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venerdì 6 maggio 2011

CINA: VERSO IL CONTROLLO TELEMATICO TOTALE

Istituiti nuovi controlli
su Internet mentre la tv
vieta i film di spionaggio e crimine

ILARIA MARIA SALA
HONG KONG
Istituzione di un nuovo ufficio per coordinare i controlli di Internet, proibizione di teletrasmettere film che includono immaginari viaggi nel tempo, ma anche quelli di spionaggio e di crimine, e l’ex ministro della Pubblica Sicurezza, Zhou Yongkang, membro del Politburo del partito comunista cinese, che propone un database nazionale che assembli tutte le informazioni di ogni individuo, per meglio «amministrare la società». Di questi tempi, in Cina, proibizioni e controlli sembrano andare particolarmente di moda.

Per quanto riguarda Internet, l’annuncio dato mercoledì non è dei più chiari: viene notificato che è stato affidato ad una nuova agenzia centralizzata il compito di regolare in tutta la sua interezza quanto avviene sul Web nel Paese, ma non specifica se questa nuova agenzia, che si chiamerà Ufficio statale per le informazioni su Internet, sostituirà i vasti apparati di controllo della Rete già esistenti. E’ stato però specificato, in un comunicato, che il nuovo Ufficio «dirigerà lo sviluppo delle industrie online di videogiochi, pubblicazione e video», e si occuperà anche della diffusione della propaganda governativa su Internet — nonché avere il compito di «investigare e punire i siti Web che violano le leggi e i regolamenti». Inoltre, sarà incaricato di supervisionare gli Internet provider per «migliorare l’amministrazione della registrazione dei nomi di dominio, la distribuzione di indirizzi IP, la registrazione di siti Web e dell’accesso a Internet». Insomma, controllerà tutto.

Appena tre giorni prima la rivista teorica del Partito comunista cinese, «Qiushi», o «Ricerca della verità», ha pubblicato un articolo scritto da Zhou Yongkang, l’ex-ministro della Pubblica Sicurezza ed attuale membro del Politburo, dove viene avanzata la proposta di costruire una database dove ognuno dei 1,34 miliardi di cinesi siano schedati in modo completo, creando una sorta di supercarta d’identità in cui sarebbero anche registrati i dati riguardanti il livello di istruzione, il curriculum lavorativo e quello fiscale. A queste informazioni andrebbe aggiunto anche il luogo di residenza delle persone, gli eventuali immobili e autoveicoli posseduti, e la storia medica di ognuno. Questo, scrive Zhou, aiuterebbe i comitati di quartiere a imporre la «stabilità sociale», e sarebbe dunque un fattore supplementare alla ricerca di quella che è oggi chiamata «l’amministrazione della società» (per utilizzare il termine favorito dalle autorità, che non amano parlare esplicitamente di «controllo»).

E se in questa atmosfera di controlli, istituiti e auspicati, un cittadino decidesse di staccare per un momento e rilassarsi guardando la televisione, la sua possibilità di scelta tra gli intrattenimenti disponibili è un po’ più ristretta di prima: nelle ultime settimane infatti sono stati tolti dai palinsesti televisivi diverse programmazioni che, pure, godevano di un certo riscontro fra il pubblico.

Dunque, in un comunicato pubblicato dall’Amministrazione statale per la radio, i film e la televisione, viene annunciato che i telefilm non possono presentare: «Temi di fantasia, viaggi nel tempo, storie mitologiche compilate in maniera casuale, trame strane o tecniche assurde, né propagare superstizioni feudali, fatalismo, reincarnazione, lezioni morali ambigue, e una mancanza di pensiero positivo». Gli spettatori cinesi non sono del tutto nuovi a questo tipo di proibizioni, dato che da anni c’è la regola che proibisce la produzione di storie di fantasmi e vampiri in Cina (per quanto ogni tanto qualcuno che riesca ad aggirare la legge si trova), ma l’annuncio copre stavolta un’area molto più ampia.

Come se non bastasse, negli ultimi giorni da qualcuno è stato stabilito che anche così, la televisione avrebbe potuto mostrare più del necessario, ed ecco dunque arrivare nuove proibizioni contro i telefilm, stavolta quelli che hanno per argomenti spionaggio o criminalità. La proibizione sembra essere temporanea ma di effetto immediata: da ora alla fine di luglio, infatti, le televisioni hanno dovuto modificare i palinsesti per eliminare ogni tipo di proiezione che avesse questi temi, considerati non sufficientemente edificanti dalle autorità.
© photo Giovanni Caviezel 4 Dollswhip

mercoledì 4 maggio 2011

AUDITEL REGISTRERA' ANCHE GLI ASCOLTI "DIFFERITI"

Piccola rivoluzione in tv e grande cambiamento per Sky: d’ora in poi Auditel pubblicherà gli ascolti ‘differiti’ (“Time Shifted Viewing” ), quelli che consentono di calcolare chi vede, non in diretta, un programma registrato. Crescono  tutti: Rai, Mediaset, La7 ma gli effetti più immediati si vedono già per chi guarda il piccolo schermo attraverso il decoder ‘MySky’.
Il risultato pratico – stando ai numeri indicativi diffusi in workshop a Milano dalla televisione in abbonamento – è che i canali Sky cinema e dei serial si vedranno riconosciuti un aumento di visione in un range tra il 16 e il 20%.
In particolare – sempre precisando che questi sono solo i primi test e riscontri – prendendo a riferimento l’intero universo dei telespettatori della tv a pagamento si calcola che c’è un aumento del 3,5% medio nella rilevazione degli ascolti e fra il 16 e il 20%, appunto, fra chi usa ‘MysKy’: un milione e mezzo di famiglie per un totale di circa 4,5 milioni di persone.
Si è quindi scoperto – hanno sottolineato i manager Sky Andrea Scrosati vice presidente cinema e intrattenimento  e Andrea Mezzasalma responsabile ascolti – che in alcuni casi il numero dei telespettatori in differita ha raggiunto punte del 60% o addirittura del 100% in più (ad esempio la serie di SkyUno ‘Spartacus’). Altro aspetto definito interessante è che non sembra che – nonostante si possa passare oltre con il telecomando – la pubblicità perda significativamente numero di persone che la vedono. Il che vuol dire “che c’è una fetta di fruitori della pubblicità in tv che fino a oggi non era stata misurata”.

LA MANIA TUTTA ITALIANA DEL COMPLOTTISMO DI DEFAULT

L'INGUARIBILE MALATTIA DEL COMPLOTTO
di MARIO CALABRESI
da "La stampa"


In Italia la notizia dell’uccisione di Osama bin Laden è stata accolta da molti con scetticismo o con il pregiudizio che la notizia sia falsa, oscura o perlomeno manipolata.

Nelle lettere che riceviamo qui al giornale, nelle mail, come nelle chiacchiere che attraversano il nostro Paese emerge un vizio tutto italiano, che ci accompagna da decenni.

Ognuno di noi credo abbia avuto anche ieri la stessa esperienza: incontrare qualcuno che scuote la testa e, mentre sorride cercando complicità, dice: «Ma non è certo Osama bin Laden».

Un concetto declinato con mille variabili: ma perché dovremmo crederci? A chi fa comodo? Perché proprio adesso? Perché tutta questa fretta di gettarlo in mare? Perché non ce l’hanno fatto vedere? Il tutto poi racchiuso nella rassicurante frasetta magica: è un «giallo».

Se si prova a rispondere che quelle foto scatenerebbero la furia degli estremisti, che nessun Paese era disponibile ad accettare la salma e che si voleva evitare di creare un luogo di pellegrinaggio per fanatici e terroristi, allora si è guardati quasi con compassione. Sono così belle le teorie cospirative che ogni tentativo di spiegazione semplice e razionale viene subito respinto con disgusto.

