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sabato 27 agosto 2011

IL "SISTEMA" PENATI E IL SILENZIO ASSORDANTE DI BERSANI & C.

L'accusa: un sistema corruttivo attivo da 15 anni attorno all'ex presidente della provincia di Milano. La procura di Monza: «Era un direttorio finanziario democratico».

RINUNCIARE ALLA PRESCRIZIONE: UN ATTO DI COERENZA PER I DEMOCRATICI
di Antonio Polito
dal Corriere Online

I l Pd sta perdendo la battaglia di Stalingrado. Se continua così, finirà che gli iscritti dovranno fare una class action contro Filippo Penati. Il danno che la vicenda di Sesto San Giovanni sta infatti arrecando al partito di Bersani è molto serio, e ogni mossa dell'indagato tende ad aggravarlo.
Alla notizia che il gip aveva confermato «l'esistenza di numerosi e gravissimi fatti di corruzione», ma non li aveva considerati «concussione» evitandogli così l'arresto, Penati ha infatti festeggiato con una dichiarazione surreale, come se fosse stato assolto. Poi ieri qualcuno deve averglielo fatto notare, ed è arrivata l'autosospensione dal partito e dal gruppo consiliare alla Regione Lombardia, la procedura standard che si usa nel Pd per evitare l'espulsione. Con essa, la carriera politica dell'uomo che era stato incaricato da Bersani di strappare il Nord a Berlusconi si può considerare praticamente finita.

Stavolta infatti non si può neanche dire «aspettiamo il processo», perché il processo non ci sarà per avvenuta prescrizione. Penati potrebbe certo rinunciare alla decorrenza dei termini, per ottenere un proscioglimento nel merito o la sentenza di assoluzione. Ma ieri, pur dichiarandosi innocente, non ha anticipato niente del genere. È suo diritto, ovviamente, e il garantismo consiste anche nel difendersi dal processo, oltre che nel processo. Però Bersani deve sapere che d'ora in poi l'argomento contro il ricorso alla prescrizione, tante volte rinfacciato a Berlusconi e agli indagati dell'altra parte politica, non potrà mai più essere usato dal Pd. Per un partito che ha obbligato i suoi parlamentari a votare per l'arresto di Tedesco, accusato di fatti meno gravi di quelli contestati a Penati, è un brutto contrappasso.

Ma non è questo l'unico danno che la vicenda arreca al Pd. Il punto cruciale, infatti, è che Penati non può essere trattato come una «mela marcia». Non c'è niente di «marcio» in quest'uomo politico che si è fatto le ossa nella gavetta comunista, prima da sindaco e poi da presidente di Provincia, salendo un po' alla volta fino a diventare il braccio destro di Bersani, alle cui truppe aveva portato la bandiera dei riformisti lombardi. Penati non commerciava in Rolex falsi e non girava in Ferrari. Se ha preso le mazzette che gli vengono contestate, le ha prese per finanziare la sua ascesa politica e quella dei suoi compagni. Ed è sgradevole che il gip, seguendo una moda ormai invalsa tra i magistrati, infili nella sua sentenza gratuiti commenti da corsivista, scrivendo che si è comportato come un «delinquente matricolato».

Ma è proprio perché Penati non è delinquente matricolato che il Pd è nei guai. Quello emerso a Sesto San Giovanni è infatti un «sistema», anzi un «sistemone» di finanziamento della politica. Non c'è solo Penati. C'è il suo capo di gabinetto, c'è l'assessore della giunta seguente, e per una vicenda minore è indagato anche l'attuale sindaco. Il pm parla di un «direttorio finanziario democratico» in opera da almeno 15 anni, di un vero e proprio «peccato originale». È di quel peccato originale che il vertice del Pd sta ostinatamente evitando di parlare, assumendo un atteggiamento da vergine offesa che le circostanze davvero non giustificano. Se infatti le cose funzionavano così a Sesto San Giovanni, che era un po' la boutique del governo della sinistra nel Nord, se coinvolgevano le Coop, se proseguivano nell'inquinamento probatorio fino ai giorni nostri, se perfino il successo elettorale a Milano poteva diventare occasione per reiterare il reato tacitando l'imprenditore amico, titolare per altro di una società il cui nome, «Caronte», diceva già tutto; beh, allora vuol dire che si trattava di una pratica radicata, antica ed evidentemente tollerata. Il punto è: quanto è estesa? Troppe fondazioni, troppe correnti, troppi feudi locali nel Pd cercano risorse per vivere, affermarsi e contare a Roma un po' come ha fatto Penati in questi anni.

Non so se nel Pd ci sono ancora i probiviri come c'erano una volta nel Pci. Ma, se ci sono, Bersani dovrebbe sguinzagliarli in giro per l'Italia, dovrebbe essere lui a promuovere un'inchiesta, a scrutare dentro e dietro i potentati piccoli e grandi che esistono nel suo partito, alcuni dei quali - Penati e le Coop di sicuro - fanno parte integrante della sua constituency personale. Il Pd ha proposto nella «contromanovra» un drastico taglio dei costi della politica. Ma non c'è nessun aspetto della politica italiana che costi più della corruzione. La credibilità di un partito che vuole curare il Paese sta anche nella capacità di curare innanzitutto se stesso.

venerdì 12 agosto 2011

I MENÙ A PREZZI STRACCIATI DELLA CASTA CHE INTEGRIAMO CON LE NOSTRE TASSE


dal Corriere online

Pasta, patate e zucchine: 2 euro a deputato

Ora tocca al menu di palazzo Montecitorio dopo che Schifani è intervenuto per frenare l'ira del web

Pasta, patate e zucchine: 2 euro a deputato
Ora tocca al menu di palazzo Montecitorio dopo che Schifani è intervenuto per frenare l'ira del web
Il deputato Carlo Monai (Idv)
Il deputato Carlo Monai (Idv)
MILANO
- Dopo aver divulgato il menu di palazzo Madama ora il web butta in pasto al pubblico anche la carta del ristorante di Montecitorio. E se Sparta piange Atene non ride. Anche alla Camera si mangia a «prezzi stracciati». E ovviamente il prezzo pagato dagli avventori non basta a pagare le spese.

ALLA CAMERA- Qualcuno - dopo quello del Senato - ha trafugato materialmente anche un menu del ristorante dei deputati e lo ha pubblicato tale e quale. A Montecitorio i prezzi sono più alti ma niente a che vedere con quelli che tutti i giorni si vedono al supermercato. Qualche esempio: un piatto di pasta varia dai 2 euro, quella con patate e zucchine, ai 5 e 30 del risotto con gamberi e pachino. Quanto costerebbe questo piatto al ristorante? Non meno di 12-15 euro. Esattamente un terzo. E via di questo passo con i secondi che variano dai 4 euro di una leggera insalata di pollo ai 5 e 30 del carrè di agnello al forno. Insomma prezzi fuori mercato.
QUANTO CI COSTA - Al Senato per ogni coperto del ristorante si deve raddoppiare la cifra corrisposta dai commensali. L'operazione costa circa 1.200.000 euro l'anno. Una realtà svelata dal deputato dell'Idv Carlo Monai al settimanale l'Espresso. Il web ne riprende la foto del menu: apriti cielo. Risultato su Corriere.it: in trecentomila hanno preso visione dei privilegi a tavola dei senatori italiani e una parte ha inondato il nostro sito, e blog vari, di commenti ironici e furiosi. Un coro: «Tutti a mangiare al Senato!». Un successo mediatico. Tant'è che a fine serata il presidente del Senato Renato Schifani ha fatto sapere che i prezzi della ristorazione interna verranno presto adeguati ai costi effettivi. Intanto però sarebbe utile sapere da quando saranno «attualizzati» i prezzi. Anzi, ancora più importante sarebbe annunciare i sacrifici che si chiedono agli italiani contemporaneamente a quelli che farà la «casta». Vedremo .
Clicca per vedere il menu di Montecitorio
Clicca per vedere il menu di Montecitorio
I POLITICI - Ma non è solo il web a indignarsi. «Rinnovo la mia proposta al collegio dei questori del Senato di rinunziare agli alloggi di servizio e di trasformare tutti gli attuali centri di spesa del Senato (ristorante, buvette, barberia (gratis, ndr), spaccio, banca, infermeria) relativi ai servizi resi ai senatori e agli ex-senatori a prezzi politici in centri di utili, affidando con regolare gara a società esterne qualificate i servizi stessi da pagare, da parte dei parlamentari ai prezzi correnti di mercato» Queste non sono le parole anonime di un commentatore su Internet bensì pensieri «pesati» di un membro della commissione Affari Costituzionali: il senatore pidiellino Raffaele Lauro. E allora da dove iniziare? Forza web: «Auto blu, voli blu, tassi del mutuo scontati, occhiali gratis, psicoterapia pagata, massaggi shiatsu, balneoterapia, cure termali...». Intanto il direttore del Corriere della Sera, Ferruccio de Bortoli, lancia una proposta via twitter: @DeBortoliF: «Chiudere i ristoranti di Camera e Senato e dare ticket agli onorevoli»

sabato 16 aprile 2011

L'ECOLOGIA FILOSOFICA DI GALIMBERTI


da "Dagospia"
Bruno Giurato per "Lettera 43"
Caccia al Galimba potrebbe essere il titolo di un nuovo reality show filosofico. Umberto Galimberti, 69 anni, di Monza, famosa firma di Repubblica e divulgatore appassionato di psicanalisi, esistenzialismo, umanesimo "caldo" ma soprattutto plagiatore di libri altrui (come ha rivelato anche Lettera43.it) è ormai la vittima di una splendida caccia alla volpe.

Il nuovo ibro di Francesco Bucci, "Umberto Galimberti e la mistificazione intellettuale" (Coniglio Editore, 14,50 euro) è un ulteriore capitolo della saga dello smascheramento galimbertiano. Nella prefazione del giornalista Luca Mastrantonio si parla di «plagi, déjà vu, ispirazioni, traspirazioni, cover e copioni», il tono divertito di Mastrantonio fa pensare che la copiatura e la falsificazione siano quasi nel dna del tempo.

