottaggio. Altro che «tracciabilità». Ora, stipulato l’accordo (o la tregua), i prodotti ortofrutticoli tornano sui banconi della Coop. La quale Coop ha trovato stavolta in Internet, nei blog, nei social network, un ostacolo insormontabile per la sua strategia di minimizzazione. Dicevano che non era «boicottaggio», che era solo una questione di precisione e di lealtà di mercato, che i clienti dovevano sapere che dietro il «made in Israel» c’erano anche i prodotti raccolti e lavorati dal gigante agro-alimentare Agrexco nei Territori occupati che, come è noto, non sono ancora uno Stato palestinese, ma sicuramente non sono Stato di Israele. Però l’Agrexco ha ribattuto che quei prodotti coprivano solo lo 0,4 per cento del totale e che se c’era da adeguare l’etichetta ai canoni fissati dalle norme Ue, allora non avrebbero opposto alcun impedimento. E allora, c’era bisogno che la Coop stilasse un annuncio tanto impegnativo, nientemeno che la liberazione dei propri scaffali dai prodotti israeliani, alcuni di incerta origine? Non potevano rivolgersi direttamente all’Agrexco, come poi è stato fatto, ma solo dopo l’improvvido, e catastrofico, annuncio del boicottaggio? E poi, sicuri che non era proprio, esattamente «boicottaggio»?

I responsabili della Coop dicono di no, che non è mai stato boicottaggio. Ma poi si scopre che sul sito dell’ong «Stop Agrexco» ci si compiaceva nei giorni scorsi per «l’importante risultato della campagna di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni» (tutto con le maiuscole) «contro l’apartheid israeliano». Solo una «questione di etichetta» o quell’accenno all’ «apartheid israeliano» non denuncia forse un’intenzione politica un po’ meno, per così dire, tecnicistica? «Boicottaggio», ecco comparire, ripetutamente e ossessivamente dai suoi promotori, la parola proibita. Così come compare, sullo stesso sito, la sequenza di azioni dimostrative che in un paio di mesi hanno vigorosamente convinto la Coop ad adottare improvvisamente la decisione ora rientrata: manifestazioni ai supermercati Coop di Largo Agosta e di Via Laurentina a Roma; manifestazioni davanti alla Coop di Pisa, Coop Italia di Casalecchio di Reno, davanti alle Coop di Pesaro e Jesi tramite l’organizzazione «Campagna Palestina Solidarietà Marche», e così via. Molto spesso comparivano volantini in cui si deplorava «il governo israeliano che si è ripetutamente macchiato di crimini contro la guerra e l’umanità». Sempre compariva la parola proibita, «boicottaggio»: quella che la Coop ha sempre negato, quella che basta dare un’occhiata a un po’ di filmati presenti sull’ubiqua e onnipresente YouTube per scoprirne il marchio «Boycott!», con i militanti che indossano la stessa maglietta inneggiante alla «Palestina libera», le stesse scene degli scaffali con i prodotti israeliani presi di mira, lo stesso linguaggio molto aggressivo.

La strategia della minimizzazione, lo sradicamento della parola «boicottaggio» dal lessico della Coop, non hanno retto stavolta alle reazioni che hanno avuto soprattutto sui blog il loro canale di informazione: in modo «trasversale», sia sulla destra che sulla sinistra. Una sinistra che, in un'accorata lettera aperta firmata tra gli altri da Furio Colombo, Emanuele Fiano e Gianni Vernetti, si è interrogata stupefatta sulle ragioni che hanno indotto un’organizzazione «progressista» come la Coop ad assecondare la campagna anti-israeliana, sottovalutando l’impatto emotivo, e il risveglio di memorie orribili, dell’estromissione dei prodotti «ebraici» dagli scaffali di un negozio. Una destra che ha visto Fiamma Nirenstein tra i principali artefici del contro-boicottaggio e che tramite il ministro degli Esteri Frattini si è espressa con un aggettivo, «razzista», dal sapore inequivocabile. Su Facebook sono nati gruppi denominati «Coop boicotta i prodotti di Israele? Noi boicottiamo la Coop» e «Io non compro né alla Coop né alla Conad» che hanno raccolto miglia di adesioni. È comparsa addirittura la tragica foto della sorridente italiana del 1938 che spensieratamente esibisce il cartello «Questo negozio è ariano» sulla vetrina della sua bottega. Si sono scritte lettere aperte a Luciana Littizzetto, testimonial della Coop. La reazione comunicativa della Coop non ha funzionato, a cominciare dalla rassicurante pagina di pubblicità acquistata sui giornali per allontanare dal marchio Coop il fantasma del «boicottaggio ». Oggi si sigla, obtorto collo, un accordo con l’Agrexco. E lo schieramento anti- boicottaggio si ritrova, bipartisan, per un’ultima manifestazione di protesta davanti a un supermercato Coop. Un clamoroso autogoal, nel migliore dei casi. Una ferita aperta con una parte dell’opinione pubblica che non si riconosce nella martellante campagna anti-israeliana

Pierluigi Battista

sabato 13 giugno 2009

GHEDDAFI: MITOGRAFIA ICONOGRAFICA DI UNA VECCHIA ROCKSTAR DELLA POLITICA

Maurizio Crippa per "Il Foglio"

La camicia rosa con stampate le foto di Nasser e Mandela sfoggiata durante un precedente incontro, in Libia, con Berlusconi meriterebbe di stare al MoMa. Fedele al personaggio ma in preda a un continuo cambio degli abiti di scena, Gheddafi ha trasformato l'iperbole kitsch del suo abbigliamento in un messaggio vivente. Ha le
rughe scavate da una vita spericolata, i capelli tinti e il cerone spalmato come una
vecchia rockstar che non vuole mollare la scena.