Intendiamoci, in tutto il mondo ci sono i teorici delle cospirazioni, quelli che sostengono che l’uomo non è mai andato sulla Luna (lo sbarco sarebbe solo una sceneggiata costruita negli studios di Hollywood), che Elvis Presley è ancora vivo o che nessun aereo ha mai colpito il Pentagono l’11 settembre del 2001. Ma queste idee appartengono a minoranze antisistema, non fanno breccia in ogni strato e in ogni ambiente della società.

Il presidente degli Stati Uniti Barack Obama annuncia ufficialmente al mondo che i suoi militari, dopo una caccia durata quasi quindici anni, hanno individuato e ucciso Bin Laden, ma dalle nostre parti invece di discutere e dividersi se ciò sia giusto o sbagliato ci si chiede se sia vero e si pretendono le prove. Molti, a mio parere troppi, a sinistra come a destra, partono dal presupposto che il Presidente non dica la verità, o perlomeno nasconda qualcosa. Coltivare il dubbio non è un difetto, anzi una ricchezza delle democrazie, ma vivere con lo scetticismo come regola di vita rischia di essere una grande fregatura.

E stiamo parlando di Barack Obama, pensate se l’annuncio l’avesse dato George W. Bush. Si potrebbe immediatamente obiettare che proprio dalla Casa Bianca venne diffusa nel mondo la bufala delle armi di distruzione di massa di Saddam Hussein e ricordare come Colin Powell lo sostenne all’Onu mostrando la famosa fialetta. Dovremmo però ricordare anche il discredito che colpì Bush, Cheney e Powell quando si scoprì che non era vero, e come oggi la reputazione dei tre sia a pezzi, tanto che l’ex Presidente è forse l’unico a non essere invitato da nessuna parte a tenere lezioni e discorsi. Quei discorsi che a Bill Clinton fruttano milioni di dollari l’anno. L’America non ha mai perdonato ai suoi Presidenti il falso, basti l’esempio di Nixon e del Watergate. Negli Stati Uniti come nel resto d’Europa, ce lo hanno ricordato la Germania e la Gran Bretagna negli ultimi mesi, l’onorabilità e la reputazione sono tutto per un politico. La credibilità è l’unico patrimonio che possiede e si parte dal presupposto che sia tenuto a dire la verità, pena il licenziamento.

Da noi invece ci si contenta di non credere, di alzare le spalle o di deridere senza però presentare il conto a chi pure viene colto sul fatto. Questo accade perché la menzogna del potere è considerata una regola e il nostro rapporto con le istituzioni e con chi ci governa è totalmente rotto. In Italia è normale pensare che il capo del governo menta o manipoli le informazioni, per cui partiamo dal presupposto che tutto possa essere falso. E questo talmente ha fatto breccia dentro di noi che chi dubita di qualunque fatto lo fa a prescindere, non sente la responsabilità di cercare prove a sostegno della sua tesi, il controllo delle evidenze non lo riguarda. In questo modo però il dubbio inquina ogni cosa, mina ogni ragionamento e sfarina ogni certezza, impedendoci spesso di apprezzare e valutare serenamente gli avvenimenti.

Il tarlo italiano ha radici e motivazioni storiche, siamo il Paese di Ustica, delle bombe sui treni, del terrorismo rosso e nero, dei misteri e delle molte verità negate, e nasce certamente perché abbiamo avuto di fronte un potere opaco e sfuggente. Ma questo ha lasciato nella nostra società un modo di pensare, un vero e proprio abito mentale, che è diventato comodo e funzionale. Comodo perché divide tutto in bianco e nero e non dovendosi confrontare con le sfumature rassicura e semplifica.

Così accade di sentire, molto spesso e ad ogni livello, che non sappiamo nulla delle stragi o del terrorismo, che tutto è oscuro e coperto. Quante persone, per fare l’esempio più lampante, sostengono che non conosciamo la verità su Piazza Fontana? Sbagliano: non è così. Per la strage alla Banca dell’Agricoltura è corretto dire che non è stata fatta giustizia ma la verità storica è assodata: furono i neofascisti di Ordine Nuovo a mettere la bomba e poterono contare sulla complicità di una parte deviata degli apparati dello Stato. Ma per molti lo stereotipo e la frase fatta finiscono per essere più forti della storia e delle sue conquiste. Non vedere quello che si è ottenuto significa fare un torto a chi per anni si è battuto per ottenere la verità e lasciarsi invadere da quello scetticismo significa rinunciare a ogni partita e a ogni sfida.

Per tornare a Obama e Osama, negando a priori (ripeto: il dubbio è sano ma non il pregiudizio cieco) che questo fatto sia davvero successo ci neghiamo la possibilità di discutere e capire. Se una cosa non è accaduta perché dovremmo allora porci l’interrogativo se sia giusta o sbagliata e poi cercare di immaginarne le possibili conseguenze?

La Storia passerà avanti veloce, cambieranno gli scenari mondiali, forse ci toccherà registrare la potenza delle vendette e delle rappresaglie, ma noi non saremo stati in grado di capirle perché saremo rimasti fermi alle rassicuranti chiacchiere del bar, al sorrisetto, all’alzata di spalle.

sabato 16 aprile 2011

L'ECOLOGIA FILOSOFICA DI GALIMBERTI


da "Dagospia"
Bruno Giurato per "Lettera 43"
Caccia al Galimba potrebbe essere il titolo di un nuovo reality show filosofico. Umberto Galimberti, 69 anni, di Monza, famosa firma di Repubblica e divulgatore appassionato di psicanalisi, esistenzialismo, umanesimo "caldo" ma soprattutto plagiatore di libri altrui (come ha rivelato anche Lettera43.it) è ormai la vittima di una splendida caccia alla volpe.

Il nuovo ibro di Francesco Bucci, "Umberto Galimberti e la mistificazione intellettuale" (Coniglio Editore, 14,50 euro) è un ulteriore capitolo della saga dello smascheramento galimbertiano. Nella prefazione del giornalista Luca Mastrantonio si parla di «plagi, déjà vu, ispirazioni, traspirazioni, cover e copioni», il tono divertito di Mastrantonio fa pensare che la copiatura e la falsificazione siano quasi nel dna del tempo.

UN'INCHIESTA ALLA CA' FOSCARI.
Ma il fatto ha insospettito anche quelli dell'università Ca' Foscari di Venezia, dove Galimberti insegna Filosofia della storia, che hanno avviato un'inchiesta interna sul noto intellettuale.
Tra quelli de Il Giornale, che nel 2008 portarono in luce i plagi di Galimberti, fino al libro di Giulia Sissa, Francesco Bucci, quelli di Ca' Foscari e infine di Lettera43.it che, nella persona di Costica Bradatan, si è accorto dei furti ai danni di Costantin Noica, il manipolo degli inseguitori s'ingrossa. La caccia al Galimba è il nuovo sport nazionale.

RE DEL PLAGIO E DELL'AUTOPLAGIO
E la notizia in più che ci fornisce il bel libro di Bucci è che Galimberti non è solo un plagiatore di altri, ma anche di se stesso. Bucci, dotato di forbici e schedario superorganizzato (che definisce «la cassapanca del filosofo»), ha setacciato le opere dello scrittore, arrivando alla conclusione che tutti i suoi libri, e un bel po' di articoli, sono costruiti assemblando materiali tratti da scritti precedenti.
Un taglia-incolla furioso, compulsivo e, particolare non indifferente, molto redditizio in termini di palanche. Bucci fornisce le statistiche: in due tra i libri di maggior successo il "riuso" è stato totalizzante: oltre l'80% ne La casa di psiche (2005) e quasi il 100% ne L'ospite inquietante (2007).

ECOLOGIA FILOSOFICA. In quello straordinario spaccato di ecologia filosofica (nel senso di sprecare il meno possibile i frutti della propria, e quasi sempre dell'altrui, mente) che è l'opera omnia galimbertiana c'è un aspetto inaudito e vertiginoso: copiare e incollare un passo, ma cambiando il soggetto.