UN'INCHIESTA ALLA CA' FOSCARI.
Ma il fatto ha insospettito anche quelli dell'università Ca' Foscari di Venezia, dove Galimberti insegna Filosofia della storia, che hanno avviato un'inchiesta interna sul noto intellettuale.
Tra quelli de Il Giornale, che nel 2008 portarono in luce i plagi di Galimberti, fino al libro di Giulia Sissa, Francesco Bucci, quelli di Ca' Foscari e infine di Lettera43.it che, nella persona di Costica Bradatan, si è accorto dei furti ai danni di Costantin Noica, il manipolo degli inseguitori s'ingrossa. La caccia al Galimba è il nuovo sport nazionale.

RE DEL PLAGIO E DELL'AUTOPLAGIO
E la notizia in più che ci fornisce il bel libro di Bucci è che Galimberti non è solo un plagiatore di altri, ma anche di se stesso. Bucci, dotato di forbici e schedario superorganizzato (che definisce «la cassapanca del filosofo»), ha setacciato le opere dello scrittore, arrivando alla conclusione che tutti i suoi libri, e un bel po' di articoli, sono costruiti assemblando materiali tratti da scritti precedenti.
Un taglia-incolla furioso, compulsivo e, particolare non indifferente, molto redditizio in termini di palanche. Bucci fornisce le statistiche: in due tra i libri di maggior successo il "riuso" è stato totalizzante: oltre l'80% ne La casa di psiche (2005) e quasi il 100% ne L'ospite inquietante (2007).

ECOLOGIA FILOSOFICA. In quello straordinario spaccato di ecologia filosofica (nel senso di sprecare il meno possibile i frutti della propria, e quasi sempre dell'altrui, mente) che è l'opera omnia galimbertiana c'è un aspetto inaudito e vertiginoso: copiare e incollare un passo, ma cambiando il soggetto.

In pratica, adattare lo stesso identico discorso per argomenti diversi. Leggiamo a p.621 de Il tramonto dell'Occidente : «L'essere non è mai "questo" o "quello" nel senso in cui la metafisica connette un predicato a un soggetto. L'espressione "è", attribuita all'essere, ha sempre e solo un significato transitivo».

Alle pp. 682-683 dello stesso libro leggiamo: «Il simbolo, infatti, non è mai "questo" o "quello", nel senso in cui la logica connette un predicato a un soggetto. L'espressione "è", attribuita al simbolo, ha sempre e solo un significato transitivo». Insomma, secondo Galimberti l'essere e il simbolo sarebbero la stessa cosa. Una fantasmagoria concettuale in cui tutto si confonde con tutto, tutto riflette tutto, un po' come l'Aleph di Borges.

UN GRANDE DIVULGATORE BRACCATO DA UN DESTINO COPIONE
E non bastava Bucci. Adesso ci si mette anche Vincenzo Altieri, un artista multimediale che, dopo uno scambio di telefonate con Galimberti, ha individuato una notevole serie di plagi nell'opera del filosofo serial copier. È stato proprio Altieri, nel 2007, a segnalare a Giulia Sissa le copiature di Galimberti, secondo quanto ha raccontato a Lettera43.it.

Altieri ha anche scritto un libro nel 2009 sui plagi del monzese ma il testo non è arrivato a pubblicazione: l'ultimo editore a cui è stato mandato è Francoangeli. Altieri ha definito Galimberti «un copiatore selettivo e funzionale». Un altro pronto a stanare il filosofo dallo scanner facile e dal toner inesauribile, un altro partecipante al reality Caccia al Galimba.

RIUSARE PAROLE ALTRUI. A questo punto, ci sarebbero alcune considerazioni da fare sul personaggio e sul fenomeno. Un maligno potrebbe notare che la tentazione di copiare per uno come Galimberti è un destino, cioè che non avendo alcun concetto originale da esprimere è inevitabile che finisca per (ri)usare anche le parole di altri.

Uno ancora più cattivo potrebbe sottolineare che copiare è indispensabile per produrre molto in termini di libri, articoli (e quindi di denaro). Un garantista, invece, direbbe che Umberto Galimberti semplicemente non è un filosofo, è un ottimo divulgatore, e gli regalerebbe uno scatolino (anzi, molti scatoloni) di virgolette tipografiche.

ILLUMINISTA, ANZI NO. Ed è inutile stupirsi, come ha fatto Matteo Sacchi sul Giornale del 13 aprile 2011, del fatto che Galimberti possa fare professione di fede anti-illuminista e poi solidarizzare con Eugenio Scalfari, illuminista straconvinto. Abbiamo visto come lo scrittore tratti concetti diversi applicandogli la stessa frase copincollata.

Figurasi che mai potrà combinare il lunapark galimbertiano con categorie molto ampie come quella di illuminismo. La vita del policromo genio del ready made filosofico Umberto Galimberti contempla tutto e il contrario. Se c'è un piccolo problema è tutto esterno: la caccia al Galimba è uno sport in crescita esponenziale.

domenica 10 ottobre 2010

GIORNALISMO, GIORNALI E iPAD

Questa settimana ad Amburgo si è tenuto il World Editors Forum, dove si è parlato di come funzionano i giornali in Germania e in che direzione stanno andando.

Felix Bellinger, caporedattore centrale dell’ «Hamburger Abendblatt», durante una colazione di lavoro ha parlato di come i tablet computer influenzeranno il giornalismo. Alla domanda: «Chi dirigerà la redazione nel futuro?», ha risposto: «Non sarà il direttore del giornale, sarà l’art director!». E ha spiegato che, con le tavolette come l’iPad, i lettori vogliono avere un’esperienza visiva, vogliono interagire, toccare e muovere i loro schermi. Bellinger ha anche parlato del rapporto tra edizione stampata e online: «Su Internet ci vogliono gli aggiornamenti continui, mentre la carta deve offrire l’interpretazione».

sabato 12 settembre 2009

STOLEN ANDY


Usa, rubata collezione di Andy Warhol
Sono state trafugate una decina di tele. Il furto è avvenuto a casa di un collezionista a Los Angeles


LOS ANGELES- Come ogni mattina è entrata nella sala da pranzo. Per mettere in ordine e spolverare. Ma a differenza di ogni mattina sulle pareti mancavano i quadri. Già, le dieci tele dell'opera «Gli atleti» di Andy Warhol erano spariti. Quadri che valgono milioni di dolalri. Così la donna delle pulizie del noto collezionista Richerd L. Weisman non ha perso altro tempo e ha chiamato la polizia. Il furto è avvenuto il 3 settembre.

LE INDAGINI- Lo rivela il Los Angeles Times. Gli investigatori non capiscono come sia potuto succedere. Non c'è segno di effrazione, senza contare che i ladri hanno lasciato nella casa altri quadri dello stesso artista. Il proprietario era appena partito per un viaggio. Qualcuno parla di furto su commissione. In ogni caso la polizia ha offerto un milione di dollari a chiunque possa fornire notizie utili per ritrovare l'opera. Cioè i ritratti di atleti famosi realizzati alla fine degli anni Settanta dal noto artista pop.

venerdì 9 gennaio 2009

inarrivabile aldo


«Un posto al sole» e la giunta di Napoli

di ALDO GRASSO
È solo un'ipotesi di scuola, una suggestione esegetica, un dubbio o poco più
: e se la crisi del Pd a Napoli, con l'inchiesta sugli appalti concessi alla Global service che ha colpito in pieno le leadership della Iervolino e di Bassolino, fosse tutta colpa di «Un posto al sole»? (Raitre, dal lunedì al venerdì, ore 20,35).

E se la soap napoletana, che va in onda dal 1996, avesse indotto Rosetta & Antonio a credere che la città partenopea fosse come Palazzo Paladini? In fondo quello che sta succedendo a Napoli è già stato anticipato dalla soap: la fiction si snoda infatti attraverso una serie di rapporti conflittuali e turbolenti che sfociano in passioni, amori, gelosie e rancori all'interno del medesimo condominio: il condominio Pd. Negli anni, «Un posto al sole» ha disegnato una Napoli che non c'è, una Napoli molto bassoliniana, una Napoli da portineria dove però non è mai esistito il problema spazzatura (tanto che è dovuto intervenire Berlusconi in persona per sgombrare le strade dalla monnezza). L'idea delle cimici per registrare di nascosto l'incontro avuto con Luigi Nicolais, a Rosetta può essere venuta solo seguendo le mille e più puntate della soap, magari identificandosi con la «cattiva» di turno.

E poi quel titolo, «Un posto al sole», più che fissare un'opera di fantasia, sembra un programma politico: mai cedere la poltrona, occupare il territorio. Sempre e comunque. Fossimo nei panni di Raffaele Lombardo, governatore della Sicilia, staremmo ben attenti a rinnovare la convenzione con la Rai per «Agrodolce» (che è molto peggio di «Un posto al sole»). Non vorremmo che anche la Regione Sicilia, che pure sborsa qualcosa come 12,7 milioni per la produzione della favola siciliana, fosse colpita dalla sindrome soap: confondere la realtà con la fiction. A volte succede. E se poi tutte le altre regioni pretendessero la loro soap? E' solo un'ipotesi di scuola, un dubbio e niente più

mercoledì 27 agosto 2008

ORTAGGI E IMBALLAGGI

da LA STAMPA ONLINE

ORTAGGI E IMALLAGGI
La denuncia della Coldiretti: il maggior responsabile della produzione di rifiuti da imballaggio, con i due terzi del totale, è l'agroalimentare
Gli imballaggi pesano sulle tasche e sull’ambiente «fino al 30 per cento sul prezzo industriale di vendita degli alimenti». È quanto afferma la Coldiretti nel sottolineare che è soprattutto l’agroalimentare, con oltre i 2/3 del totale, il maggior responsabile della produzione di rifiuti da imballaggio.

«Gli imballaggi gettati nella spazzatura - sottolinea la Coldiretti - sono aumentati dal 2000 ad oggi di oltre 1 milione di tonnellate (+9 per cento) anche se è cresciuta oltre il 66 per cento la percentuale di riciclaggio».

Nell’alimentare spesso il costo dell’imballaggio supera quello del prodotto agricolo in esso contenuto, «come nel caso dei fagioli in scatola - specifica coldiretti - dove l’imballaggio incide per il 26 per cento sul prezzo industriale di vendita, mentre per la passata in bottiglia da 700 grammi si arriva al 25 per cento, per il succo di frutta in brick al 20 per cento e per il latte in bottiglia di plastica sopra il 10 per cento».