GHEDDAFI E DINI

Ma Gheddafi non è un fenomeno di folklore. E' politico scafato che ha trasformato il suo corpo in un fenomeno di comunicazione pop. E' andato molto oltre la dimensione tristanzuola e impiegatizia dei tanti dittatori in divisa, caricature postcoloniali come Amin Dada o Fidel Castro. E' un'esplosione barocca, ha la dimensione global-trash delle pop star.


GHEDDAFI ALLA SAPIENZA CON IL RETTORE FRATI

Il suo africanismo posticcio lo fa sembrare uno Youssou N'Dour in versione tamarra, qualcosa col sapore meticcio del rock maghrebino. Un Iggy Pop del deserto, un Ozzy Osbourne versione "A portrait of el-Qaddafi as a rockstar". Un ritratto del Colonnello come
fosse una rockstar, questo ci vorrebbe; dove el-Qaddafi sta per Gheddafi in una delle trentasette grafie ufficiali o taroccate ammesse nel culto della personalità del Fratello Guida della rivoluzione.

Quella esatta sarebbe Mu‘ammar Abu Minyar al-Qadhafi, ma la Grande Jamahiriyya è più che altro uno scioglilingua, un neverending show, come il "prisencolinensinainciusol" di Celentano. Ecco, Celentano: se Gheddafi ha un parente in Italia, è il Molleggiato. Con
buona pace dei radicali che gli preferiscono quel noioso santone da conferenza del Dalai Lama - e infatti nessuno lo vuol ricevere, mentre per lui c'è la fila come per Obama - Gheddafi è una vecchia rockstar che tiene ancora il palcoscenico.



Berlusca e Gheddafi

Malmessa e un po' patetica, ma ancora trasgressiva quel tanto che basta da rubare la scena a qualsiasi azzimato capo di stato che gli capiti a tiro. Un personaggio che se da un lato appartiene a buon diritto ai disastri della storia politica mondiale, dall'altro è entrato da tempo in una dimensione diversa. Gheddafi è un problema d'immagine. Dunque è assai attuale. Anzi, è un precursore.

Ha attraversato vari e variopinti periodi, come un Picasso arabo. Il kaki militare simbolo della lotta anticoloniale, come nella storica foto in divisa da colonnello tra Sadat e Assad, a Bengasi. Il trench da malmesso studente fuorisede, in una stanza piena di libri. Fino alle camicie a colori stampati che stanno alla divisa mimetica come i maglioncini di Marchionne alla cravatta, dicono la vicinanza del leader al popolo. Le camicie batik, retaggio africano, le aveva lanciate Mandela.


GHEDDAFI SCORTATO

Ma Gheddafi ne ha dato un'interpretazione pop e transpolitica, trasformandole in un tatuaggio vivente. La camicia rosa con le foto di Nasser, Hailé Selassié e Mandela che aveva la volta che incontrò Berlusconi sarebbe da esporre al MoMa in permanente. A volte ha le scarpe da ginnastica e la tuta, altre il cappello di pecora da pastore della steppa. Le sgargianti tuniche africane e i mantelli beduini sono venuti con la svolta dal panarabismo al panafricanismo.

Ma come ogni vera star del rock, ha una passione per i copricapi - africani, beduini, berberi - e per gli occhiali da sole, assurdi come nemmeno Lapo Elkann li ha. Ma non è solo folklore terzomondista, è di più. Se non altro perché lui, a differenza di tanti colleghi, è perfettamente cosciente della sua messinscena e padrone dei suoi registri comunicativi.

Gheddafi è diverso, è andato molto oltre la dimensione tristanzuola da impiegatucci del potere dei tanti dittatori in divisa, caricature postcoloniali come Amin Dada o Fidel Castro. Castro sì che è invecchiato male, si fa vedere con la tuta e la barbetta tagliata dall'infermiera come un pensionato all'ospizio. Del resto, mica tutti hanno il culo di farsi ammazzare sulla Sierra intanto che passa di lì uno a farti un paio di scatti immortali.

Il Che, quello sì che aveva stile.


GHEDDAFI E NAPOLITANO

E anche Gheddafi, del resto. Lui è un'esplosione barocca, cosmopolita, accumulativa.
E' da tempo entrato in una dimensione global-trash delle pop star, ha fatto del kitsch terzomondista-panafricano-panarabo una cifra iperbolica. Qualcosa che oltrepassa l'Africa come i container con le merci da due soldi cinesi. Ha una dimensione african-pop che lo avvicina a uno Youssou N'Dour in versione tamarra, qualcosa che ha il sapore meticcio del rock maghrebino.


GHEDDAFI A ROMA

Un Iggy Pop del deserto. Un Ozzy Osbourne versione raï. Comunicazione per tempi primitivi, ritualità da grandi masse. raï. Prima scopiazzava Nasser, poi ha scoperto che è meglio trasformarsi in un'icona pacifista come gli U2. In primo piano sembra Keith Richards, le stesse rughe scavate con lo scalpello di una vita da canaglia, vecchi malvissuti fortunati. Meriterebbe anche lui di essere fotografato da Annie Leibovitz.

2 - Gheddafi: "Per le donne serve una rivoluzione culturale - Nel mondo islamico è come un mobilio che si può cambiare quando si vuole"
Testo e foto da Corriere.it

«Nel mondo arabo e islamico la situazione delle donne è orrenda e incita alla rivoluzione». Gheddafi ha affrontato il tema della questione femminile, a suo modo, durante l'intervento all'Auditorium della musica nel corso dell'incontro con il ministro per le pari opportunità Mara Carfagna e un migliaio di donne rappresentanti del mondo dell'imprenditoria, delle istituzioni e della politica.



BERLUSCA E GHEDDAFI

Prima ha osservato che serve una «rivoluzione culturale» e poi ha detto che nel mondo islamico la «donna è come un mobilio che si può cambiare quando si vuole. Nessuno chiederà perché lo hai fatto». «Io sono a fianco della donna a livello del mondo - ha aggiunto Gheddafi - e vedo che ha ancora bisogno di una rivoluzione. Non dobbiamo sopraffarla, deve prendere gli stessi diritti dell'uomo».