In pratica, adattare lo stesso identico discorso per argomenti diversi. Leggiamo a p.621 de Il tramonto dell'Occidente : «L'essere non è mai "questo" o "quello" nel senso in cui la metafisica connette un predicato a un soggetto. L'espressione "è", attribuita all'essere, ha sempre e solo un significato transitivo».

Alle pp. 682-683 dello stesso libro leggiamo: «Il simbolo, infatti, non è mai "questo" o "quello", nel senso in cui la logica connette un predicato a un soggetto. L'espressione "è", attribuita al simbolo, ha sempre e solo un significato transitivo». Insomma, secondo Galimberti l'essere e il simbolo sarebbero la stessa cosa. Una fantasmagoria concettuale in cui tutto si confonde con tutto, tutto riflette tutto, un po' come l'Aleph di Borges.

UN GRANDE DIVULGATORE BRACCATO DA UN DESTINO COPIONE
E non bastava Bucci. Adesso ci si mette anche Vincenzo Altieri, un artista multimediale che, dopo uno scambio di telefonate con Galimberti, ha individuato una notevole serie di plagi nell'opera del filosofo serial copier. È stato proprio Altieri, nel 2007, a segnalare a Giulia Sissa le copiature di Galimberti, secondo quanto ha raccontato a Lettera43.it.

Altieri ha anche scritto un libro nel 2009 sui plagi del monzese ma il testo non è arrivato a pubblicazione: l'ultimo editore a cui è stato mandato è Francoangeli. Altieri ha definito Galimberti «un copiatore selettivo e funzionale». Un altro pronto a stanare il filosofo dallo scanner facile e dal toner inesauribile, un altro partecipante al reality Caccia al Galimba.

RIUSARE PAROLE ALTRUI. A questo punto, ci sarebbero alcune considerazioni da fare sul personaggio e sul fenomeno. Un maligno potrebbe notare che la tentazione di copiare per uno come Galimberti è un destino, cioè che non avendo alcun concetto originale da esprimere è inevitabile che finisca per (ri)usare anche le parole di altri.

Uno ancora più cattivo potrebbe sottolineare che copiare è indispensabile per produrre molto in termini di libri, articoli (e quindi di denaro). Un garantista, invece, direbbe che Umberto Galimberti semplicemente non è un filosofo, è un ottimo divulgatore, e gli regalerebbe uno scatolino (anzi, molti scatoloni) di virgolette tipografiche.

ILLUMINISTA, ANZI NO. Ed è inutile stupirsi, come ha fatto Matteo Sacchi sul Giornale del 13 aprile 2011, del fatto che Galimberti possa fare professione di fede anti-illuminista e poi solidarizzare con Eugenio Scalfari, illuminista straconvinto. Abbiamo visto come lo scrittore tratti concetti diversi applicandogli la stessa frase copincollata.

Figurasi che mai potrà combinare il lunapark galimbertiano con categorie molto ampie come quella di illuminismo. La vita del policromo genio del ready made filosofico Umberto Galimberti contempla tutto e il contrario. Se c'è un piccolo problema è tutto esterno: la caccia al Galimba è uno sport in crescita esponenziale.

giovedì 27 gennaio 2011

PRIMA O POI SAREBBE SUCCESSO

Si chiama Mary Lu Zahalan Kennedy ed è la prima persona al mondo ad essersi laureata con una specializzazione in "Beatlesologia". La neodottoressa, cinquantreenne cantante, attrice ed ex finalista al concorso di Miss Canada, ha concluso per prima il master in "Beatles, Popolar music e Society" proposto dalla Hope University di Liverpool. Al corso hanno preso parte altri undici studenti

mercoledì 19 gennaio 2011

NÈ CON SERGIO NÈ CON RUBY

Barbara Palombelli per "Il Foglio"
illustrazione © Giovanni Caviezel
Né con Sergio, né con Ruby. E' stato un finesettimana da incubo. Il meglio della sinistra italiana e dell'informazione molla la classe operaia al suo destino (via dalle scenografie classiche, via dagli editoriali, via dalla tv, via da tutto, la fiction Marchionne contro tutti è già stata abbastanza in cartellone), si farà quel che dice l'azienda. Tutti in riga, davanti ad un marchio automobilistico che nessuno più sogna (conosco pochissimi giornalisti e politici che comprano Fiat, purtroppo), ma il cui potere editoriale- inserzionistico-pubblicitario non prevede il dissenso.  Gli uomini e le donne di Mirafiori, protagonisti di uno scontro leale e corretto come pochi, hanno portato con loro l'orgoglio di chi lavora per difendere un'identità e una dignità. E dobbiamo inchinarci, dovremmo continuare a raccontare il dopo referendum. Ma non c'è tempo, non c'è voglia, non ci sono più i microfoni fuori dai cancelli. La testa del corteo politico-mediatico l'ha conquistata Ruby Rubacuori, spazzando via temi noiosi come il logoramento della vita senza pause alla catena di montaggio, e non c'è malizia nel doppio-senso.
Scrivono, e dobbiamo stropicciarci gli occhi, che la ragazzina marocchina innocente e minorenne sarebbe stata molestata, palpeggiata, forse qualcosa di più. Attenzione: per la sua integrità, per la difesa di una adolescente sfuggita ai genitori, ai servizi sociali, una che rubacchia alle amiche, una che forse sta crescendo ricattando e usando il suo corpo come arma, si utilizzeranno le leggi più severe che l'ordinamento preveda.
Leggi che sono state rinforzate dopo anni di inchieste, dibattiti e battaglie oneste. Leggi che sono a difesa di minori veri, di bambini a cui nessuno crede, di minorenni sbattute sul marciapiede da sfruttatori e schiavisti senza scrupoli. La pedofilia è un reato orribile: si fonda sulla buona fede, sull'innocenza, sulla debolezza della vittima. Il molestatore, in genere, è un parente stretto, un educatore, un amico che gira per casa. Uno che si approfitta della ingenua fiducia di chi non ha ancora conosciuto il mondo, la vita, la durezza e il sospetto.
Frequento da tre decenni le case famiglia e i tribunali dei minori, il volontariato e i centri psichiatrici legati all'infanzia violata. Scenderei in piazza a difesa della severità verso chi distrugge l'immaginario e la fantasia dei nostri figli, entrai nel 1983 nel Consiglio Superiore per i problemi dei minori, nominata da Oscar Luigi Scalfaro e continuo a seguire associazioni ed enti pubblici. Mai ho visto un caso simile a quello di cui l'Italia sta parlando. Fin dalla sua prima apparizione, la ormai maggiorenne Ruby assomigliava più ad una maggiorata già un pochino appassita che a Cappuccetto Rosso. Se la sua foto fosse stata mostrata a cento giornalisti, nessuno avrebbe indovinato i suoi anni.
Certo, all'epoca dei fatti mancavano delle settimane alla maggiore età, che non sempre è soltanto un requisito anagrafico. Fa un po' effetto, tuttavia, immaginare che quelle leggi vengano dribblate nei casi tragici della cronaca e diventino l'escamotage che la sinistra attendeva per battere un avversario politico durissimo. Il garantismo assoluto richiede la serena attesa delle testimonianze, lo svolgersi dell'indagine, certamente corretta - i nomi dei pm, il meglio della magistratura italiana, sono una garanzia - la definizione degli eventuali reati.
Lasciatemi però coltivare dei dubbi sull'innocenza violata della protagonista, che sarebbe il punto di partenza su cui è partita l' inchiesta milanese. E lasciatemi sognare una sinistra che prende la dignità del lavoro come un grande tema, da Mirafiori ai precari, dall'Alitalia alla Rai ai call center, dagli immigrati massacrati agli studenti senza futuro e vince su Berlusconi e il Pdl riconquistando per tutti noi delle migliori condizioni di vita, con meno squilibri e meno ingiustizie. Se invece dobbiamo difendere due "vittime" come Marchionne e Ruby , non mi appassiono più di tanto.

martedì 21 dicembre 2010

ALDISSIMO SULLO SPOT HORRIBILIS DELLA ARCURI

Lo spot super kitsch della Arcuri capolavoro di promozione libraria

Un piccolo diamante di coatteria, così brutto da sfiorare il sublime
Quello che frettolosamente la Rete ha sanzionato come il più brutto spot dell'anno rischia di diventare un oggetto di culto, la più straordinaria parodia della promozione libraria in tv. Altro che i libri sponsorizzati con pretenziosità da Fabio Fazio o da Corrado Augias o da Serena Dandini! Qui ci troviamo di fronte a un piccolo diamante di coatteria, così brutto da sfiorare il sublime. Per uno di quei paradossi che spesso striano il mondo della comunicazione, lo «scarto» culturale si eleva a canone, esattamente come quando Andy Warhol sosteneva che «la cosa più bella di Firenze è McDonald».