Coldiretti, dunque, consiglia di adottare comportamenti di acquisto consapevoli al momento di fare la spesa e favorire il consumo di prodotti che non producono imballaggi come l’acquisto diretto nelle aziende agricole o nei distributori di vino o di latte sfusi che consentono di risparmiare fino al 40 per cento rispetto al normale prezzo del latte fresco in vendita.

lunedì 25 agosto 2008

stop al furto del laptop

dal CORRIERE ONLINE

L'idea di un gruppo di ricercatori dell'Università di Washington
Il programma trova la rete a cui il computer viene collegato

C'è un software salva notebook
"Ritrova il pc rubato con un clic"

Sui Mac si può ottenere la foto del ladro. Presto la versione per cellulari


C'è un software salva notebook "Ritrova il pc rubato con un clic"

Foto test realizzate da Adeona

ROMA - Il furto di computer portatili è una pratica sempre più diffusa: basta un attimo di distrazione al bar, al parco o sulla metropolitana per vedere sparire il proprio notebook e con lui la tesi di laurea quasi conclusa, il progetto da consegnare in ufficio il giorno dopo e tutti i dati e le foto conservati gelosamente. Per trovare una soluzione a questo problema, un gruppo di ricercatori dell'Università di Washington, assieme ad alcuni colleghi dei campus della California, hanno dato vita ad "Adeona", un software pensato apposta per rintracciare il proprio computer.

Adeona. Il programma, che prende il nome dalla dea romana protettrice del ritorno, è il primo nel suo genere ad essere fornito gratuitamente e sotto una licenza GPL, quindi open source. Come dichiarano dalla home page del progetto i suoi creatori, i punti di forza di Adeona sono tre: rispetto della privacy, affidabilità e, appunto, la sua natura open source.

Il funzionamento. Il funzionamento di Adeona è semplice: il programma, eseguito in background, registra l'indirizzo IP attraverso cui la macchina è collegata alla rete. L'indirizzo viene poi crittografato e inviato a un sistema distribuito, pronto ad essere recuperato in caso di necessità: a differenza dei suoi predecessori, forniti a pagamento da aziende specializzate, Adeona non prevede l'invio dei propri dati ad un server centrale privato. Grazie all'indirizzo IP, è possibile rintracciare geograficamente il luogo da cui il nostro pc ha avuto accesso alla rete, ed andare a recuperarlo.

Quest'ultimo passaggio tuttavia, come consigliano gli stessi programmatori, è meglio lasciarlo fare alle forze dell'ordine, evitando di vestire i panni dei super eroi.

Come usare Adeona. Per utilizzare Adeona, basta andare nella pagina del download, scaricare il programma (dal peso di circa 2 Mb) ed installarlo. Il software è disponibile per i sistemi operativi Windows Vista e Xp, Mac OS X e Linux. Una volta installato, il programma chiede all'utente di scegliere una password, che servirà per criptare e decriptare i dati. Nella malaugurata ipotesi che qualcuno si appropriasse del pc, basterà così installare Adeona su un'altra macchina ed utilizzare la propria password per reperire i dati che ci servono. Nella versione per i sistemi Apple, è anche prevista un'opzione aggiuntiva: si può impostare il programma affinchè scatti con regolarità una foto con la webcam integrata, che immortalerà il malvivente responsabile del furto.

I punti deboli e i piani futuri. Purtroppo Adeona ha diversi punti deboli. Per funzionare è infatti necessario che il ladro si colleghi ad internet, che non disinstalli l'applicazione o che non formatti l'hard disk. Inoltre il software è ancora in fase beta (versione 0.2.1a), con numerosi bug da sistemare. Nonostante le limitazioni, i programmatori sono fiduciosi di poter migliorare la loro creatura. Tra le modifiche in arrivo una procedura di disinstallazione più complicata, il mascheramento del programma sulla task manager e soprattutto una versione pensata ad hoc per i cellulari, perchè anche i possessori di un iPhone possano dormire sonni tranquilli.

(25 agosto 2008)

venerdì 22 agosto 2008

LADRI DI PASTA


Pasta aumentata del 30,4% in un anno

Crescita dei prezzi a due cifre anche per pane (+13,2%) e latte (+11,8)

BOICOTTATE I PASTAIOLI LADRI
RISO E PANE IN CASSETTA CONTRO GLI SPECULATORI DEL VIVERE QUOTIDIANO

Sciopero del pane il 18 settembre. Intanto è stato fissato per il 18 settembre lo sciopero della spesa, l'iniziativa di protesta proclamata da Intesa consumatori (Adoc, Adusbef, Codacons e Federconsumatori) a cui ha già aderito l'associazione Codici, che quest'anno si tradurrà in un invito da parte delle associazioni a non acquistare il pane. «L'allarmante crisi economica che attraversa l'Italia e impoverisce sempre di più le famiglie - spiegano le quattro associazioni, rendendo nota la data dell'iniziativa - necessita di una dura lotta, ferme prese di posizione e la partecipazione di tutti. L'incessante escalation dei prezzi, soprattutto per i principali generi alimentari, continua infatti ad impoverire e a stremare i cittadini».

mercoledì 13 agosto 2008

la casta pro-fannulloni

LA SOLITA ALTRA CASTA DIFENDE. NON I LAVORATORI, MA I FANNULLONI – LA CGIL DIFENDE QUELLO CHE TIMBRAVA PER GLI ALTRI SETTE E DIFENDE I SETTE CHE, CHISSÀ, ANDAVANO AL MARE O AL BAR IN ORARIO DI SERVIZIO…


L’ALTRA CASTA
La Stampa - La solita altra casta difende. Non i lavoratori, ma i fannulloni. Difende quello che timbrava per gli altri sette e difende i sette che, chissà, andavano al mare o al bar in orario di servizio. O, come spiega la solita casta, volevano solo guadagnare tempo per riuscire a prendere il treno e rincasare. La solita casta, però, dimentica di dire una parola in favore degli otto che prenderanno il posto dei licenziati. Questo dovrebbe fare un sindacato, se non vuole esser casta.

giovedì 7 agosto 2008

effetto Brunetta

l dato fornito dal ministero della Funzione pubblica
"Equivale a 25 mila persone in più al lavoro"

E gli statali non si ammalano più
Crollo del 37,1% delle assenze

E gli statali non si ammalano più Crollo del 37,1% delle assenze

ROMA - Un crollo verticale del 37,1 per cento. Di malati e di relative assenze nell'unico settore del pubblico impiego. Diventiamo un paese più sano. E anche più efficiente. E' il risultato del monitoraggio ordinato dal ministro per la Funzione Pubblica Renato Brunetta, "il miglior antidoto contro i fannulloni" come lo ha ribattezzato ieri il sottosegretario Gianni Letta, per misurare l'effetto reale del primo mese di vita del decreto anti-assenze. "Risultati sorprendenti" roteava ieri gli occhi il ministro pregustando il dato diventato ufficiale oggi che fotografa le presenze negli uffici nel luglio 2008 rispetto al luglio 2007. Dati che secondo il dicastero si traducono in 25 mila persone in più al lavoro e, quindi, "più servizi e maggiore qualità delle prestazioni".

domenica 3 agosto 2008

SEMBRA DI SOGNARE

Assenteismo: pedinamenti e denunce record

Trenta lavoratori denunciati per truffa e peculato al Museo Baglio Anselmi di Marsala

ROMA - Ieri trenta dirigenti, istruttori tecnici e lavoratori socialmente utili sono finiti nel mirino delle Fiamme Gialle, che li ha denunciati per truffa e peculato. Se ne andavano dopo aver timbrato o non si presentavano affatto al lavoro nel Museo archeologico regionale «Baglio Anselmi» di Marsala. E proprio ieri il ministro della Funzione pubblica, Renato Brunetta, ha annunciato che la prossima settimana renderà noti dati che definisce «sorprendenti» sulla riduzione dell'assenteismo negli uffici pubblici, nel mese di luglio. In pratica una contrazione di ben oltre il 40 per cento.

Un crollo verticale, dopo il meno 10 per cento di maggio e il meno 20 per cento di giugno. Nemmeno un mese fa Brunetta aveva detto: «Staneremo gli assenteisti con la Guardia di Finanza. Quello che finora hanno denunciato i giornali e Striscia la notizia lo faremo noi». E così è stato a Marsala: appostamenti, pedinamenti, registrazioni con telecamere hanno documentato che i denunciati erano riusciti a eludere i sistemi di controllo duplicando i badge originali. In più, in soli quattro mesi, un gran traffico di telefonate «a sbafo» dal telefono di servizio (9mila dirette a 600 utenze dei dipendenti o dei loro familiari).

L'«effetto Brunetta» si dispiega dalle Alpi alle Piramidi (o quasi, sul canale di Sicilia). Fioccano le denunce, da parte di colleghi, da parte delle forze dell'ordine: la magistratura apre inchieste a raffica. E c'è persino un sito web (cittadinisoddisfatti.it) con una sezione dedicata alle segnalazioni del fenomeno. Qualche esempio. Dieci giorni fa, il 23 luglio, 27 dipendenti della provincia di Agrigento vengono denunciati dai Carabinieri. Il trucco usato era sempre quello dei cartellini elettronici duplicati, come a Marsala. Il 12 luglio, 70 denunce e addirittura 12 arresti scattano all'ospedale Santa Maria della Misericordia a Perugia, dopo la segnalazione di un militare dell'Arma. Alla Asl 1 di Napoli la caposala dell'ospedale Gesù e Maria denuncia alla magistratura l'assenteismo di un intero reparto, dal momento che il posto del primario era vacante. Il 10 luglio, alla Reggia di Caserta, l'Arma controlla a sorpresa le presenze dei 200 dipendenti. Quattro sono fuori senza permesso e vengono denunciati alla Procura di Santa Maria Capua Vetere.