«LEGGETE MATILDE SERAO» - «Ho visto donne molto grandi nella storia d'Italia. Tra queste Matilde Serao che ci ha lasciato più di quaranta libri» ha poi detto il leader libico. «Conoscete la storia della fioraia morta tra i fiori?» ha chiesto Gheddafi, aggiungendo «cercatela e leggetela. Se non ce l'avete vi mando il libro». Il colonnello ha poi cambiato completamente genere e tra le donne italiane famose ha citato Claudia Cardinale.

lunedì 19 gennaio 2009

da DAGOSPIA, er mejo sito che ci sia!

VELTRONAL VA NEL POLLAIO DI NAPOLI E D’ALEMA ORGANIZZA UN CASINO CON CASINI PER SANCIRE LA FINE DELLA GIUSTIZIA “fai da te” grazie al quale giudici e pm si son sempre amministrati le carriere e le sanzioni disciplinari tra di loro…


Walter Veltroni e Massimo D'Alema

Laura Cesaretti per Il Velino

Veltroni oggi sarà a Napoli, alle prese con un partito lacerato e un'eredità pesante di quindici anni di governo di centrosinistra. Ci saranno, a sentirlo, anche Antonio Bassolino e il sindaco Rosetta Iervolino, la cui permanenza in carica è stata difesa dagli ex popolari alleati del segretario (Fioroni e Franceschini) causando la rottura tra Veltroni e il suo luogotenente napoletano Nicolais, dopo le cui dimissioni è stato inviato il commissario Enrico Morando.

Una trasferta non facile, per il leader del Pd. Che però, con l'occasione, sarà lontano da Roma mentre nella capitale si consuma un nuovo segnale di rottura nel suo partito, con il seminario sulla giustizia organizzato da Massimo D'Alema e Pierferdinando Casini. L'incontro sarà a porte chiuse, ma già alla vigilia si capisce che la linea che ne uscirà è molto diversa da quella cauta e prudente scelta dal Pd: non a caso, la magistratura associata è stata esclusa dagli inviti, e i magistrati militanti già sparano a zero sulle proposte messe sul tavolo dai due promotori.

Il segretario dell'Anm Luca Palamara già annuncia che sulla riforma del Csm che viene avanzata è pronto a costruire la "nostra linea Maginot": e si capisce perché, visto che D'Alema e Casini lanciano l'idea di una Alta corte di giustizia, chiamata a giudicare i magistrati, composta da "laici". La fine del "fai da te" grazie al quale giudici e pm si son sempre amministrati le carriere e le sanzioni disciplinari tra di loro-

È probabilmente quello il punto più dirompente e innovativo, quello destinato a scatenare le maggiori polemiche. E soprattutto a contraddire più platealmente la posizione ufficiale del Pd, che si è detto disponibile a discutere di riforme della giustizia a patto di "non toccare la Costituzione", ergo il Csm.

Ed è la maggiore apertura alle posizioni del Pdl (e in particolare a quelle di Berlusconi) che sia arrivata dall'opposizione. Destinata a creare non pochi problemi a Veltroni, che se l'asse Casini-D'Alema andrà avanti su questa strada si ritroverà scavalcato nella trattativa con il centrodestra, che il leader del Pd sperava di poter depotenziare giocando di sponda con la linea "moderata" di Gianfranco Fini, e rompendo il fronte della maggioranza.

Evitando così uno scontro con la magistratura associata e con il suo paladino Antonio Di Pietro che invece, sulle proposte che verranno discusse oggi al seminario di ItalianiEuropei e dei centristi, diventerebbe inevitabile.

sabato 17 gennaio 2009

(SAN) TORO, IL VIOLENTO MARTIRE DELLA CENSURA

La rozza e astiosa cultura stalinista di Michele Santoro ha colpito ancora. Questa volta, però, inaspettatamente, il violento demagogo ha involontariamente socchiuso le porte della sua mente facendoci intravvedere, per un attimo, il suo funzionamento. (g.c.)

Faziosità e allusioni

Se il «martire dell'informazione» diventa mago delle allusioni

Una brutta pagina di tv quella consegnataci l'altra sera da Michele Santoro ad «Annozero». Imbarazzante. La sua faziosità è nota, la decisione di rappresentare una sola parte del conflitto che insanguina la Striscia di Gaza va messa in conto, la sua retorica votata a una sempre più spinta demagogia non è condivisa da molti ma fa ormai parte del panorama televisivo italiano; ciò che è inaccettabile sono le parole con cui ha liquidato Lucia Annunziata. Nel momento in cui l'ex presidente della Rai ha deciso di abbandonare la trasmissione, Santoro le si è rivolto così: «Fai la giornalista, non venire qui a criticare come si fa la trasmissione... O cerchi meriti da qualcuno?».

Dire a un altro che dissente per cercare il beneplacito, magari una cambiale a scadenza, di qualcun altro (e chi poi? Israele? Berlusconi? i vertici del Pd? la Trilateral?) è un'insinuazione di basso livello, intollerabile. Ma le allusioni malevole, specie se dette in un momento d'ira, quando saltano i nervi e si perde il controllo di sé, sono spesso rivelatrici di una filosofia di fondo. Speriamo che all'Annunziata, per ritorsione, non venga ora la tentazione di scrivere una biografia professionale di Santoro nelle vesti di «cercatore di meriti».

Parlare in un talk show di guerra è sempre difficile e di fronte a certe immagini che arrivano da Gaza si resta annichiliti. Non l'imparzialità, si chiede, non il senso della misura ma almeno la possibilità di essere minoranza (pensarla in un modo differente). Con Santoro è impossibile, proprio non le sopporta, le minoranze. Potesse le eliminerebbe. In nome della democrazia, sia chiaro. Con il conduttore schierato, con l'inviato Corrado Formigli schieratissimo, con lo spazio eccessivo concesso ai ragazzi della comunità palestinese di Milano, era difficile per Lucia Annunziata, che pure non era avvolta in una bandiera con la stella di David, sostenere il contraddittorio. Se n'è lamentata, ha semplicemente fatto presente che «qui si presentano al 99,9 per cento soltanto le ragioni palestinesi».