Da alcuni giorni, sulle reti Rai va in onda uno spot in cui Manuela Arcuri promuove l'ultimo libro di Alfonso Luigi Marra, Il labirinto femminile. Da tempo Marra usa una sorta di pubblicità «selvaggia» per lanciare le sue fatiche letterarie (pare che La storia di Giovanni e Margherita sia fonte unica di comicità involontaria), ma qui si è superato. L'attrice, senza mai battere ciglio, svegliata da un sonno catatonico dallo squillo di un cellulare, racconta la trama del libro e ne consiglia la lettura soprattutto perché è «un'opera per liberare la coppia e la società dallo strategismo sentimentale che le tormenta e ha enormemente rallentato il cammino della civiltà». E alla fine, proprio come i «promotori culturali» più affermati, ne consiglia l'acquisto.
Ci troviamo di fronte a un capolavoro assoluto e impossibile di bellezza e inespressività, un esempio involontario di kitsch, di camp e di trash, un brutto non intenzionale ma che poggia sul candore con cui è stato messo in opera l'artificio (sta poi alla malizia di ognuno capovolgerlo nel suo opposto). Per questo Marra (avvocato calabrese con la passione per la scrittura, già parlamentare europeo, eletto con Forza Italia nel 1994) ha deciso di intervenire in difesa del suo spot: «A coloro che, in questa cultura degli orifizi e delle strullate, si sperticano a definire lo spot di Arcuri il più brutto possibile, si può solo rispondere che la gelosia è il più umano dei sentimenti». Il cammino della nostra civiltà passa anche per «la cultura degli orifizi».

domenica 10 ottobre 2010

GIORNALISMO, GIORNALI E iPAD

Questa settimana ad Amburgo si è tenuto il World Editors Forum, dove si è parlato di come funzionano i giornali in Germania e in che direzione stanno andando.

Felix Bellinger, caporedattore centrale dell’ «Hamburger Abendblatt», durante una colazione di lavoro ha parlato di come i tablet computer influenzeranno il giornalismo. Alla domanda: «Chi dirigerà la redazione nel futuro?», ha risposto: «Non sarà il direttore del giornale, sarà l’art director!». E ha spiegato che, con le tavolette come l’iPad, i lettori vogliono avere un’esperienza visiva, vogliono interagire, toccare e muovere i loro schermi. Bellinger ha anche parlato del rapporto tra edizione stampata e online: «Su Internet ci vogliono gli aggiornamenti continui, mentre la carta deve offrire l’interpretazione».

domenica 3 ottobre 2010

IL NUOVO DE CARLO FRAMMENTATO SU TWITTER


  • corriereblog
(none)
03/10/2010

Il nuovo De Carlo "a pezzi" su Twitter

Scritto da: Alessandra Muglia alle 08:01

okdecarlo.jpg
"È l’idea stessa dell’amore a essere un equivoco totale” dice lui.
Lei “vorrebbe che smettesse, vorrebbe che continuasse”…
Assaggi del nuovo romanzo di Andrea De Carlo in anteprima su Twitter. Stralci di 140 caratteri lanciati sul socialnetwork all’inizio in incognito, come se si trattasse del dialogo tra due persone reali. Poi lui e lei si sono presentati: Clare Moletto, americana che vive in Italia, e Daniel Deserti, scrittore in crisi creativa e personale, i protagonisti di “LeieLui”, da mercoledì in libreria. “La loro storia inizia con uno scontro (d’auto) che è anche un incontro” anticipa lo scrittore in uno dei suoi mini video da 20 secondi su Youtube .

martedì 8 giugno 2010

iPhone e nuovi modelli di comunicazione mobile


dal "Corriere Online"

Vita Digitale
07/06/2010
Il nuovo iPhone e la strada del "mobile"
Scritto da: Federico Cella alle 17:40
La serata (nostra) del nuovo iPhone è iniziata con uno Steve Jobs vestito come al solito che - sul palco del WWDC 2010 di San Francisco - parla del successo del "magico" iPad: "Ha cambiato il mondo, ne vendiamo uno ogni 3 secondi". Prima dell'atteso annuncio, una carellata autocelebrativa del successo del tablet: 8500 applicazioni per iPad, 35 milioni già caricate, 5 milioni di libri scaricati con iBook (il 22% delle vendite di libri elettronici nel mondo), 15 mila nuove applicazioni (in generale per AppStore) proposte ogni settimana, messagi di singoli e aziende (eBay, Netflix) felici di essere sul nuovo mercato lanciato da Apple, un miliardo di dollari finora pagato agli sviluppatori.
L'attenzione passa quindi al Melafonino, definito il vero fenomeno della navigazione mobile in Rete (iPhone 58% di uso del browser, android 22,7%, Rim 8%): ecco l'iPhone 4, nuovo design, 9,3 millimetri, il 24% più sottile di iPhone 3GS, videocamera frontale (e sul retro, con flash). L'atteso nuovo schermo in vetro, sempre da 3,5" conferma le aspettative: 326 pixel per pollice -risoluzione superiore a quella percepita dall'occhio umano -, 960x640 pixel totali. E anche se la prova live di navigazione sul Web - confronto tra il nuovo e il "vecchio" 3Gs - fallisce in diretta, la folla è come sempre in delirio. Quindi Jobs ha confermato la presenza dentro al telefono del chip A4 usato per l'iPad e svelato la capacità della batteria potenziata: 6 ore navigando in 3G, 10 ore con wifi, 10 ore video, 40 ore musica, 300 ore stand by.
Si passa quindi alla quinta novità, la foto-videocamera: immagini da 3 a 5 Megapixel, sensore retroilluminato, zoom digitale 5X, flash led, registrazione video in alta definizione (30 frame a 720p) con conseguente iMovie sviluppato per il telefonino (4,99 dollari).
Quindi, dopo un po' di scenografia - "Chiudete le connessioni wi-fi, mettete a terra i vostri computer", forse anche per un po' di congestione di reti nella sala - ecco l'atteso nuovo sistema operativo, rinominato iOS4. Il multitasking, come atteso, e "oltre 100 funzionalità, ma non avremo modo di farvele vedere".Tra queste la possibilità di creare cartelle per gestire le applicazioni e tre motori di ricerca predisposti per Internet: Google, Bing e Yahoo! Steve Jobs dunque passa alla settima e ottava novità, ossia iBook su iPhone, e il lancio di iAds, ossia l'advertising sulle applicazioni del telefonino. Un mercato enorme - 100 milioni di apparecchi con sistema operativo iOS venduti nel mese di giugno, 150 milioni di utenti iTunes/AppStore con carta di credito, 16 miliardi di download - che ora, come spiega felice Jobs, può esprimersi al meglio del suo potenziale economico.
E alla fine si arriva ai prezzi, considerati con il contratto con l'operatore americano (199 dollari per il 16Gb, 299 per il 32), ma in linea con quelli del 3Gs. Così ci si può fare meglio l'idea. Dal 24 giugno in vendita in 5 Paesi (non l'Italia), in agosto altri 24 Paesi (e qui ci sarà l'Italia), a settembre in altri 88 ancora. Dal 21 giugno quindi si potrà upgradare il sistema operativo al nuovo iOS4: sarà gratuito come sempre per 3GS e 3G (ma non con tutte le funzionalità, come il multitasking), e per la prima volta anche per iPod Touch.
Il lancio di questo nuovo Melafonino si inserisce prepotentemente in un trend portato di recente all’attenzione dei media da un lato dalle parole dei grandi protagonisti della scena hi-tech, e dall’altro da una serie di numeri che confermano come l’uso delle tecnologie sta prendendo una nuova strada. Quella sempre più legata alla mobilità. Settimana scorsa Steve Jobs ha dichiarato che i pc con Windows sono in caduta definitiva e ormai appartengono al passato. Lo Steve che sta dall’altra parte, Ballmer ceo di Microsoft, ovviamente non la pensa (esattamente) così. E in una risposta indiretta al capo di Apple, ha spiegato che è vero che il mondo dei personal computer sta cambiando radicalmente, ma questi rimarranno e così il sistema operativo Windows. “Alcuni computer avranno la tastiera, altri no”, dunque anche i tablet sono pc, e il nostro continuerà a essere l’os per eccellenza. Anche se, ha dovuto ammettere Ballmer, Microsoft sul mobile ha saltato un ciclo.
Gli arrivi di iPad e dei nuovi cellulari basati su Android (e, in un modo diverso, anche quello annunciato di Google Tv) vanno nella direzione di un nuovo concetto di "informatica". Che in particolare per l’Italia è confermato dai dati fatti uscire oggi dall’Osservatorio Mobile content&Internet del Politecnico di Milano. Secondo la ricerca, in un anno l’uso del Web dal cellulare nel nostro Paese è aumentato del 17% (+26% le connessioni mobili via internet key e connect card). Gli italiani che navigano via telefonino sono passati dai 6 milioni dell’inizio 2009 agli attuali 10 e più milioni. Una tendenza che, significativamente, nel giro di pochi anni porterà i mobile surfer a superare quelli che vanno in Rete con pc e connessione fissa. In particolare, “il modello degli application store, dagli smartphone, viene ora introdotto anche nel comparto dei notebook e netbook”, spiega Andrea Rangone, responsabile scientifico dell’Osservatorio. “E le conseguenze di questo saranno rivoluzionarie nei prossimi anni”.