Il 18 luglio è la volta di 4 dipendenti dell'Inpdap e il 24 luglio la denuncia scatta per 6 dipendenti della Provincia. Ad Aosta, i pm indagano tre donne e un uomo scoperti in flagranza di reato dagli agenti della Questura, coinvolta anche la Digos. A Trani a 20 assenteisti del Comune e 18 fiancheggiatori vengono notificati gli avvisi di chiusura indagini da parte della Procura. Il 31 maggio i Carabinieri di Gioia Tauro hanno eseguito 3 ordinanze di custodia cautelare, del gip Palmi. Un arresto c'è stato anche l'altro ieri a Messina: un'infermiera del Policlinico si confezionava falsi certificati di malattia. Assenteismo in calo grazie all'effetto Brunetta? «Questo lo dice lui, che adesso si diverte a fare il novello Torquemada, ma quando era europarlamentare è stato tra i più assenteisti» dice Gianni Baratta, segretario confederale Cisl. «Il merito non è mio» ribatte il ministro. «Il Paese si è svegliato, è finita la connivenza, è finita la tolleranza da parte di tutti: colleghi, dirigenti, organi di controllo, forze dell'ordine e magistratura. Sono veramente orgoglioso che il Paese abbia saputo reagire in così breve tempo, io ho solo capito che il tempo era maturo». Risultati così importanti permetteranno, secondo il ministro, di passare alla fase 2: «Non solo punire chi viola le regole, ma premiare chi lavora bene, premiare la qualità».

M.Antonietta Calabrò

lunedì 7 luglio 2008

la deriva: fuga di cervelli

L'allarme dei cervelli in fuga dall'Italia:
«Nel nostro paese solo clientele e nepotismo»

di Anna Maria Sersale
ROMA (7 luglio) - «Sono un ingegnere emigrato in Germania per ovvi motivi: soldi, trasparenza e migliori opportunità di carriera. L’Italia l’ho lasciata a malincuore, ma è il Paese delle raccomandazioni. Ho provato sulla mia pelle che non si sfugge alla logica delle clientele, degli imbrogli, delle scorciatoie. Abbiamo doti invidiabili, ma tutto è vano difronte a questo sistema vischioso che tarpa le ali ai giovani». Antonio F. racconta la sua storia di emigrato con la laurea in tasca. Il suo non è un caso isolato. «Entro il 2009 mi trasferirò a Zurigo per un dottorato, lascerò la mia famiglia a Roma. Mi ero ripromesso di restare, convinto che quello della fuga dei cervelli fosse un problema ingigantito dai media e che andare negli Stati Uniti per continuare gli studi fosse una moda. Poi ho fatto i conti con il mio futuro, l’ho guardato in faccia, e mi sono visto guadagnare 1.500 euro dopo 15 anni dalla laurea, se va bene. Mi sono visto a casa ancora a lungo, a chiedere i soldi per la benzina, ad aspettare il piatto in tavola la sera. A Zurigo, invece, avrò la possibilità di mantenermi. Mi dico che la patria, in fondo, è quella che mi dà lavoro. Andrò in Svizzera e poi chissà dove».

Fabio, giovane laureato in chimica, insieme a tanti altri ricercatori si è rivolto al Messaggero online dopo che abbiamo pubblicato i dati di una ricerca del Censis. I dati sono allarmanti, su carriere, retribuzioni e modalità di accesso al lavoro. Ma qual è la differenza tra lavorare in Italia e all’estero? Partiamo dal curriculum, che è lo strumento principale per presentarsi alle aziende. Ebbene, all’estero l’invio del profilo personale ha un riscontro, è uno strumento efficace per trovare lavoro, in Italia, invece, se il curriculum non è accompagnato da calorose segnalazioni è praticamente carta straccia. Ecco un dato: il 22,4% dei laureati, che hanno conseguito il titolo da tre anni, all’estero abbastanza frequentemente conquistano un contratto attraverso le inserzioni sui giornali o su Internet. In Italia la percentuale scende al 9%. Oltre confine l’accesso al lavoro tramite stage o tirocinio in azienda è molto più frequente. Da noi, invece, è alto il ricorso alla classica segnalazione di parenti e amici.

Quanto alla carriera, tra i lavoratori dipendenti quelli che all’estero a tre anni dalla laurea hanno una posizione di quadro o funzionario sono il 32,1%. Se ci spostiamo in Italia la percentuale scende al 17,1%. Ma i dati che saltano più agli occhi, brutalmente, sono quelli relativi alla retribuzione: è sotto i 1.000 euro netti al mese per il 24,6% dei giovani rimasti in Italia; contro il 10,2% di quelli che lavorano all’estero. Ma è guardando alla fascia alta che il confronto si fa impietoso: fuori dei confini nazionali il 43% ha uno stipendio che supera i 1.700 euro al mese. In Italia solo il 9,2% ha una analoga retribuzione. D’accordo che i soldi non sono tutto, d’accordo che in alcuni dei Paesi il costo della vita più alto può giustificare salari maggiori, ma il divario è enorme e l’impressione che la tua patria ti valuti meno, e dunque in un certo senso ti rifiuti, spinge a cercare fortuna altrove.

Ed ecco un’altra testimonianza: «Sono emigrato in Olanda più di dieci anni fa, laurea in legge, esperienze lavorative a Roma, nel campo informatico. Precarietà e incertezze erano pane quotidiano. Mi sono trasferito e qui, dopo tre mesi, avevo un lavoro decente, prima alla Shell, poi presso una società edilizia, poi presso una organizzazione internazionale, sempre nell’informatica. Tre anni fa mi sono spostato in Inghilterra dove ho trovato un nuovo lavoro, che svolgo con grande soddisfazione. Senza amici, senza raccomandazioni, senza essere un genio, mi sono sistemato». «All’estero la parola magica è una sola, meritocrazia - osserva George, anche lui in Olanda - In Italia clientelismo e nepotismo sono diffusi a tutti i livelli, essere bravi è sostanzialmente inutile».

L’emigrazione di ricercatori e laureati è uno dei problemi irrisolti. Esportiamo trentamila ricercatori l’anno e ne importiamo tremila. Un saldo drammaticamente negativo. La “fuga” dei cervelli ci costa otto miliardi di euro l’anno. La nostra capacità competitiva è progressivamente in calo e cresce il divario con gli altri partners. Costringiamo i ricercatori a fare le valigie e quando riusciamo a farli tornare, ma è raro che tornino, non siamo in grado di trattenerli. «Siamo schiacciati da un sistema gerontocratico che si autoalimenta - sostiene Francesco Mauriello, presidente dell’Adi, l’Associazione dei dottorandi e dei dottori italiani - Non diamo prospettive ai giovani. Eppure sono bravi, all’estero li prendono a scatola chiusa e li pagano bene. La fuga continua perché qui non si investe in ricerca, mancano adeguate dotazioni di laboratori e i finanziamenti arrivano col contagocce».

I ricercatori prima li facciamo partire, poi, quando tornano, non abbiamo abbastanza risorse per utilizzarli. I cervelli che abbiamo richiamato nel 2006 spendendo 3 milioni di euro in parte ancora vagano alla ricerca di una università o di un ente di ricerca che li prenda e li faccia lavorare. Molti dei 466 rientrati hanno già rifatto le valigie. Qualche altro aspetta, perché ha avuto delle promesse. Però i fondi destinati al ritorno in patria nel 2007 sono stati dimezzati, 1.500 euro. Per il 2008 non si sa quanti ne verranno stanziati. Tanto la situazione è fluida che i ”cervelli rientrati” hanno costituito un Coordinamento. «Se alla emigrazione massiccia - dicono - corrispondesse un flusso in ingresso altrettanto rilevante non ci dovremmo preoccupare, però non è così, l’Italia non ha capacità di attrarre gli stranieri».

Rob, irlandese da un anno e mezzo: «Sono arrivato che non sapevo dire nemmeno ciao, ora lavoro per una delle più grandi aziende del mondo con contratto a tempo indeterminato. Parlo due lingue e ho un elevato livello di professionalità. Qualche tempo fa sono tornato in Italia e cosa mi offrono? Due mesi di contratto a progetto e 800 euro al mese. Faccio presente che ne guadagno 2.000, ma niente. Così sono ripartito. A chi resta faccio tanti auguri». «Peccato che lo Stato sia assente - è il commento di un altro ricercatore all’estero - Ne conosco moltissimi di espatriati in Olanda, tutti se ne sono andati per lo stesso motivo: non erano raccomandati e non sopportavano più di essere penalizzati da un sistema che non riconosce il merito ma si regge sulle lobby e sulle clientele politiche. C’è gente che lavora al Centro spaziale di Noordwijk e che è arrivata in Olanda solo con la laurea e una certa conoscenza dell’inglese. Per loro l’obiettivo era quello di premiare i loro anni di studio con una realizzazione professionale all’altezza della preparazione. Ci sono riusciti».

Un sistema malato, il nostro, del quale ci dobbiamo liberare se vogliamo ridare speranze e prospettive alle generazioni che formiamo. Non possiamo continuare a regalare su un piatto d’argento i giovani sfornati dalle nostre università, i cui costi sono a carico del Paese.

venerdì 4 luglio 2008

132 euro all'anno in media per ogni automobilista

La stessa associazione amici polizia stradale, Asaps, chiede
"clemenza" in nome degli automobilisti tartassati. Ecco perché

Emergenza caro multe:
più 40 per cento dal '93 a oggi

di VINCENZO BORGOMEO




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Al caro carburanti, mutui, affitti e alimentari ora si aggiunge anche il caro multe: dal 1993 ad oggi il prezzo delle contravvenzioni è aumentato del 40 per cento, un record. Così violare il Codice della strada costa carissimo: per un semplice divieto di sosta si pagano 36 euro, ossia 70 mila lire, contro le 50 del 1993, mentre superare il limite di velocità fino a 40 km/h oggi costa 148 euro (286.568 di vecchie lire) e nel 1993 200mila.