Apriti cielo! Santoro l'ha caricata di insulti, l'ha congedata con un odioso «non sprechiamo tempo», se l'è presa persino con Walter Veltroni invitandolo a rendersi utile, ad andare a Gaza e non in Africa. E al Presidente della Camera Gianfranco Fini che ieri ha telefonato a Claudio Petruccioli per denunciare «il livello di decenza» superato in trasmissione, Michele Santoro ha risposto sul suo sito con strafottenza, sotto la rubrica «VAF» (acronimo di Valutazione A Freddo): «In un Paese normale il livello della decenza lo supera un Presidente della Camera che, travalicando i suoi compiti istituzionali, interviene per richiedere una censura nei confronti di un giornalista che sta compiendo il suo dovere di informare l'opinione pubblica».

Censura, naturalmente. Quella del martire dell'informazione è la parte che gli riesce meglio. Nessuno pretende l'equidistanza da Santoro; nessuno si aspetta che, a inizio trasmissione, spieghi che c'è una certa differenza tra chi vuole la cessazione del lancio dei Qassam e chi vuole la cancellazione di Israele; nessuno desidera mettergli la mordacchia del pluralismo, ma deve smetterla di credersi l'unico alfiere della libertà d'espressione e accusare gli altri di essere schiavi sciocchi di qualche potere. Non è la prima volta che il populismo, la faziosità, l'ideologia lo confinano nella disinvoltura intellettuale. Chi è incapace di vincere i suoi mali, non tragga però piacere nell'addossarli ad altri.

Aldo Grasso
17 gennaio 2009

lunedì 12 gennaio 2009

GRASSO E POTERE

GRASSO & POTERE – I DIS-VALORI D’ITALIA SULLA BILANCIA DEL DIETOLOGO SGARBI: PERCHE’ Cristiano Di Pietro continua a ingrassare? – sarà la soluzione ai problemi imparata dal padre: il posto fisso CONTRO LA “MOSCERIA” DEL PAESE?…

Vittorio Sgarbi per "il Giornale"


Avete visto come è grasso Cristiano Di Pietro? In questi giorni si sono viste sue immagini di qualche anno fa: un bel ragazzo magro, anche se robusto, ordinato, schivo. Anche il padre in quelle fotografie di repertorio appare più magro. Dunque, perché sono ingrassati?

Soprattutto nel caso di Cristiano la trasformazione sorprendente. Appare grosso, gonfio, perfino rosso. Perché? Perché mangia. Perché mangia e beve. Eppure l'attività di partito è impegnativa, e anche il rapporto con gli elettori e con i provveditori alle opere pubbliche per tener vive, secondo lezione democristiana, le clientele.

Il padre si è mosso molto, e ha meglio smaltito i grassi; il figlio è rimasto in Molise, dove l'attività di partito richiedeva meno energie, e si è gonfiato, fino ad apparire irriconoscibile. Anzi, forse è un altro. In passato aveva fatto molta attività di partito Enrico Berlinguer, ed era rimasto magrissimo; oggi Fassino non è cresciuto di un chilo. Ha mangiato poco. La storia della famiglia Di Pietro è esemplare per capire cosa è diventata la politica. Per evitare di lavorare ci si mette in una lista di partito, meglio se bloccata.

Si viene eletti, e lo Stato paga. Se la cosa appare scandalosa, visti gli stipendi dei consiglieri regionali e provinciali, per qualunque politico, agli occhi dei cittadini, è difficile trovare una giustificazione morale per chi mette in lista parenti e figli che non avrebbero nessun merito distinto, né alcuna possibilità di essere eletti con le loro forze, per trovar loro un posto sicuro e ben remunerato.
Cristiano Di Pietro magro

Quando poi si vede, o si legge, che la politica di quel parente non serve ai cittadini, ma agli amici, allora si torna al rigore, si annunciano misure di ritrovata moralità. Si fa dimettere il figlio dal partito, dove non guadagnava una lira, e gli si lascia conservare il posto nel consiglio provinciale, dove continua ad essere pagato. Così può ingrassare.

Con questi modelli di moralità da cui è derivata la fine dei partiti il Partito democratico è stato messo sotto schiaffo, ed ogni attività politica si è spenta, così come ogni attività economica, nel terrore che ogni iniziativa possa essere interpretata come favoreggiamento o crimine.

L'Italia dei valori umilia Veltroni, costringendolo a restare appeso al candidato democristiano e poi retino e poi dipietrino Orlando per la presidenza della Vigilanza Rai. Quando viene eletto democraticamente un esponente del Partito democratico, Riccardo Villari, lo si lascia insultare, lo si inviata a dimettersi, lo si espelle.

Sempre per vendicare Di Pietro, che ama Orlando come un figlio (avete notato come è ingrassato Orlando? Per essere in linea con l'Italia dei valori), si adoperano tutte le cariche istituzionali. Anche Berlusconi viene incontro a Veltroni inginocchiato davanti a DiPietro, e poi Fini, e poi Schifani; e adesso il capogruppo Quagliariello medita di far dimettere tutti i membri del Pdl nella commissione di Vigilanza. A questo punto si è ridotta la politica nel disprezzo della democrazia. Poi Di Pietro pone il veto su alcuni candidati del Pd in Abruzzo.

D'altra parte non sono suoi figli: perché dovrebbe sostenerli? E in particolare sbarra la strada al più apprezzato e votato di tutti: il sindaco D'Alfonso. Per dargli ragione gli amici
Magistrati gliel'hanno arrestato per il reato di volo aereo. Ma per quale ragione Veltroni doveva fidarsi di più dei candidati di Di Pietro che dei propri compagni di partito? Perché D'Alfonso è stato mollato e poi abbandonato? E perché prima di lui è stato trattato come un delinquente e abbandonato Del Turco? Mollati anche Margiotta, deputato lucano, Cioni, vicesindaco di Firenze, Lusetti, eterno delfino di una causa perduta.