Apple ha indiscutibilmente aperto la via e al momento l’unica azienda che pare poter competere – o diciamo, accompagnare Cupertino su questa nuova strada – è dunque Google con il suo sistema operativo “aperto” Android. Capace in 18 mesi di vita di conquistare qualcosa come il 10% del mercato degli smartphone. Come spiega molto bene il Financial Times oggi (sotto il grafico con la diffusione dei sistemi operativi per smartphone), dopo aver superato a metà maggio Windows Mobile, Android nell’arco dei tre anni – se confermate le attuali tendenze – dovrebbe mettersi alle spalle sia di iPhone sia di Blackberry, arrivando al secondo posto come sistema operativo per cellulari intelligenti dopo il diffusissimo Symbian di Nokia.

martedì 20 aprile 2010

LA SREALIZZAZIONE LETTERARIA

da "Dagospia"
PARENTE (MASSIMILIANO) SERPENTE - ECCO L’ASSURDO: SE BERLUSCONI NON DECIDE I LIBRI DELLA MONDADORI, UN AUTORE MONDADORI DECIDE COSA DEBBA DIRE BERLUSCONI - SAVIANO STA CERCANDO IL PRETESTO E IL PRE-TESTO PER ABBANDONARE LA MONDADORI DA MARTIRE – NON È PIÙ UN UOMO, È UN MARCHIO, UN FETICCIO, UN LOGO, UNA FANZINE, UNA MAGLIETTA, E COME TALE RENDE LA CAMORRA UNA FICTION…

Massimiliano Parente per Dagospia

«Il problema non è il tuo romanzo, ma quello che hai scritto su Saviano. Mi interessi molto come scrittore, ma lasciamo passare del tempo, l'editoria ha memoria breve, si dimenticheranno di quello che hai scritto».

Non rivelerò mai neppure sotto tortura chi, all'interno della Mondadori, ai piani alti, mi pose il suddetto argomentato veto dopo avermi accolto con grandi onori. Non lo dirò perché fu molto sincero quando poteva inventarsi qualsiasi scusa e comunque fatto sta che, per tale ragione, non si stipulò nessun contratto tra me la Mondadori e chissenefrega, io continuo a esistere come scrittore nonostante la Mondadori e non penso non ci sia libertà di stampa, né che ci sia solo la Mondadori, come invece credono gli autori di sinistra che pubblicano solo per Mondadori.

Per Concita De Gregorio, direttrice dell'Unità e querelata da Berlusconi, non ci sono mai stati veti, per me, colpevole di scrivere sul Giornale quello che penso, sì, pazienza. D'altra parte ero abituato: alla Bompiani era colpa di quello che avevo scritto di Scurati, alla Feltrinelli sarebbe stato quello che avevo scritto su Baricco, perfino alla minimum fax pretendevano facessi abiura di quanto scritto su alcuni autori minimum fax.

In Italia l'editoria è una Gomorra di autori, conventicole, club, salotti e fatturati, sarà per questo che tempo fa mi ha chiamato la Newton Compton proponendomi un libro sulle caste culturali italiane (un volume non Mondadori che uscirà il 4 maggio), con un invito allettante: «con noi Parente puoi dire quello che ti pare, libertà assoluta» e affare fatto.

Così in questi giorni, dopo il botta e risposta tra lo scrittore martire San Saviano e Marina Berlusconi, mi è chiaro quanto la retorica dell'intoccabilità di Saviano sia arrivata a un paradosso tanto grottesco da essere quasi invisibile a chi non stia attento. Il suo vittimismo sistematico è diventato una cortina fumogena e una griffe che produce mostri.

Saviano non è un uomo, è un marchio, un feticcio, un logo, una fanzine, una maglietta, un sito d'identificazione ("io sono Saviano"), un mammaceccomitocca perenne, e come tale derealizza la realtà, rende la camorra una fiction e la cruda realtà evapora, si derealizza, si annulla, si savianizza.

L'aveva capito Andy Warhol che ripetere per duecento volte su una tela un incidente automobilistico ne cancellava la tragicità, e tra un "Disaster" e una "Campbell's Soup Can" non c'era più differenza. Questo avrebbe dovuto dire Berlusconi anziché parlare ingenuamente e grossolanamente di "pubblicità negativa" per l'Italia: la camorra non è più la camorra bensì Gomorra, infatti per molti quotidiani sono sostantivi interscambiabili.

La camorra sta diventando un prodotto di Saviano, infatti se tocchi Saviano, se artisticamente il suo libro ti fa cagare come a me per esempio, sei un camorrista. Il suo potere di derealizzazione è tale che a nessuno frega un cazzo di sapere chi è in prima linea, perché insomma ci sarà un magistrato eroe, un quasi Borsellino, un quasi Falcone, un capo della squadra mobile, un cronista, un poliziotto dietro ognuno dei clamorosi arresti di questi mesi e anni o no? No, c'è Saviano, e c'è Gomorra. Si esprime solidarietà verso la griffe e chi s'è visto s'è visto, e si vede solo Saviano.

Saviano sta rendendo la lotta alla mafia una soap opera, è questo che avrebbe dovuto dire Berlusconi, sottolineando, per carità, che lo diceva in quanto Silvio Berlusconi, in quanto persona, come sua personalissima opinione, perché la sua Mondadori avrebbe continuato a pubblicare Saviano e a promuoverlo come il miglior prodotto, che poi è diventato anche un film che non ha vinto l'Oscar, peccato. Berlusconi dovrebbe chiedere scusa? Di cosa? Si scusi piuttosto Saviano di aver teatralizzato appelli per la libertà di stampa in Italia, e non si scusi con me, piuttosto con chi vive in regimi veri, dove la censura esiste davvero e per la libertà di stampa si muore.