A tutto ciò si è arrivati grazie a un articolo (il 195 comma 3) del Codice della strada che aggiorna ogni due anni il prezzo delle sanzioni amministrative per un importo pari all'intera variazione accertata dall'Istat dell'indice dei prezzi al consumo per le famiglie nei due anni precedenti. Ora il prossimo aumento - sarà del 5% - è previsto per gennaio e incredibilmente è la stessa Asaps, associazione amici polizia stradale, a chiedere "clemenza" in nome degli automobilisti tartassati: con una lettera aperta inoltrata dal presidente dell'Asaps Giordano Biserni ai tre ministri - della Giustizia Angelino Alfano, dell'Interno Roberto Maroni e delle Infrastrutture e Trasporti Altero Matteoli - l'Asaps propone di "congelare il rincaro delle multe e prevedere, piuttosto, un più consistente prelievo di punti dalle patenti di guida dei trasgressori".
Ma se un'associazione così vicina agli interessi della Polizia scende in campo per una cosa del genere un motivo c'è: un livello di pressione fiscale così forte se non induce gli automobilisti a fuggire dai posti di blocco di certo getta una cattiva luce su tutti gli agenti che vengono visti come esattori delle tasse più che come tutori dell'ordine.

D'altra parte questa richiesta non può essere considerata come un regalo per i trasgressori perché non va dimenticato che gli automobilisti - nonostante il consistente calo della sinistrosità rilevato negli ultimi due anni - non hanno beneficiato di alcuno sconto da parte delle compagnie assicurative.

Né si può dimenticare che la pressione economica delle multe sia arrivata a livelli record: le Polizie Locali (che riscuotono il 70% del totale delle sanzioni emesse da tutti i soggetti impegnati nella repressione delle violazioni, Polizia di Stato, Arma dei Carabinieri, Guardia di Finanza, ecc.) spillano agli italiani motorizzati un miliardo di euro l'anno: 132 euro in media per ogni automobilista. Il tutto per un impressionante record di quasi dieci milioni di multe: più di 26mila al giorno; 1.087 l'ora; 18 ogni minuto.
Ed è difficile parlare di interventi legati alla sicurezza stradale quando si scopre che fra le multe più gettonate al primo posto (5,7 milioni di sanzioni, al costo medio di 68 euro a colpo) ci sono le violazioni ai divieti e limitazione della circolazione nei centri abitati, ossia zone a traffico limitato (ztl), targhe alterne, blocchi del traffico e strisce blu.
O che al secondo posto, staccate a quota 2,7 milioni di multe, ci sono le violazioni al "divieto di sosta".


Si parla tanto della famosa logica di "prevenzione e non repressione" ma alla luce di questi dati oltre che a congelare gli aumenti delle multe bisognerebbe forse pensare seriamente a ridefinire il ruolo delle Polizie Locali, oggi impegnate allo spasimo nel ruolo di esattori.

martedì 24 giugno 2008

per un giudice mettere le mani nei bagagli dei passeggeri non basta per essere licenziati dalla SEA

Furti a Malpensa, il giudice:«Riassumetelo»
Il tribunale ha dato ragione all'operaio addetto allo smistamento bagagli, così è tornato a essere dipendente della Sea

MILANO - Furto aggravato ai danni dei passeggeri dell'aereoporto di Malpensa. E' questa l'accusa per cui F.D.A., un lavoratore dello scalo varesino, è stato rinviato a giudizio. E, di conseguenza, licenziato da Sea handling nell'agosto 2003. Oggi il tribunale lo reintegra. Il giudice del Lavoro, Francesca La Russa, ha dato ragione all'operaio addetto allo smistamento bagagli: il licenziamento è illegittimo. I fatti risalgono al 2000. Con l'operazione «open bag» la polizia individuò 31 addetti allo smistamento bagagli dello scalo di Malpensa intenti a frugare nelle valigie dei viaggiatori. Il tutto filmato dalle telecamere dell'aereoporto.
Alla fine si arrivò a 18 rinvii a giudizio per furto aggravato. E ad altrettanti licenziamenti. Solo tre lavoratori hanno impugnato il provvedimento. Uno di questi è appunto F.D.A. che dall'aprile scorso è tornato a essere un dipendente Sea. La polizia di frontiera della scalo di Malpensa, però, ha ritenuto che, nonostante la causa vinta, il lavoratore «non possieda i necessari requisiti di affidabilità ai fini della sicurezza aeroportuale per il rilascio del permesso di accesso alle aree sterili dell'aereoporto ». Non può quindi smistare i bagagli dei passeggeri. Perciò resta sì in carico dell'azienda, ma senza stipendio perché non può lavorare.
Interpellata, Sea preferisce non fare commenti. Puntualizza soltanto che il licenziamento per giusta causa è avvenuto non perché il signor F.D.A. in questione sia un ladro («Questo non lo sappiamo, lo deciderà il giudice nel processo per furto aggravato tutt'ora in corso») ma perché si è rotto un «rapporto di fiducia». In sostanza, secondo Sea «un dipendente che viene filmato mentre mette le mani nei bagagli di un passeggero non è più degno di fiducia. E non importa se ha rubato o no o se l'ha fatto solo per curiosità: semplicemente le valigie non si aprono. Mai». Queste motivazioni non sono però bastate al giudice. «Sea non ha indicato gli oggetti del furto contestato e le eventuali denunce dei passeggeri riferite al giorno di cui alla contestazione», recitano, tra l'altro, le motivazioni della sentenza. Ma la faccenda non finisce qui: Sea ricorrerà in appello.

sabato 21 giugno 2008

dal Corriere Online

Cgia Mestre rivede i dati Istat: la pressione fiscale «reale» in Italia è del 50%

L'associazione artigiani ha «stornato» il sommerso economico. «Chi è noto al fisco subisce prelievo ben maggiore del 42,1%»

VENEZIA - Secondo una stima della Cgia (Associazione artigiani e piccole imprese) di Mestre, nel 2006 la pressione fiscale «reale» che pesava sui contribuenti italiani era del 50%. Circa 8 punti in più del dato ufficiale dichiarato dall'Istat, 42,1%, sempre nel 2006. «L'Istat non ha sbagliato a fare i conti», sottolineano gli artigiani di Mestre. Ma la Cgia ha voluto «stornare» dalla ricchezza prodotta in Italia la quota addebitabile al sommerso, calcolando la pressione fiscale sul Pil reale. L'Istat infatti non fa altro che applicare le disposizioni previste dall'Eurostat (Istituto europeo di statistica) - precisa la Cgia - che stabilisce che i sistemi di contabilità nazionale di tutti i Paesi dell'Unione devono includere nel conteggio del Pil Nazionale anche l'economia non osservata.

ECONOMIA SOMMERSA - Ovvero il sommerso economico, che in Italia l'Istat ha stimato tra i 226,6 e i 249,9 miliardi di euro (ultimo dato disponibile riferito al 2006). In sostanza il nostro Pil nazionale (che nel 2006 è stato pari a 1.479.981 milioni di euro) include anche la cifra imputabile all'economia sommersa stimata annualmente dall'Istat. Ricordando che la pressione fiscale è data dal rapporto tra le entrate fiscali e il Pil prodotto in un anno, nel 2006 la pressione ha toccato il 42,1%. La Cgia ha invece «stornato» il sommerso, e facendo questa «operazione verità» di fatto il Pil diminuisce (quindi anche il denominatore) e pertanto aumenta il risultato del rapporto, ovvero la pressione fiscale». Ebbene, secondo la stima della Cgia nel 2006 la pressione fiscale «reale» ha oscillato tra il 49,7% e il 50,7%.

SPREMUTI DAL FISCO - «Nonostante la prudenza con la quale vanno usati questi dati - sottolinea il segretario Giuseppe Bortolussi - i risultati dimostrano che chi in Italia è conosciuto dal fisco subisce un prelievo fiscale ben superiore al dato statistico ufficiale. Per questo è assolutamente improrogabile una seria lotta conto il lavoro nero e l'abusivismo. Aumentando la platea dei contribuenti potremo così ridurre imposte e contributi a chi oggi ne paga più del dovuto».

mercoledì 18 giugno 2008

LE TASSE TASSATE: LA GRANDE TRUFFA DELLA BOLLETTA

Il puzzle bollette. Tasse e vecchi debiti

Elettricità e gas, 480 euro in più a famiglia

Guardare che cosa c'è dietro ai prezzi dei prodotti italiani dell'energia è un po' come aprire un vaso di Pandora: all'interno si scoprono voci bizzarre, che potrebbero addirittura avere un risvolto comico se non si traducessero automaticamente in un prelievo di denaro dalle tasche delle famiglie. Così è ad esempio per l'accisa che grava sul prezzo dei carburanti, che contiene una serie di prelievi che, in ordine temporale, vanno dal finanziamento della guerra di Etiopia del 1935 fino al contributo per il rinnovo del contratto degli autoferrotranvieri del 2004 passando per il Vajont, il Belice, l'alluvione di Firenze e altro. Imposte che si sono stratificate nel tempo e hanno contribuito a far sì che il 55% del prezzo del litro di benzina verde, o il 45% di quello del gasolio, sia costituito da tasse, Iva inclusa. Un discorso simile si potrebbe fare anche per la bolletta del gas, dove per i clienti «domestici» sotto i 200 mila metri cubi l'anno — soprattutto per le famiglie — sono sempre le imposte a fare la parte del leone: nella tariffa ricalcolata ogni trimestre dall'Autorità per l'energia, pesano per il 38%, come il costo della materia prima, il gas, che incide per il 37%. Il resto serve a remunerare l'«industria », dal trasporto allo stoccaggio fino alla commercializzazione all'ingrosso o al dettaglio. E considerando che il prezzo internazionale del gas è legato a filo doppio a quello del petrolio, non stupisce che negli ultimi anni il costo della materia prima sia quasi raddoppiato, passando dai 12,8 centesimi al metro cubo di inizio 2004 ai 21,65 di fine 2007 (sui 67,56 totali).