Per non parlare di Bassolino, di Gambale e di innumerevoli altri, tutti improvvisamente criminali. Un'intera classe politica indegna e inadeguata, senza orgoglio, senza fiducia in se stessa. Eppure che i magistrati non siano infallibili, anche al di là delle vicende politiche, basterebbe a dimostrarlo la vicenda dell'assassino assolto in Cassazione e, subito dopo, reo confesso.

E perché dovrebbero aver ragione per D'Alfonso che, terrorizzato, ritira le dimissioni e si mette in malattia facendo l'unico vero reato: un certificato medico certamente falso che stabilisce a priori che per sei mesi il sindaco non potrà guarire. Chiederò che venga processato per questo, dal momento che per la stessa ragione io sono stato condannato, pur essendo in aspettativa senza stipendio. Un vecchio fascista mi denunciò perché non credeva ai certificati medici. Come credere all'improvvisa malattia di D'Alfonso? Forse è motivata da una prostrazione psicologica?

O da una crisi mistica dal momento che D'Alfonso è l'unico sindaco che si è ritirato in convento (vero è che anche la Moratti ha applicato la «clausura» a Milano: ma è un altro discorso). Insomma, tutti soffrono, e solo i Di Pietro ingrassano. Veltroni ha distrutto l'alleanza dell'Ulivo inventando un partito liofilizzato e soffrendo, come ha osservato D'Alema, il populismo di maggioranza di Berlusconi e il populismo di minoranza di Di Pietro: ma mentre il primo è l'antagonista, l'altro dovrebbe essere l'amico.

Che lo ha spento, sgonfiato, e perfino dimagrito. Intanto Cristiano Di Pietro continua a ingrassare e indica la soluzione ai problemi imparata dal padre: il posto fisso. Si può così ben condividere l'analisi spietata di Marcello Veneziani: «Un Paese moscio e melanconico, che ha perso la prospettiva del futuro e della comunità, non fa più sogni pubblici e civili, politici figuriamoci... Non ha più stimoli economici, morali e artistici. Sembra abitato solo da finti invalidi e marocchini».

E continua: «Un Paese in ritirata... Apatia rispetto all'avvenire, creatività scarsa e spirito d'avventura zero... E penso cosa sarebbe senza la guida di un incrollabile energetico come Berlusconi. E mi spaventa guardare intorno e immaginare la scena senza di lui; i suoi possibili eredi, da ogni parte, rispecchiano la mosceria del Paese». Di Pietro ha trovato la soluzione: il suo erede, il figlio, non è moscio. È pingue. Mangia e non fa nulla di utile. Il padre grida contro i corrotti. E lo Stato paga. Veltroni guarda, e non si fida neppure di se stesso. Oh! Romeo, Romeo!

sabato 10 gennaio 2009

TRAMONTO

VELTRONI NON CONTA PIÙ: SOTTO CASA TORNANO LE AUTO
Nel Partito democratico lo dicono a chiare lettere: «E' il segnale che Walter Veltroni non conta più nulla». A Roma non si parla d'altro, tra chi non ama il segretario: il secondo municipio della capitale mercoledì prossimo abolirà «l'ultima strada verde rimasta in città», ovvero via Nizza.

Era stata davvero singolare, quella scelta di vietare la via al transito delle auto private, così come il divieto ai bus di percorrere un'altra strada, parallela alla prima: via Savoia. I maligni hanno sempre detto che «quel blocco al traffico ha permesso a Veltroni di dormire sonni tranquilli per tanti anni», perché casualmente in mezzo a quelle due strade c'è la residenza privata dell'ex sindaco di Roma. Con un contraccolpo evidente: tantissimi negozi hanno chiuso.

Adesso il parlamentino guidato dalla Pdl Sara De Angelis cancellerà ogni privilegio a quell'area, riportando le quattro ruote tra piazza Fiume e viale Regina Margherita. Ancora non se ne fa cenno, ma il prossimo atto dovrebbe essere quello di riportare gli autobus a via Nizza. Come quando Veltroni non era ancora sindaco di Roma.

venerdì 9 gennaio 2009

inarrivabile aldo


«Un posto al sole» e la giunta di Napoli

di ALDO GRASSO
È solo un'ipotesi di scuola, una suggestione esegetica, un dubbio o poco più
: e se la crisi del Pd a Napoli, con l'inchiesta sugli appalti concessi alla Global service che ha colpito in pieno le leadership della Iervolino e di Bassolino, fosse tutta colpa di «Un posto al sole»? (Raitre, dal lunedì al venerdì, ore 20,35).

E se la soap napoletana, che va in onda dal 1996, avesse indotto Rosetta & Antonio a credere che la città partenopea fosse come Palazzo Paladini? In fondo quello che sta succedendo a Napoli è già stato anticipato dalla soap: la fiction si snoda infatti attraverso una serie di rapporti conflittuali e turbolenti che sfociano in passioni, amori, gelosie e rancori all'interno del medesimo condominio: il condominio Pd. Negli anni, «Un posto al sole» ha disegnato una Napoli che non c'è, una Napoli molto bassoliniana, una Napoli da portineria dove però non è mai esistito il problema spazzatura (tanto che è dovuto intervenire Berlusconi in persona per sgombrare le strade dalla monnezza). L'idea delle cimici per registrare di nascosto l'incontro avuto con Luigi Nicolais, a Rosetta può essere venuta solo seguendo le mille e più puntate della soap, magari identificandosi con la «cattiva» di turno.