La Mondadori, tra l'altro, non è la Silvio Berlusconi editore, infatti è noto quanto la proprietà non entri nelle scelte editoriali della Mondadori, motivo per cui autori antiberlusconiani e schieratissimi come la suddetta Concita o Camilleri o Roberto Saviano o Wu Ming o De Cataldo o la Parrella o Fabio Volo o Fabio Fazio o il grande Antonio Moresco e tantissimi altri pubblicano per Mondadori senza problemi e senza farsene un problema.

Anche la mia amica Barbara Alberti, convinta che Berlusconi sia il fascismo e che si viva in un regime berlusconiano, pubblica per Mondadori e vive con i compensi di Mediaset e la Rai, tra un reality e l'altro, eppure se le chiedi spiegazioni, perché per esempio non se ne va non in un altro paese o se è troppa fatica almeno in un'altra casa editrice, risponde «Che c'entra, la Mondadori paga bene, bisogna vivere», e però il venduto sarei io.

Come quelli a cui l'Occidente fa così schifo e amano i talebani come fossero animaletti esotici o tornano da Bombay rigenerati nello spirito e però non se ne vanno mai a vivere in uno stato islamico o in India e sempre perché «ma che c'entra...».

Tuttavia, ecco l'assurdo così assurdo da non essere più percepibile: se Berlusconi non decide i libri della Mondadori, un autore Mondadori decide cosa debba dire Berlusconi e, pur potendo scrivere e dire quello che vuole, chiede all'editore, all'intera azienda, di schierarsi contro una banale opinione dell'azionista di maggioranza. Non si è mai sentito nella storia dell'editoria, ma tant'è questo regime alla rovescia.

Infatti non si capisce quali chiarimenti vorrebbe Saviano dalla Mondadori, basta leggersi il comico scambio tra l'Intoccabile e Marina Berlusconi per comprendere che la notizia vera è un'altra: poiché non c'è alcun libro censurato, alcun casus belli, Saviano sta cercando il pretesto e il pre-testo per abbandonare la Mondadori e lasciarla da martire. Non sussistendo censura, se ne inventa una lui, al contrario: è Saviano che stabilisce cosa deve pensare Berlusconi e la Mondadori di Berlusconi, e lo fa facendo la vittima, e nessuno lo spernacchia per non passare per camorrista.

E pertanto domenica scorsa la questione grottesca della libertà di parola di Saviano (la sua parola, la libertà di parola, la parola che fa sapere, la parola che dice quello che non può dire, continuamente invocata per assurdo dall'unico autore italiano onnipresente che può dire quello che vuole dove vuole quando vuole e il cui tema principale è tautologicamente, feticisticamente la sua parola sulla sua stessa parola), era anche graficamente visibile, su Repubblica: in alto a destra Marina Berlusconi scriveva a Saviano, subito sotto Saviano rispondeva a Marina Berlusconi perché l'azienda deve prendere posizione e garantirgli libertà eccetera eccetera (ossia la Mondadori deve prendere posizione contro un'opinione personale di Berlusconi) e, ben disposta sotto la risposta di Saviano, sempre in prima pagina, consigli per gli acquisti: la pubblicità di "Gomorra". Pagata, si suppone, dalla Mondadori, e molto pop come un quadro di Warhol: Gomorra's Soup Can.

Manco a dirlo subito spunta fuori un nuovo appello (ma di cosa? per cosa? qualcuno lo sa?), un altro aspetto fiction dell'effetto Saviano: la retorica della solidarietà. Quando ce ne sarà bisogno davvero avranno finito le scorte di solidarietà, per il momento è subito sera, ed è subito Repubblica che titola «gli scrittori stanno con Saviano» (tra cui molti mondadoriani), come se "gli scrittori", da sempre simbolo della libertà individuale, fossero una cosa sola, un Codacons, un sindacato, una confraternita, un partito, una casta, la massoneria. O forse solo delle ragazze pon-pon, la Federcasalinghe al potere, le Gomorra's Housewives.

martedì 23 febbraio 2010

TROLLING



dal blog di Federico Cella, Corriere Online

Vita Digitale
23/02/2010
Non date da mangiare ai troll
Scritto da: Federico Cella alle 08:28
"Do not feed the trolls”. Non date da mangiare ai troll. È quanto si legge su molti siti Internet che hanno individuato nell’autore della contestata pagina di Facebook – “Il vendicatore mascherato”, appartenente non a caso al gruppo online “Radio Troll” – un agitatore delle discussioni online (“Flamer”, in gergo) senza altre finalità se non quella di creare fastidio e confusione. E pertanto non degno della benché minima attenzione.

Il termine “troll” in Rete è utilizzato fin dall’inizio degli anni Novanta per definire appunto chi, sui siti Internet, immette contenuti atti soltanto a provocare una forte reazione emotiva da parte della comunità online. Il termine, secondo Wikipedia, può avere due etimologie. Da un lato il riferimento più diretto è alle creature mostruose e dotate di poca intelligenza presenti in molti racconti della mitologia nordica. Dall’altro, la definizione viene fatta risalire - altrettanto significativamente - alla tecnica di pesca chiamata in inglese “trolling”, in italiano la pesca “a traina”.

giovedì 18 febbraio 2010

LIVING STORIES




Google apre a tutti gli editori Living Stories
Scritto da: Marco Pratellesi alle 17:59
Tags: Google, Living Stories, New York Times, open source, Santiago de la Mora, Washington Post

Manovre di riavvicinamento tra Google e gli editori: dopo due mesi di sperimentazione con il New York Times e il Washington Post, la nuova piattaforma Living Stories diventa aperta a tutti gli editori del mondo che vorranno utilizzarla per offrire ai propri lettori una diversa esperienza di lettura e di approfondimento sugli argomenti di loro interesse.

Di cosa si tratta – Living Stories è una piattaforma tecnologica open source che consente di riunire sotto un unico indirizzo web (la url) tutti i contenuti di un sito relativi ad un determinato argomento, quindi di seguire le notizie nella loro evoluzione nel tempo.

Nuova esperienza di lettura - Living Stories ha il vantaggio di offrire una esperienza più profonda e interattiva potendo su un determinato argomento trovare tutto quanto il giornale ha prodotto. In base ai suoi interessi il lettore può scegliere il cambiamento climatico o la guerra in Afghanistan e seguire come l’argomento si sviluppa nel tempo. In questo modo ogni articolo ha una contestualizzazione che permette l’approfondimento e la ricostruzione completa di come i fatti si sono evoluti. Il lettore può così scendere in profondità nell’informazione e avere una visione complessiva dall’inizio della storia fino ai suoi sviluppi più recenti seguendone l’evoluzione giorno per giorno.

Risultati - La sperimentazione con il New York Times e il Washington Post ha dato risultati positivi: “Il 75% degli utenti che hanno partecipato alla sperimentazione – afferma Santiago de la Mora, responsabile europeo area news di Google - hanno affermato di preferire la presentazione delle notizie di Living Stories rispetto alla forma tradizionale”.

Obiettivi – Google, con tutte le sue piattaforme, attualmente indirizza circa 4 miliardi di utenti ai siti di news, di cui un milione proviene da Google News. Con Living Stories ogni editore avrà da oggi la possibilità di impaginare in modo diverso i contenuti che riterrà adatti ad essere seguiti nel tempo dai propri lettori. Anche grafica e inserimento di spazi pubblicitari potranno essere personalizzati.

“Questo – dice Santiago de la Mora – per noi è anche un esempio di come Google sia impegnato a camminare nella rete fianco a fianco con chi produce contenuti perché il giornalismo è importante per i cittadini e quindi per la società nel suo complesso. Living Stories è una opportunità per sperimentare nuove piattaforme che possano promuovere un incontro più vasto e più soddisfacente tra chi produce contenuti e chi li fruisce”. Perché utenti più soddisfatti generano anche maggiori ricavi che sono l’ossigeno per un giornalismo di qualità.

giovedì 7 gennaio 2010

BENIAMINO / BIGNAMINO: addio a una intelligenza soave e tagliente.