Un andamento che si è portato dietro, al rialzo, anche quello delle tasse. E' però con la bolletta elettrica che la metafora del vaso di Pandora trova la sua corrispondenza migliore. Come si legge nel libro Il prezzo da pagare, scritto a quattro mani da Stefano Agnoli e Giancarlo Pireddu (Baldini Castoldi Dalai editore) in quelle due-tre paginette che ogni due mesi vengono recapitate al domicilio degli italiani si trova il riassunto di qualcosa di più del semplice sport nazionale che è stato l'inasprimento della stretta fiscale. Nelle sue voci si trova il conto per ognuna delle scelte fatte nell'ultimo mezzo secolo di politica energetica di questo Paese. Si tratta dei cosiddetti «oneri di sistema», che pesano per un bell' 8,2% su quanto viene pagato, anche se il peso maggiore è riservato al costo di produzione (64%), al costo delle infrastrutture (14%) e alle immancabili tasse (un altro 14%). Così, mentre si parla di rilanciare un nuovo programma nucleare italiano, pochi utenti sono consci che con la «componente A2» della bolletta elettrica le famiglie ripagano ancora i costi per lo smantellamento delle quattro «vecchie» centrali nucleari avviato dopo il referendum del 1987. Si tratta di uno dei tanti paradossi nazionali dell'energia: l'uscita repentina dalla produzione (e vendita) di elettricità di fonte atomica ha impedito di accantonare nel tempo, come avviene normalmente nel resto del mondo, le risorse finanziarie per spesare il «decommissioning » degli impianti. E così non è rimasto che addebitarle in bolletta: dal 1987 al 2024, l'anno della bonifica dell'ultimo sito (ma solo se ci sarà anche il deposito nazionale delle scorie), l'onere può essere calcolato in circa 12 miliardi di euro, caricati centesimo per centesimo su ogni chilowattora consumato. Un prelievo che per il 2007 valeva circa 280 milioni e nel 2008 sarà di 520 milioni. E che dire della «componente A3» della bolletta medesima, voce che racchiude uno dei più rilevanti trasferimenti, non immediatamente manifesti, che avvengono dalle tasche dei consumatori in favore di aziende elettriche e imprese? Sotto questa voce i contribuenti italiani finiranno per finanziare nel periodo 1992-2021 le industrie che vendono al Gestore del sistema elettrico (Gse) dell'energia formalmente prodotta con fonti «pulite» (e rinnovabili) ma che in realtà deriva da normali, e inquinanti, fonti fossili ed è ottenuta persino con i residui pesanti della raffinazione del petrolio, il cosiddetto «tar». Un'operazione che costerà alle tasche dei consumatori 12 miliardi di euro. Si tratta del risultato del cosiddetto provvedimento «Cip6» varato nel 1992: all'indomani dell'improvvisa uscita dal nucleare l'Enel fatica a venire incontro alla domanda di energia e a coprire i consumi. Ecco allora che si fa ricorso all'industria privata, a coloro che hanno continuato e produrre elettricità per il proprio consumo anche dopo la nazionalizzazione del 1962-63. Si decide cioè di incentivare dell'elettricità prodotta da fonti «rinnovabili» e «assimilate», ovvero sole, vento, acqua, risorse geotermiche, maree, rifiuti e biomasse. Ma dietro alla burocratica definizione di «assimilate» si nascondono risorse fossili destinate a impianti di cogenerazione (cioè energia e calore insieme).

Un contratto «Cip6» è assai lucroso: gode di otto anni di incentivi e può durare fino a vent'anni. La mano pubblica deve ritirare quell'energia pagandola a prezzi fuori mercato. La differenza con ciò che ne ricava vendendola sul mercato da dove arriva? La risposta è semplice: dalle bollette. Il conto recente? Più di tre miliardi di euro l'anno negli ultimi anni, circa 3,3 miliardi nel 2007 e 3.160 milioni nel 2008. Le sorprese della bolletta non si fermano qui, perché alla successiva voce «A4» sono conteggiate alcune agevolazioni, come quelle riconosciute a soggetto come le ex Acciaierie di Terni (Acciaierie ThyssenKrupp, Cementir e Nuova Tic), la Alcoa per gli stabilimenti di Porto Vesme e Fusina, e le Ferrovie dello Stato come risarcimento per le centrali idroelettriche trasferite senza indennizzo all'Enel al momento della nazionalizzazione. Proseguiamo: ci sono le voci «A5» (ricerca di sistema) e quella «A6». Quest'ultima merita attenzione, perché attiene anche ai risarcimenti da riconoscere all'Enel dopo la liberalizzazione del mercato del '99, come compensazione per gli investimenti non redditizi dovuti al «servizio universale» da offrire in tutto il Paese.

Ma all'interno di questi costi che gravano sulle spalle dei consumatori c'è anche quello relativo agli oneri in più per il gas naturale importato dalla Nigeria. Fu un caso spinoso: il gas doveva arrivare direttamente in Italia a Montalto di Castro, ma lì il rigassificatore non si riuscì a fare. Per evitare di pagare salate penali l'ente elettrico convinse i francesi di Gaz de France a prenderlo in Bretagna e a fare uno scambio con l'Eni. Un favore a pagamento, ovviamente. Scaricato dove? In bolletta: nel 2007 ha pesato per 150 milioni. In bolletta si trovano anche le componenti «Mct» (compensano i comuni che ospitano depositi di scorie radioattive), la voce «Int» (finanzia gli sconti praticati ai grandi utenti che accettano l'interruzione delle forniture in caso di eventi eccezionali) e la «Uc4», che tiene in vita imprese elettriche minori risparmiate dalla nazionalizzazione: quelle sulle isole distanti dalla costa, ma non solo, visto che c'è anche Capri. Ce n'è insomma per tutti i gusti. Ma poteva mancare la beffa finale? Sugli «oneri di sistema», che sono definibili come elementi «parafiscali», se non fiscali del tutto, le famiglie pagano anche le tasse. Un paradosso che fa finire altri 700 milioni di euro l'anno nelle casse dello Stato.

Massimo Sideri
18 giugno 2008

giovedì 10 aprile 2008

chi comanda in Alitalia

IN ALITALIA COMANDANO I SINDACATI (NEL 2005 SCIOPERI PER 496 ORE: 3 ORE OGNI 24)
GLI INCREDIBILI PRIVILEGI DI PILOTI E HOSTESS: VOLANO IN MEDIA 98 MINUTI AL GIORNO
IL TASSO DI EFFICIENZA PER DIPENDENTE È PARI A METÀ DI QUELLO DELLA LUFTHANSA


Vivono in un mondo a parte, dove tutto è dorato. Da sempre veri padroni dell'azienda, piloti e assistenti di volo si sono dati delle norme di lavoro consone al loro status (a proposito: i capintesta dei sindacati degli autisti dei cieli hanno una speciale indennità economica che percepiscono anche se se ne stanno incollati a terra tutto l'anno). Secondo il regolamento dell'Enac, dove è specificato che hanno diritto a riposare su poltrone con una reclinabilità superiore al 45% e munite di poggiapiedi regolabile in altezza, non devono volare più di cento ore nel corso del mese.

Anzi nei 28 giorni consecutivi, come hanno preferito scrivere: e si vede che per loro è sempre febbraio. Nell'intero anno, cioè nei dodici mesi (se non hanno modificato a loro uso e consumo pure il calendario) il tetto non è, come da calcolatrice, mille e 200 ore (100 per 12) ma 900, e vai a sapere perché. Nel contratto, che l'azienda si rifiuta di fornire ai giornalisti, come del resto qualunque altro dato sulla produttività dei dipendenti, l'orario però si riduce. Nel medio raggio, la barriera scende a 85 ore al mese. Che nel trimestre non diventano 255, ma 240. E nell'anno non arrivano, come l'aritmetica sembrerebbe suggerire, a mille e 20, ma a 900.

Ma non è neanche questo il punto: fosse vero che volano così tanto (tra gli assistenti di volo l'assenteismo è all'11%). I numeri tracciano un quadro un po' diverso e dicono che nel medio-corto raggio gli steward e le hostess (alla fine del 2007, 480 di queste ultime su 4300, cioè l'11%, erano praticamente fuori gioco perché in maternità o in permesso in base alla legge che consente di assistere familiari gravemente malati) restano tra le nuvole per non più di 595 ore l'anno. Vuol dire 98 minuti al giorno, il tempo che molti Cipputi impiegano per fare su e giù tra casa e fabbrica. A titolo di raffronto, un assistente di volo della Lufthansa vola 900 ore, uno della Iberia 850 e uno della portoghese Tap 810. Restando in Italia, una hostess di AirOne si fa le sue belle 680 ore.
I piloti, poi, alla cloche sembrano quasi allergici: la loro performance non va oltre le 566 ore, che significano 93 minuti al giorno. I loro pari grado riescono a pilotare per 720 ore all'Iberia, per 700 alla Lufthansa e all'AirOne, per 680 alla Tap e per 650 all'Air France. I nostri, insomma, non sono esattamente degli stakanovisti: in media fanno, tra nazionale e internazionale, 1,8 tratte al giorno, contro le 2,4-2,75 dei colleghi di AirOne. In compenso, sono molto più cari di tutti gli altri. Un assistente di volo con una certa anzianità può arrivare a costare ad Alitalia 86 mila e 533 euro, contro i 33 mila che deve mettere nel conto la compagnia di Toto (AirOne, ndr ).

Il comandante di un Md80 dell'azienda della Magliana ha un costo del lavoro annuo pari a 198 mila e 538 euro. Per la stessa figura professionale i concorrenti italiani non sborsano più di 145 mila euro. Sempre restando allo stesso tipo di aereo, per pagare il pilota Alitalia ha bisogno di 108 mila e 374 euro, tra i 28 e i 33 mila in più di AirOne o di un'altra azienda italiana. Il mix di orari da impiegati del catasto e stipendi da superprofessionisti crea un cocktail che risulterebbe micidiale per qualunque azienda: facendo due conti viene infatti fuori che alla fine dell'anno Alitalia spende per ogni ora volata da un suo comandante qualcosa come 350,8 euro. Contro i 207,1 di AirOne. Una differenza del 69,4% che manderebbe fuori mercato chiunque. Soprattutto se si considera anche che un aereo della ex compagnia di bandiera viaggia con un equipaggio superiore di un buon 30% rispetto alla media dei concorrenti.

Il risultato finale è che in Alitalia il tasso di efficienza per dipendente è pari, secondo i calcoli dell'Association of European Airlines, a poco più della metà di quello che può vantare la Lufthansa. Che i passeggeri trasportati sono 1.090 per dipendente, contro i 10 mila e 350 di Ryanair. E che nel 2004 il ricavo medio per ogni lavoratore impiegato non andava oltre i 199 mila euro, poco più di un terzo rispetto a quanto registrava ad esempio Ryanair (513 mila euro).