E poi quel titolo, «Un posto al sole», più che fissare un'opera di fantasia, sembra un programma politico: mai cedere la poltrona, occupare il territorio. Sempre e comunque. Fossimo nei panni di Raffaele Lombardo, governatore della Sicilia, staremmo ben attenti a rinnovare la convenzione con la Rai per «Agrodolce» (che è molto peggio di «Un posto al sole»). Non vorremmo che anche la Regione Sicilia, che pure sborsa qualcosa come 12,7 milioni per la produzione della favola siciliana, fosse colpita dalla sindrome soap: confondere la realtà con la fiction. A volte succede. E se poi tutte le altre regioni pretendessero la loro soap? E' solo un'ipotesi di scuola, un dubbio e niente più

sabato 3 gennaio 2009

I PREGIUDIZI CONTRO ISRAELE

L'ipocrisia della sproporzione
I pregiudizi dell'opinione pubblica mondiale

Davanti a un conflitto, l'opinione pubblica si divide tra coloro che hanno deciso chi ha torto e chi ha ragione e coloro che valutano con cautela tale o tal'altra azione come opportuna o inopportuna, anche a costo di rinviare il loro giudizio.

Lo scontro di Gaza, per quanto sanguinoso e terrificante, lascia trasparire tuttavia uno spiraglio di speranza che le immagini drammatiche troppo spesso nascondono. Per la prima volta in un conflitto in Medio Oriente, il fanatismo del partito preso appare in minoranza. Il dibattito in Israele («È questo il momento giusto? Fino a che punto arrivare? Fino a quando? ») si svolge come di consueto in democrazia. Quale sorpresa constatare che un dibattito assai simile divide, a microfoni aperti, anche i palestinesi e i loro sostenitori. A tal punto che Mahmoud Abbas, capo dell'Autorità palestinese, subito dopo l'inizio della rappresaglia israeliana, ha trovato il coraggio di imputare a Hamas la principale responsabilità della tragedia dei civili a Gaza, per aver rotto la tregua.

Le reazioni dell'opinione pubblica mondiale — i media, la diplomazia, le autorità morali e politiche — sembrano purtroppo in ritardo sugli sviluppi dei diretti interessati. A questo proposito non si può far a meno di notare un termine assai ricorrente, a ribadire un'intransigenza di terzo tipo, che condanna urbi et orbi l'azione di Gerusalemme come «sproporzionata ». Un consenso universale e immediato sottotitola le immagini di Gaza sventrata dai bombardamenti: la reazione di Israele è sproporzionata. Cronache e analisi non perdono tempo a rincarare la dose: «massacri », «guerra totale». Per fortuna, si è evitato finora il termine «genocidio». Il ricordo del «genocidio di Genin» (60 morti), ripetuto ossessivamente e poi screditato, è ancora capace di frenare gli eccessi? Tuttavia la condanna incondizionata e a priori della reazione esagerata degli israeliani regola ancora oggi il flusso delle riflessioni. Consultate il primo dizionario sotto mano: è sproporzionato ciò che non è in armoniosa proporzione rispetto alle altre parti, oppure non corrisponde, di solito per eccesso, al giusto o al dovuto, pertanto risulta eccessivo, esagerato, spropositato. È il secondo significato che viene accolto per fustigare le rappresaglie israeliane, giudicate eccessive, incongruenti, sconvenienti, che oltrepassano ogni limite e ogni regola. Sottinteso: esiste uno stato normale del conflitto tra Israele e Hamas, oggi scombussolato dall'aggressività dell'esercito israeliano, come se il conflitto non fosse, come tutti i conflitti, sproporzionato sin dall'origine. Quale sarebbe la giusta proporzione da rispettare per far sì che Israele si meriti il favore dell'opinione pubblica? L'esercito israeliano dovrebbe forse rinunciare alla sua supremazia tecnologica e limitarsi a impugnare le medesime armi di Hamas, vale a dire la guerra approssimativa dei razzi Grad, la guerra dei sassi, oppure a scelta la strategia degli attentatori suicidi, delle bombe umane che prendono di mira volutamente la popolazione civile? O, meglio ancora, non sarebbe preferibile che Israele pazientasse saggiamente finché Hamas, per grazia di Iran e Siria, non sarà in grado di «riequilibrare » la sua potenza di fuoco?

A meno che non occorra portare allo stesso livello non solo i mezzi militari, ma anche gli scopi perseguiti. Poiché Hamas — contrariamente all'Autorità palestinese — si ostina a non riconoscere allo Stato ebraico il diritto di esistere e sogna l'annientamento dei suoi cittadini, non sarebbe il caso che Israele imitasse questo spirito radicale e procedesse a una gigantesca pulizia etnica? Si vuole veramente che Israele rispecchi, in misura proporzionale, le ambizioni sterminatrici di Hamas?

Non appena si va scavare nei sottintesi del rimprovero ipocrita di «reazione sproporzionata », ecco che si scopre fino a che punto Pascal aveva ragione, e «chi vuol fare l'angelo, fa la bestia». Ogni conflitto, che covi sotto la cenere o in piena eruzione, è per sua natura «sproporzionato ». Se i contendenti si mettessero d'accordo sull'impiego dei loro mezzi e sugli scopi rivendicati, non sarebbero più avversari. Chi dice conflitto, dice disaccordo, di qui lo sforzo da una parte e dall'altra di giocare le proprie carte e di sfruttare le debolezze del rivale. L'esercito israeliano non ci pensa due volte ad «approfittare » della sua superiorità tecnologica per centrare i suoi obiettivi. E Hamas non fa da meno, ricorrendo alla popolazione di Gaza come scudo umano senza lasciarsi nemmeno sfiorare dagli scrupoli morali e dagli imperativi diplomatici del suo antagonista. Non si può lavorare per la pace in Medio Oriente se non ci si sottrae alle tentazioni di chi ragiona in base a pregiudizi o ad opinioni preconcette, che assillano non solo i fanatici oltranzisti, ma anche le anime pie che fantasticano di una sacrosanta «proporzione», capace di riequilibrare provvidenzialmente i conflitti. In Medio Oriente, non si combatte soltanto per far rispettare le regole del gioco, ma per stabilirle. È lecito discutere liberamente dell'opportunità di questa o quella iniziativa diplomatica o militare, senza tuttavia presumere che il problema venga risolto in anticipo dalla mano invisibile della buona coscienza mondiale. Non è un'idea «spropositata» voler assicurare la propria sopravvivenza. André Glucksmann (Traduzione di Rita Baldassarre)