IL METODO PLACIDO (CONTRO I LUOGHI COMUNI): "Non c'è una letteratura "alta" e progressiva (o comunque nobilmente sofferente) ed una letteratura "popolare" regressiva (o comunque ignobilmente gaudente). Ci sono vari livelli di aggiustamento, che si offrono alla comprensione, non all' esaltazione/liquidazione moralistica, solo se si ha presente il meccanismo generale che li governa"...

lunedì 7 dicembre 2009

una domanda


Ci sono voluti 600 anni per arrivare a un milione di autori di libri nel mondo; i blog ci hanno messo 5 anni per raggiungere il tetto di un milione; Facebook ha raggiunto il milione di iscritti in tre anni e Twitter in due. A questo punto la domanda che si pone David Sasaki è: quale sarà il ruolo dei media se ognuno di noi diventa parte del processo di produzione?

Marco Pratellesi per il Corriere online

foto: © Giovanni Caviezel

venerdì 16 ottobre 2009

IL LENTO DECLINO DELL'EMAIL


L'email non è più la regina della rete (almeno per i giovani)
Scritto da: Marco Pratellesi alle 12:45
Tags: email, Facebook, Google, Google Wave, Jessica E. Vascellaro, Nielsen, Twitter, Wall Street Journal

Noi abbiamo i quotidiani della mattina e i tg della sera. Ma non siamo più la stessa società in cui questi formidabili strumenti di informazione si sono imposti. Perfino l’email, fino ad oggi ritenuta la regina incontrastata della rete, e quindi del Nuovo Mondo, potrebbe presto cedere il primato ad altre forme di comunicazione: Twitter, Facebook, Google Wave in primis.

Certo è ancora presto per decretare la morte dell’email. Ma i dati Nielsen di agosto attestano una inversione di tendenza: 276,9 milioni di persone hanno usato la posta elettronica negli Usa, in Europa, Australia e Brasile facendo registrare un incremento del 21% rispetto all’agosto del 2008. Nella stesso periodo il numero di quanti hanno comunicato tramite i social network e i sistemi di microblogging è decollato del 31% raggiungendo la rispettabile quota di 301,5 milioni di utenti.

sabato 10 ottobre 2009

CROLLA LA PUBBLICITA' SULLA CARTA STAMPATA


da "Dagospia", er mejo sito, ecc.
TEMPI NERI PER LA CARTA – LA PUBBLICITÀ NELLA STAMPA È IN PICCHIATA (-24%) - I DATI DELL'OSSERVATORIO FCP SUGLI INVESTIMENTI NEI PRIMI OTTO MESI DEL 2009: QUOTIDIANI (-20%), FREE PRESS (-28%) – PER I PERIODICI SI REGISTRA UNA FRENATA GENERALE: QUOTIDIANI (-20%), SETTIMANALI (-30%), MENSILI (-32%)…

sabato 3 ottobre 2009

ARRIVANO I TABLET


2010, l'anno dei tablet
fra giganti è già scontro
Microsoft e Apple (ma anche Toshiba) si muovono per conquistare il mercato dei nuovi personal computer. I prototipi hanno tutte le funzionalità di un portatile, con molte novità nell'interazione con l'utente
di ERNESTO ASSANTE

2010, l'anno dei tablet fra giganti è già scontro
IL 2010 sarà l'anno dei "tablet pc". Lo dicono in molti, soprattutto perché a muoversi con grande vivacità in questo campo, fino ad oggi poco esplorato, del personal computing, ci sono due colossi come Microsoft e Apple. La battaglia tra Redmond e Cupertino sul fronte del tablet non è ancora arrivata allo scoperto ma sotto la cenere cova un interessantissimo "fuoco".

A muoversi per prima è stata Microsoft, che ha prodotto un prototipo del nuovo prodotto, chiamato Courier, del quale circolano in rete moltissime immagini. Si tratta di un tablet di nuova concezione, più vicino, nella forma, agli e-reader come quello della Sony o il Kindle di Amazon, con la forma di un libro. Ma a differenza degli e-reader, il Courier ha tutte le funzionalità di un vero pc portatile, con molte novità nell'interazione con l'utente tratte dal sistema di Microsoft Surface.

Ma le novità non finiscono qui, perché Courier offre anche due schermi da circa 7 pollici, che dialogano tra loro, e un'interfaccia che mescola multitouch e gestione con una penna. Sul retro del tablet c'è poi una camera digitale, che dovrebbe avere tre megapixel, zoom e flash. Del resto il concetto di Tablet Pc è nato proprio in casa Microsoft, che anni orsono ha stilato le specifiche che un computer deve rispettare per poter essere chiamato Tablet PC, ed ha anche prodotto prima una versione speciale di Windows XP, detta Tablet PC Edition, e poi offerto il supporto ai tablet in alcune versioni di Vista. Anche Windows 7 integra, con nuove funzionalità, la gestione dei Tablet Pc.

Che anche la Apple sia in movimento su questo fronte lo si dice da tempo, ma che l'accelerazione sia notevole in queste settimane è diventato evidente giusto ieri, quando l'azienda di Steve Jobs ha annunciato il ritorno in casa Apple, di Michael Tchao, che è stato uno degli sviluppatori di Newton, il primo Pda della storia. Tchao torna alla Apple dopo aver lavorato per il TechLab di Nike, disegnando prodotti integrati con iPod. Secondo il New York Times, il nuovo ruolo di Tchao sarebbe di responsabile marketing per un tablet touchscreen da 10" con tecnologia 3G integrata che Apple starebbe preparando e che dovrebbe arrivare entro il 2010.
Click here to find out more!

Nel grande scontro si inserisce, nel frattempo, anche la Toshiba, che si appresta a introdurre un tablet multimediale chiamato JournE Touch, con uno schermo touch screen da 7 pollici.

venerdì 2 ottobre 2009

MICA SEMPRE TUTTA COLPA DI SILVIO


ROSSO RAI, AZZURRO MEDIASET - LA TV PUBBLICA PERDERÀ 600 MLN DA QUI AL 2012, IL BISCIONE INVECE CRESCE – TUTTA COLPA DI SILVIO? A V.LE MAZZINI 8 MILA DIPENDENTI IN PIÙ - E QUANTO PESANO LE INFORNATE DI DIRETTORI E VICE DI NOMINA POLITICA (CHE RESTANO TALI ANCHE AD INCARICO SCADUTO)?...

Sergio Rizzo per il "Corriere della Sera"

Masi profetizza, con un buco di 210 milioni di euro nel prossimo anno e una voragine di 600 milioni da qui al 2012, bisogna tornare indietro di quindici anni. Silvio Berlusconi aveva già vinto le sue prime elezioni quando, nella primavera del 1994, la Rai «dei professori», allora presieduta da Claudio Demattè, archiviò il bilancio 1994 con una perdita di 479 miliardi di lire. Dopo un decennio di follie, durante il quale la tivù di Stato si era dissanguata nella concorrenza alle reti televisive del premier in pectore, era stato toccato il fondo.
CARLO FRECCERO - copyright Pizzi

Da quel punto, insomma, si poteva soltanto risalire. A differenza di quello che sta accadendo ora. Perché all'inizio degli anni Novanta la situazione disastrosa dei conti aziendali era la conseguenza di un indebitamento allucinante, che costringeva la Rai a pagare centinaia di miliardi di lire di interessi. Ora, invece, la tivù di Stato ha 956 milioni di euro di debiti: ma in gran parte, come tutte le imprese soprattutto pubbliche, nei riguardi dei fornitori. L'esposizione con le banche è pressoché inesistente. Mentre, fatto ben più preoccupante, non c'è altra azienda pubblica, a parte forse la Tirrenia di navigazione, che debba fare i conti con problemi strutturali tanto pesanti.
Silvio Berlusconi - copyright Pizzi

Il calo della pubblicità, per esempio. Quest'anno la flessione netta degli introiti dovrebbe aggirarsi intorno ai 140 milioni, dopo i 40 già perduti nel 2008. Si dirà che con i tempi che corrono soffre tutto il settore. Anche il principale concorrente: Mediaset. Intanto però, se è vero che gli incassi pubblicitari del gruppo che fa capo al presidente del Consiglio sono rimasti nel 2008 pressoché stabili (a un livello quasi triplo rispetto a quelli della Rai, 2.881 milioni contro 1.187), il fatturato ha continuato a crescere. I ricavi consolidati di Mediaset hanno toccato 4.251,8 milioni, con un aumento del 4,2%, raggiungendo un livello superiore del 32% a quello della Rai: un miliardo tondo in più.
MARINA BERLUSCONI

Va detto che questa cifra comprende le attività non indifferenti della controllata spagnola Telecinco. Ma anche limitandosi al perimetro italiano, tuttavia, Mediaset ha sorpassato la Rai: 3.271 milioni contro 3.210.