In Alitalia comandano i sindacati (che nel solo primo semestre del 2005 hanno proclamato scioperi per 496 ore: quasi 3 ore ogni 24). E si vede. Il contratto in vigore dal 1° gennaio 2004 dice che, nel medio raggio, una hostess o un pilota non possono essere utilizzati per più di 210 ore al mese (che, con il solito giochino, diventano 600 nel trimestre e 1.800 nell'anno). Ebbene, se uno di loro parte da Roma per andare a prendere servizio a Milano la metà della durata del viaggio che lo vedrà impegnato nelle parole crociate viene considerata servizio.

Francesco Mengozzi

La tabella dell'Enac che stabilisce, a seconda dell'orario di inizio del turno, su quante tratte continuative può essere impiegato il personale navigante prevede cinque diverse ipotesi. Che salgono a diciassette nell'accordo sottoscritto da azienda e sindacato. Dove è stabilito per il personale navigante il diritto a 33 giorni di riposo a trimestre (ad AirOne sono 30), che aumentano fino a 35 per chi è impegnato nel lungo raggio. In base al contratto, al termine di ogni volo deve essere garantito un riposo fisiologico di 13 ore, che sul lungo raggio deve risultare invece pari al numero dei fusi geografici attraversati moltiplicato per otto, con un minimo però di 24 ore. Boh.

Semplicemente geniale è poi il nuovo sistema retributivo, in vigore dal 1° gennaio 2005. Sono rimasti, ovviamente, lo stipendio base (quattordici mensilità) e l'indennità di volo minimo garantito: quaranta ore, che uno le faccia o meno. Le dieci voci che componevano la parte variabile della retribuzione di un pilota (compreso il cosiddetto «premio Bin Laden» corrisposto, dopo l'attentato alle Torri gemelle di New York, a tutti quelli che viaggiano in Medio Oriente e dintorni) sono state tutte sostituite da un'unica indennità di volo giornaliera (per un comandante è pari a 177 euro se è impegnato sul lungo raggio e a 164 se vola sul medio, cifre alle quali va sommata la diaria, che sono altri 42 euro, per un totale che può quindi arrivare a 219 euro). Indennità che scatta tutta intera anche se il pilota sta alla cloche solo per mezz'ora o semplicemente si trasferisce all'aeroporto da dove prenderà servizio. E perfino se il suo volo viene cancellato dopo che lui ha già raggiunto quello che doveva essere lo scalo d'imbarco. Per di più, aumenta se c'è uno spostamento dei turni rispetto al calendario originale.

Siccome poi lavorare stanca, il contratto prevede l'istituzione di una Banca dei riposi individuali dove confluiscono i crediti che si ottengono per esempio quando l'aereo viaggia con personale ridotto (un riposo ogni due giorni) e dalla quale hostess e piloti possono attingere pure degli anticipi. Non è invece dato sapere se le parti hanno raggiunto un accordo su una nuova indennità graziosamente prevista nell'ultima intesa: il premio di puntualità, che per i passeggeri assume davvero il sapore della beffa. Mentre è alla direttiva dell'Enac che bisogna tornare se si vuole conoscere la dettagliatissima disciplina della cosiddetta «riserva», i periodi di tempo nei quali il personale navigante deve essere pronto a rispondere a un'improvvisa chiamata.

Premesso che si può essere messi in riserva solo dopo aver goduto di un riposo, si stabilisce che la metà del tempo trascorso a casa con le pantofole ai piedi va considerata come servizio. Bingo. Di più: che se l'attesa si consuma inutilmente perché il telefono non trilla, e dev'essere proprio per lo stress, scatta un successivo periodo di riposo di almeno otto ore, che in alcuni casi salgono a dodici. Ed è sempre il premuroso Enac a stabilire che a piloti e hostess, una volta a bordo, deve essere dato da mangiare una volta ogni sei ore, come ai pupi, e adeguatamente, «in modo da evitare decrementi nelle prestazioni».

Di alcuni privilegi o istituti incomprensibili nessuno ricorda neanche l'esatta origine. Ci sono e basta. Così, le hostess continuano ad avere una franchigia di ventiquattr'ore al mese, che in pura teoria dovrebbe coincidere con l'inizio del ciclo mestruale, ma si racconta del caso di una di loro che ha chiesto la giornata del 31 come permesso per il mese di dicembre e quella del 1° per il mese di gennaio: misteri del corpo femminile. Sempre le assistenti di volo, quando vanno in maternità vengono retribuite per tutto il tempo con lo stesso stipendio guadagnato nell'ultimo mese di servizio, che, guarda un po', svolgono regolarmente sul lungo raggio, per far salire l'importo della busta paga. I piloti, invece, non possono atterrare due volte nello stesso scalo in un solo giorno. La logica della regola, che pare non sia neanche scritta ma frutto della consuetudine, è imperscrutabile.

L'aereoporto di Fiumicino

La conseguenza, però, è chiara: la crescita delle spese per le trasferte. A partire da quelle per gli alberghi, che in Alitalia vengono scelti da un'apposita commissione dopo attento esame dei loro requisiti: con il risultato che l'importo medio è superiore del 45% a quello sostenuto dagli altri vettori. Solo per le 300 stanze prenotate tutto l'anno per i dipendenti che, anziché essere trasferiti a Malpensa, vanno su e giù da Roma, la compagnia ha in bilancio 45 milioni. Nella babele dei benefit, per un certo periodo tutto il personale viaggiante ha poi goduto di una speciale indennità per l'assenza del lettino a bordo di alcuni 767-300: alcune centinaia di euro che venivano corrisposte anche a chi volava su aerei dotati delle cuccette in questione.

I lavoratori più coccolati d'Italia quando viaggiano per piacere godono di una politica di sconti davvero generosa. Argomento sul quale l'azienda ha di nuovo una tale coda di paglia da rifiutarsi di fornire chiarimenti. Ma è il segreto di Pulcinella: i dipendenti (e con loro i pensionati) hanno diritto ad acquistare (anche per i loro cari: figli e coniugi o conviventi) i biglietti con una riduzione del 90% sulla tariffa piena, se rinunciano al diritto alla prenotazione. Il taglio scende invece al 50% se vogliono il posto garantito, magari perché vanno a festeggiare l'ultima promozione, che in Alitalia non si nega davvero a nessuno. Nel 2007 la direzione per la finanza dell'azienda della Magliana poteva contare su 152 persone: 20 dirigenti, 52 quadri e 80 impiegati. In quella per il personale i soldati semplici (61) prevalevano di una sola unità sui graduati (60: 25 dirigenti e 35 quadri).

Dev'essere anche per questo che il consiglio di amministrazione dell'azienda ha sentito la necessità di garantirsi l'ombrello di una polizza assicurativa a copertura di possibili azioni di responsabilità nei confronti di chi ha guidato la baracca. E si è reso così complice dei sindacati. Ai quali invece nessuno potrà mai presentare il conto.


Dagospia 09 Aprile 2008

mercoledì 9 aprile 2008

l'altra casta

CGIL, CISL, UIL: L’ESERCITO DEGLI INTOCCABILI CHE CI COSTA QUASI 2 MILIARDI DI EURO
UN LIBRO-BOMBA METTE IL DITO SU UNA PIAGA PIÙ PURULENTA DI QUELLA DEI PARTITI
QUALE PARTITO PUÒ SPENDERE QUANTO LA CGIL: 50 MLN € PER UN CORTEO A ROMA?


Una casta all’ombra dei suoi consolidati privilegi s’aggira per l’Italia, aprendo e chiudendo trattative sulla pelle ormai lisa dei lavoratori, oltre che dei contribuenti. E nel paese bollito in sacche di spreco, gonfie di fatturati miliardari e bilanci segreti, mentre lo Stato paga i settecentomila delegati (sei volte di più dei Carabinieri), che a noi costano 1 miliardo e 845mila euro l’anno, esce un libro, ustionante come acido muriatico negli occhi della Triplice.

S’intitola «L’altra casta. Privilegi. Carriere. Stipendi. Fatturati da Multinazionale. L’inchiesta sul sindacato» (da domani in libreria, con lancio da strenna natalizia) il documentato volume Bompiani di Stefano Livadiotti, firma del settimanale «L’Espresso», che in 236 pagine (prezzo 15 euro) mette il dito su una piaga purulenta quanto quella dei partiti. Contrordine, compagni, dopo che Diliberto ha ceduto il proprio posto in lista a un operaio della Thyssen, intanto che il suo vecchio sodale Cossutta lo accusa di «plebeismo demagogico»?

Ma sì, è ora, è ora: potere a chi lavora. Sul serio, però, non come i membri dell’altra casta, quella sindacale, i cui permessi equivalgono a un milione di giorni lavorativi al mese, costando al nostro sistema 1 miliardo e 854 milioni di euro l’anno. E c’è da giurarci che il trio di sigle si arrabbierà parecchio leggendo l’impressionante dossier, proprio mentre cerca di sopravvivere a se stesso, magari sulle carcasse di Alitalia.

Lo strapotere delle tre grandi centrali confederali, Cgil, Cisl e Uil, è nell’occhio del ciclone da un ventennio, tanto che, in base ai sondaggi, un italiano su venti si sente pienamente rappresentato dalle sigle sindacali e meno di uno su dieci dichiara di averne fiducia. Difficile affidarsi ai sindacati, che promettono bilanci consolidati, salvo poi evitare di trasferirli nero su bianco.

Il radicale Daniele Capezzone
© Foto U.Pizzi

Ma in che modo l’altra casta è diventata intoccabile, quando anche i sassi sanno che se c’è un problema di costi della politica, esso riguarda pure il sindacato, teso a intimidire la collettività con la propria capacità di mobilitazione? «Il giro d’affari di Cgil, Cisl e Uil ammonta a 3.500 miliardi di vecchie lire e il nostro è un calcolo al ribasso», avvertiva nel 2002 il radicale Capezzone.
Se del Quirinale si sa che spende il quadruplo di Buckingham Palace, fare i conti in tasca all’altra casta, lardellata di un organico di 20mila dipendenti, è questione controversa, tanto diversificate risultano le sue fonti di guadagno. La slot machine più veloce coincide con le quote versate dagli iscritti: l’1 per cento della paga-base. E i pensionati? Fruttano circa 40 euro l’anno, che però fanno brodo, nel sostituto d’incasso complessivo: 1 miliardo l’anno.
All’erogazione di liquidità, poi, pensano le aziende, con le trattenute in busta paga ed ecco bypassato il costo dell’esazione. E i soliti pensionati, visto che anche la miseria è un’eredità? Provvedono gli enti di previdenza: nel 2006 l’Inps ha girato 110 milioni alla Cgil, 70 alla Cisl e 18 alla Uil. Eppure, nel 1995 Marco Pannella promosse un referendum per abolire l’automatismo della trattenuta in busta paga, regalino vintage (del 1970) dello Statuto dei lavoratori. Nonostante gli italiani abbiano votato a favore, il meccanismo fu salvato comunque dai contratti collettivi.