André Glucksmann
(Traduzione di Rita Baldassarre)
03 gennaio 2009

giovedì 1 gennaio 2009

ROMEO, IL CONSIP, IL PD, LE COOP

LE SPIE DI ROMEO NASCOSTE AL TESORO - PIÙ SI APPROFONDISCONO I FILONI INVESTIGATIVI E PIÙ SI CONFERMA IL SOSPETTO CHE IL SEGRETO DEL SUCCESSO IMPRENDITORIALE DI ALFREDO ROMEO SIA QUELLO DELL’AGGIUDICAZIONE DELLE GARE CON METODI ILLEGALI…

Da La Stampa

L'altro giorno, il vicepresidente della Provincia, Antonio Pugliese, si è difeso davanti ai magistrati che lo interrogavano sugli appalti da far vincere ad Alfredo Romeo, spiegando che l'immobiliarista «aveva rapporti diretti con la Consip». Davvero l'ex re Mida non finisce di stupire. Più si approfondiscono i filoni investigativi e più si conferma il sospetto che il segreto del successo imprenditoriale di Alfredo Romeo sia quello dell'aggiudicazione delle gare con metodi illegali. Come emerge non solo dall'inchiesta di Napoli ma anche da quella di Bari.
Alfredo Romeo

Nelle carte napoletane d'interesse della Procura di Roma ci sono due intercettazioni telefoniche che parlano della Consip. Due premesse intanto. La prima: la Consip è una società controllata dal ministero dell'Economia e Finanze che, nello spirito del risparmio delle spese, gestisce il programma per la razionalizzazione degli acquisti nella pubblica amministrazione.

La seconda: il "Sole 24 Ore" ha pubblicato una tabellina degli appalti Consip vinti da Alfredo Romeo. Dal 2002 ad oggi, in quattro diverse gare si è aggiudicato nove lotti per complessivi 460 milioni di euro, con offerte al ribasso che oscillavano dal 20 al 40%. Nel 2007, gli ultimi tre lotti: appalti in Puglia e Molise; in Campania e Basilicata e, infine a Roma, Primo Municipio.

E' il 13 giugno del 2007, Romeo parla con l'assessore della giunta Iervolino Giuseppe Gambale: «E' venuto a trovarmi quel funzionario Consip... che ha chiamato la persona...». Risponde l'ex assessore agli arresti domiciliari, Gambale: «Ma mi ha detto, lui sapeva proprio tutto, sapeva i lotti tuoi, quelli di Pirelli, forse dice... Trastevere sta nell'altro lotto quello di Roma-Lazio, e io gli ho detto va bene però... ci sono i Dipartimenti della Campania... poi ci sono altre... Trastevere non sta da te?». Romeo: «Trastevere cazzo non fa parte di Roma centro... Comunque dice che sapeva tutto... fino al punto che lui ha detto questo riguarda il lotto di Pirelli... questo riguarda il lotto di Romeo, infatti il funzionario ha detto che mi fa chiamare per fare la pubblicità a Pirelli».
Giuseppe Gambale

In un passaggio della richiesta di custodia cautelare, i pm napoletani scrivono che alcuni dirigenti Consip «sono veri e propri bracci operativi dello stesso scaltro imprenditore napoletano (Romeo, ndr)». E sospettano che uno di questi sia l'architetto «Marco Gasparri».

Due giorni dopo la conversazione con Gambale, Romeo parla al telefono proprio con Gasparri. E' sollevato perché ha risolto positivamente il dubbio se Trastevere faceva parte del Primo Municipio o no. Romeo: «Allora architetto, intanto volevo dirle che... Trastevere abbiamo verificato sui vostri documenti Consip del ministero dell'Istruzione è Primo Municipio... buon per me... la ringrazio.. però è strano che l'interlocutore... sapesse tutto il contrario... però siccome lei aveva già parlato con lui, e lui aveva questa confusione potrebbe essere tecnicamente professionalmente corretto dirglielo».
Alfredo Romeo

Gasparri: «Va bene, glielo farà senz'altro sapere». Romeo: «Vuole segnarsi questi recapiti? Dottor Giannini 333...». Gasparri: «Ma questo è...? quindi loro aspettano che noi li contattiamo per, per far (incomprensibile) della cosa... quindi chiamo direttamente, chiamiamo direttamente questa qua, o tutti e due sia la Marinello che questo qua, il Giannini è superiore, è capo dipartimento...».

Quello che stupisce nel comportamento di Romeo è proprio questa sua recidività. A Bari, il 12 gennaio, il gup dovrà decidere se rinviarlo a giudizio per una storia di gare Consip del 2003. Con l'ex amministratore delegato, Ferruccio Ferranti, e un dirigente Consip, Renato Di Donna, insieme a due gruppi imprenditoriali, La Fiorita e Manutencoop (cooperativa emiliana) si erano spartiti i lotti da vincere. I due dirigenti Consip avevano rivelato loro tempi e contenuti del bando di gara.

martedì 23 dicembre 2008

IL SOLITO DOPPIOPESISMO DI SINISTRA

La maledizione doppiopesista

di Pierluigi Battista

La maledizione del doppiopesismo, ancora una volta. Quella malattia politica e culturale che spezza ogni unità di giudizio, fomenta l'indignazione a corrente alternata, alimenta il pregiudizio che tra di «noi» si possa regalare per grazia ricevuta un trattamento più indulgente e autogratificante di quello abitualmente riservato all'avversario. È questa sindrome del doppio standard che si manifesta ancora una volta nelle parole di Renato Soru, una delle figure più innovative, moderne e post-ideologiche della famiglia democratica. Parole da cui si evince che anche il conflitto di interessi è sottoposto alla logica del doppio standard: intollerabile se ne sono responsabili gli altri; una trascurabile inezia se ad esserne prigioniero è uno dei «nostri».