È la prima volta che accade. Ma non poteva essere diversamente in un anno, il 2008, nel quale il fatturato Rai è sceso dello 0,7% e quello di Mediaset Italia è al contrario lievitato del 9%. Merito degli incassi della pay tv, opzione strategica alla quale la Rai ha sostanzialmente rinunciato. Mettendosi così nelle assurde condizioni di una tivù commerciale, con azionista pubblico, che ha scelto di stare fuori del mercato.

Né va meglio con il canone, che rappresenta più del 50% dei ricavi Rai. Tanto più che ora alcuni giornali vicini al centrodestra e strutture dell'attuale maggioranza di governo (i Circoli della libertà) che controlla due canali su tre e il consiglio di amministrazione hanno lanciato una singolare campagna di boicottaggio.
Gabanelli

Pagano 15.939.000 famiglie, più o meno le stesse del 1993, quando i contribuenti erano 15.700.000. Non pagano, pur essendo stati già messi a ruolo, 737 mila. Ma il tasso di evasione presunto è ben superiore: 28%. Resta il fatto che con l'attuale struttura aziendale il canone non riesce nemmeno a fornire le risorse necessarie alle attività di «servizio pubblico». Il bilancio 2007 di queste attività ha chiuso in perdita per 260 milioni di euro.

Se poi si aggiunge la decisione voluta fortemente da Masi, di recedere dal contratto che legava Sky a Raisat, la società presieduta da Carlo Freccero (nella quale ha una partecipazione del 5% anche Rcs MediaGroup, editrice del Corriere ), il quadro si fa ancora più complesso.
MAURO MASI SUSANNA SMITH

Secondo Masi la decisione di abbandonare la piattaforma satellitare di Rupert Murdoch eviterà una emorragia ulteriore di ricavi pubblicitari. Nel frattempo, però, la Rai rinuncia da fine luglio agli oltre 50 milioni annui che Sky le versava come corrispettivo: cifra tra l'altro destinata a crescere, per una clausola contrattuale, con l'aumento degli abbonati alla tivù satellitare del magnate australiano.

Nel 2008 l'introito è stato di 55,2 milioni, contro i 53,3 del 2007. Ed è difficile sostenere che ciò non abbia una conseguenza immediata sui conti del 2009, che chiuderanno, ha detto Masi, con una perdita di 50 milioni. Per quanto riguarda il futuro, si vedrà. Si vedrà soprattutto se e come funzionerà la nuova piattaforma nata nell'estate del 2008, e battezzata Tivù, nella quale non a caso la Rai è in società con Mediaset, e di cui Telecom Italia ha una quota minoritaria.

Tutto questo mentre la televisione pubblica è costretta a coprire i grandi eventi sportivi, dal costo sempre più insostenibile: l'anno scorso Europei di calcio e Olimpiadi hanno fatto schizzare all'insù di 145,6 milioni i costi operativi. Una mazzata, non compensata dalla pubblicità. Per non dire degli stipendi.

La differenza fra Rai e Mediaset è tutta qui. Con fatturati italiani e audience paragonabili, le due aziende hanno una differenza enorme: il numero di buste paga. Compresi i lavoratori a tempo determinato, la Rai paga 13.236 dipendenti, spendendo un miliardo e 9 milioni di euro. Mediaset «Italia», invece, nel 2008 ne ha retribuiti mediamente 5.122. Ossia 8.114 in meno.

Il peso economico di questo macigno si sente, eccome. Il costo del lavoro in Rai supera di 580 milioni quello di Mediaset Italia. In larga misura una tassa che l'azienda paga ai partiti: i suoi veri azionisti. E non soltanto, come si potrebbe pensare, con riguardo alla categoria più esposta alla politica, cioè i giornalisti. Vero è che sono più di 2.000, se si calcolano anche i 347 precari. Sono 347, più o meno quanti sono tutti i giornalisti di Mediaset Italia, 378.

Oppure, quanti sono tutti i giornalisti Rai con qualifica di dirigente: 330 fra direttori, vicedirettori e capiredattori. Ogni cinque cronisti assunti in pianta stabile (1.659) c'è un generale. Naturalmente, non si può non sottolineare che fra l'offerta informativa della Rai e quella di Mediaset c'è un abisso, e che la tivù di Stato mantiene affollatissime redazioni regionali. Ma 2.006 giornalisti non sono uno scherzo. Come non lo sono 8.134 impiegati, due volte e mezzo quelli del concorrente privato.

Alla Rai ci sono perfino 12 medici ambulatoriali dipendenti dell'azienda. Il numero dei dirigenti, invece, è identico: 347. E questo potrebbe spiegare perché il costo pro capite del lavoro sia più alto a Mediaset: 83.795 euro contro 76.276 euro.

Se non ci fosse il fardello supplementare di qualche migliaio di dipendenti, non c'è dubbio che la musica del conto economico Rai sarebbe un'altra. Basta un'occhiata alle cifre. In un anno di difficoltà come il 2008 il bilancio Mediaset Italia ha chiuso in utile per 378 milioni (459 milioni i profitti di tutto il gruppo), mentre i conti della Rai erano in perdita per 7 milioni. La differenza aritmetica non corrisponde ai 580 milioni di maggior costo del lavoro anche perché Mediaset, a differenza della Rai, paga non trascurabili interessi alle banche: fra i creditori c'è pure, per 310 milioni, Mediobanca, partecipata da Fininvest e nel cui consiglio siede il consigliere di Mediaset Marina Berlusconi.

Secondo una stima della stessa Mediobanca il principale gruppo televisivo privato archivierà il 2009 in Italia con 259 milioni di utili, che saliranno a 299 nel 2010, quando anche la ripresa del titolo si dovrebbe essere consolidata. Mentre i conti dalla Rai sarebbero in rosso profondo.

Come arginare questa situazione? Sforbiciando qua e là. Ma talvolta con interventi che lasciano decisamente perplessi sulle motivazioni economiche. Come nel caso della tutela legale alla trasmissione «Report» di Milena Gabanelli, indicata da qualcuno nel centrodestra (il presidente della commissione Trasporti e Comunicazioni della Camera Mario Valducci) fra quelle «ostili» alla maggioranza di governo.

Masi ha insistito fino all'ultimo per eliminarla, portando come giustificazione i costi delle cause di risarcimento a cui l'azienda sarebbe esposta. Sapete quanto è accantonato a fondo rischi per tutte le cause legali intentate nei confronti di viale Mazzini, compreso anche il contenzioso civile a carico di «Report» diventato ormai la pietra dello scandalo, e comprese anche le controversie contrattuali? Settanta milioni. Contro i 62,7 milioni messi da parte nel bilancio di Mediaset: che a questa somma doveva però aggiungere 76,8 milioni proprio per i rischi contrattuali.

Cifre sicuramente importanti, anche se va precisato che l'accantonamento non equivale affatto a un costo. Spesso, anzi, è addirittura un risparmio. Quanto costeranno invece le inutili infornate di direttori e vicedirettori di reti e testate decise solo per motivi di lottizzazione politica?