Quanto al rinnovo periodico della delega, per il cui tramite il pensionato autorizza l’ente previdenziale a trattenersi una quota sulla sua pensione, si è fatto in modo d’insabbiare l’emendamento al decreto Bersani (presentato da Fi), che rompeva le uova nel paniere sindacale. E siccome i pensionati sono poveri, ma tanti, è nei loro gruzzoli che si ficcano i Caf, quei centri di assistenza fiscale, trasformati in business per il sindacato. Gli enti previdenziali, infatti, pagano per le dichiarazioni dei redditi dei pensionati: nel 2006 l’Inps ha travasato ai 74 Caf convenzionati 120 milioni.

Il leader della Cgil Guglielmo Epifani con la moglie Giusy
© Foto U.Pizzi

Così Cgil, Cisl e Uil, unite, hanno incassato 90 milioni circa. Invano la Corte di giustizia europea, persuasa che il monopolio dei Caf violasse i trattati comunitari, tre anni fa mise in mora l’Italia, con qualche lettera di richiamo. Ma se i bramini dei Caf vanno sotto schiaffo, quelli dei patronati, le strutture d’assistenza ai cittadini per le pratiche previdenziali, la cassa-integrazione e i sussidi di disoccupazione, non si toccano. E si estendono dall’Africa al Nordamerica, per tacere dell’Australia, con conseguente sospetto che svolgano un ruolo attivo nel pilotare il voto degli italiani all’estero.



Nel 2006, l’Inps ha speso 248 milioni, 914mila e 211 euro tra Inca-Cgil, Inas-Cisl e Ital-Uil. Altro business in cui affondare le mani, è quello della formazione. Ogni anno, l’Europa manda in Italia 1 miliardo e mezzo di euro, per la formazione professionale. E 10 dei 14 enti, che annualmente si spartiscono metà dei finanziamenti nazionali, sono partecipati da Cgil, Cisl e Uil.

Ma la vera forza dell’altra casta viene dai beni immobili, patrimonio sterminato, tutto da dissotterrare, mentre la Cgil conta 3mila sedi in Italia, di proprietà delle strutture territoriali; la Cisl, 5mila e la Uil concentra gli investimenti sul mattone in una società per azioni, controllata al cento per cento dalla Labour Uil, con 35 milioni e 25mila euro di immobili in bilancio. Va da sé che gli inquilini Vip di tanto bendiddio abitativo sono loro, i vecchi mandarini con un piede nella jacuzzi ai Parioli a un altro sulla pista di Fiumicino.

2 – “SONO PIÙ RICCHI E POTENTI DEI PARLAMENTARI”…
Mariateresa Conti per “Il Giornale”


Stefano Livadiotti, leggere il suo libro inchiesta mette i brividi. Chi fa più danni, la casta della politica o quella dei sindacati?
«Beh, il sindacato danni ne ha fatti eccome, pensiamo a come è stata gestita la vicenda Alitalia. Voglio però precisare una cosa: il mio non è un libro contro il sindacato come istituzione ma contro la sua degenerazione, la sua incapacità di rappresentare gli interessi degli iscritti. Non è un caso che tutti i sondaggi, che io cito nel primo capitolo, mettano in evidenza proprio il rigetto della base».

Bonanni allo stadio Olimpico con la moglie
© Foto U.Pizzi

Quale delle due caste ha maggior peso?
«Quella del sindacato, non c’è dubbio, è più ricca e potente di quella della politica. Lo è per numeri - i delegati sono ben 700 mila - e anche per ricchezza. Quale partito può permettersi di spendere oltre 50 milioni di euro per portare in piazza i propri iscritti, come ha fatto la Cgil nel 2002 con il corteo a Roma in difesa dell’articolo 18?».

E per garantirsi i privilegi le due caste si aiutano...
«C’è un calcolo nel libro: i parlamentari che hanno alle spalle un’esperienza nel sindacato, se si mettessero insieme, sarebbero il terzo gruppo sia alla Camera sia al Senato. Ovvio che poi facciano quadrato per garantire i privilegi, come la mancanza di controlli».

Come è nato questo libro?
«Quasi per caso. Non sono un esperto di sindacato, ho curato l’estate scorsa l’inchiesta de L’Espresso e mi sono accostato a questo mondo».

È possibile scardinare questo sistema?
«Non credo, o comunque ci vorrà tempo. È un problema di mentalità che va cambiata».


Dagospia 08 Aprile 2008

sabato 5 aprile 2008

BAMBOCCIONI PRECARI E INDEBITATI

l'epiteto di Padoa-Schioppa suona come l'ennesimo, gravissimo torto inflitto a una generazione che subisce l'endemica mancanza di meritocrazia e un indebitamento pubblico unico in Europa.
G.C.

dal "corriere online"

La «Peggio gioventù»? I 30enni di oggi

Una serie di record negativi per l'Italia, fanalino di coda su quasi tutti gli indicatori rispetto ai Paesi europei

SONDAGGIO
Secondo una ricerca dell'Università Cattolica di Milano «i giovani italiani sono quelli che contano meno in Europa». Siete d'accordo?

MILANO - Se la condizione giovanile di questi anni trova nell’ultimo film di Virzì «Tutta la vita davanti» una rappresentazione briosa, condita di ironia, dove i drammi dei protagonisti sono in qualche modo sublimati dall’arte, di fronte a dati oggettivi che fotografano il reale disagio dei trentenni nell’Italia di oggi, a pochi giorni dal voto, l’ironia scompare del tutto. Il prof. Alessandro Rosina, dell’Istituto di Demografia della Cattolica di Milano, ha presentato nell’ateneo di Largo Gemelli i risultati di una ricerca dal titolo «Generazione? Un ritratto degli under 35 italiani», impietosa radiografia su quei milioni di ragazzi che hanno studiato da europei e si ritrovano a 30 anni precari e per giunta «bamboccioni».

INDICATORI - La ricerca elenca una serie di record negativi, che ci vedono fanalino di coda su quasi tutti gli indicatori rispetto ai Paesi europei. Secondo Rosina «i giovani italiani risultano avere il minor peso elettorale di tutta Europa; hanno la più bassa scolarizzazione e occupazione, i salari sono fra i più bassi. Il nostro Paese ha il sistema previdenziale più iniquo e al contempo il maggior debito pubblico ereditato dalle generazioni precedenti. In Europa i giovani italiani sono quelli che contano meno dal punto di vista sociale, economico, demografico e politico».

DE-GIOVANIMENTO - Le ragioni sono in parte congiunturali, ma prevalentemente politiche. Anzitutto i giovani contano sempre meno dal punto di vista demografico e quindi elettorale. «Dati Eurostat indicano che all’inizio degli anni '90 i 15-24enni erano quasi il doppio rispetto ai 65-74enni, oggi le due fasce si equivalgono». In molti Paesi europei gli under 25 sono più del 30% della popolazione, «l'Italia è l’unico paese sceso sotto la quota del 25%. Più che di "invecchiamento" sarebbe più corretto parlare di de-giovanimento della popolazione». Inoltre la preparazione scolastica più alta che in passato, non incide, per via della mancanza di meritocrazia, sulle prospettive occupazionali: «siamo l’unico grande Paese in Europa con un solo 15-25enne occupato su quattro».

PENSIONI - Esiste poi il nodo previdenziale. Chi ha cominicato a lavorare dalla metà degli anni '90, «andrà in pensione più tardi e riceverà circa il 20-30% in meno». Le riforme degli ultimi 10 anni hanno infatti lasciato inalterati i requisiti e il trattamento delle generazioni più vecchie «e addossato sui più giovani i costi dell’invecchiamento della popolazione». Proprio su coloro che per primi hanno affrontato la condizione di precarietà strutturale nel lavoro, alla quale la politica non ha fin ora saputo offrire alcun concreto sistema di ammortizzatori. «La stessa spesa sociale in Italia è assorbita per lo più dall’old age (61% contro il 47% della media europea, dati Eurostat) e siamo il Paese europeo che destina meno risorse verso le giovani generazioni. Ed è per questo che si appoggiano fortemente alla famiglia di origine, il loro vero ammortizzatore sociale».

DEBITO PUBBLICO - I fondi per i più giovani tra l’altro ci sarebbero. Peccato che siano prosciugati dagli interessi sul debito pubblico, che dagli anni '80 (quando era al 60%) non smette di crescere. Negli ultimi anni è rimasto sistematicamente sopra il 104% del Pil, circa 1600 mld di euro che producono interessi annui per 65 mld (pari al 4,5% del Pil), «più o meno la percentuale che altri stati destinano alla spesa sociale e ai propri giovani, cioè al proprio futuro» afferma Rosina. Chi è entrato nella vita adulta dalla metà degli anni '90 ha ereditato il macigno di un debito che non ha contribuito a costituire e del quale non ha beneficiato in alcun modo. Si trova invece a doverne pagare il conto. Si tratta di una condizione profondamente iniqua, visto che da noi tale debito non è stato formato affatto per potenziare le prospettive per le giovani generazioni e di crescita del Paese, ma per proteggere il livello di benessere e di status degli adulti/anziani, scaricandone le conseguenze sui figli». La generazione che è cresciuta sulle ali del boom economico è stata dunque «più brava a indebitarsi che a produrre ricchezza». Ed è quella stessa a cui 12 milioni di 18-34enni, il popolo dei «bamboccioni», il prossimo 12 aprile, dovrà rinnovare la propria fiducia.

Alessandro Di Lecce