Soru si è dimesso da governatore della Sardegna. Ieri ha sciolto la riserva e ha deciso di ricandidarsi per le prossime elezioni regionali sarde confermando che un apposito blind trust rimedierà al conflitto di interessi espressamente indicato da una legge regionale della Sardegna come motivo di incompatibilità tra la proprietà di un'azienda e la carica di presidente della Regione. Ma è qui che nascono i problemi. Perché la sinistra ha da sempre fieramente indicato nel conflitto d'interessi dell'avversario Silvio Berlusconi la più colossale anomalia del sistema italiano, bollando come una risibile panacea la legge che sul tema è stata emanata nella precedente legislatura del centrodestra e considerando anche il blind trust come una misura largamente insufficiente, monca, facilmente aggirabile. E invece, quando Alberto Statera su Repubblica ha chiesto di rispondere a chi «ironizza dicendo che Racugno a Tiscali è come "Fedelu Confalonieri" a Mediaset e suo fratello all'Unità è come "Paolu Berlusconi" al Giornale », Soru ha liquidato sprezzantemente come «sciocchezze» quelle domande sacrosante eppure trattate come spregevoli insinuazioni.

Non sono «sciocchezze », sono il normale sospetto cresciuto nell'atmosfera del conflitto di interessi. Se poi si risponde come Soru, e cioè rivendicando al professor Racugno (intervistato oggi da Alberto Pinna per il Corriere) una «specchiata onestà e moralità», è fatale che si commettano insieme almeno due deprecabili errori. Con il primo si getta gratuitamente un'ombra sulla «specchiata moralità» degli avversari, che invece possono vantare titoli di «moralità» non inferiori a quelli giustamente attribuiti a Racugno. Con il secondo si persevera nella pretesa di una pregiudiziale «superiorità morale» di cui ci si sente investiti come per un diritto acquisito. Ma questo secondo errore continua ad essere una fonte di guai da cui il mondo del Partito democratico farà bene a liberarsi al più presto. È la malattia doppiopesista che oramai viene accolta con sempre maggiore freddezza e incredulità dall'opinione pubblica italiana. È la stessa malattia che traspare dall'insofferenza con cui, dentro e attorno al Partito democratico, ci si lamenta in questi giorni per il legittimo interesse con cui vengono seguite le inchieste che stanno minando numerose giunte di centrosinistra. È la malattia che scambia per «sciocchezze » tutte le domande sulla coerenza di chi si sente per principio sottratto all’esame spietato dell'opinione pubblica. Domande che esigono una risposta, prima che sia troppo tardi.

23 dicembre 2008

sabato 20 dicembre 2008

NAPOLICAOS

Auto blu, 6 indagati al Comune di Napoli
Coinvolti due attuali assessori, Mola (Pd) e Riccio (Rifondazione) e 4 ex

NOTIZIE ANTICIPATE DA "IL MATTINO" E RILANCIATE DAL CORRIERE ONLINE

NAPOLI - Una nuova bufera si abbatte sul Comune di Napoli, dopo lo scandalo degli appalti sporchi che ha coinvolto l'imprenditore Alfredo Romeo e altre dodici persone, tra cui due assessori dell'attuale giunta partenopea. Sei amministratori del Comune, due assessori attualmente in carica e quattro di precedenti giunte risultano indagati a chiusura delle indagini sull'uso improprio delle auto blu. Tra gli attuali amministratori - secondo quanto riferiscono organi di stampa - il provvedimento riguarda gli assessori alla Nettezza Urbana, Gennaro Mola, del Pd, e Giulio Riccio, di Rifondazione comunista. I quattro ex assessori sono Giuseppe Gambale, del Pd, già ai domiciliari per la vicenda Romeo, Donata Rizzo e Bruno Terracciano, dell'Udeur, Dolores Madaro, del Pdci. Gli assessori avrebbero usato le auto di servizio per fare shopping, accompagnare amici e parenti, fare viaggi di piacere a Rimini e a Capo Vaticano, una tre giorni a Telese per la festa dell’Udeur, una visita al Polo della Qualità di Marcianise. Due i capi d’accusa ipotizzati dal pm Brunetti: abuso e peculato.

IL PD LUNARE


da "Il Foglio"

La direzione del Pd? Sulla Luna
W. retorico, D’Alema un critico letterario, Chiamparino inascoltato

Quella della direzione del Pd si è aperta come una riunione di routine, con “un’ampia e approfondita” relazione del segretario che ha lasciato le cose esattamente come stavano. Poi gli interventi, con qualche rara eccezione, che cominciavano con l’espressione rituale di consenso, accompagnata da qualche sottolineatura nella quale si esprimevano venature critiche piuttosto sofisticate. Al punto che la richiesta di uscire dal generico e di dar vita a una nuova struttura del gruppo dirigente, avanzata con chiarezza da Sergio Chiamparino, è apparsa provocatoria. La parola innovazione (o la sua variante rinnovamento) è stata pronunciata talmente tante volte che alla fine ha perso di significato, come ha osservato Massimo D’Alema, che si è comportato anche lui più come un critico letterario che come un capo politico. La scelta di Veltroni di discettare di diseguaglianze sociali, allargando l’orizzonte dall’Italia all’America al fine di tratteggiare un panorama di riscossa democratica epocale e universale, con tanto di riferimento al “governo mondiale” evocato da Enrico Berlinguer, può darsi sia azzeccata sul piano retorico, ma è piuttosto lunare sul piano politico. In questo clima rarefatto e un po’ surreale si è sentito persino Antonio Bassolino spiegare che il vero problema del Pd è che nei comuni ci sono ancora le alleanze dell’Unione, superate a livello nazionale. Se questo è il partito nuovo che, secondo Veltroni, otterrà la maggioranza alle prossime elezioni, viene un po’ di nostalgia per quelli vecchi.