L'allarme dei cervelli in fuga dall'Italia:
«Nel nostro paese solo clientele e nepotismo»
di Anna Maria Sersale
ROMA (7 luglio) - «Sono un ingegnere emigrato in Germania per ovvi motivi: soldi, trasparenza e migliori opportunità di carriera. L’Italia l’ho lasciata a malincuore, ma è il Paese delle raccomandazioni. Ho provato sulla mia pelle che non si sfugge alla logica delle clientele, degli imbrogli, delle scorciatoie. Abbiamo doti invidiabili, ma tutto è vano difronte a questo sistema vischioso che tarpa le ali ai giovani». Antonio F. racconta la sua storia di emigrato con la laurea in tasca. Il suo non è un caso isolato. «Entro il 2009 mi trasferirò a Zurigo per un dottorato, lascerò la mia famiglia a Roma. Mi ero ripromesso di restare, convinto che quello della fuga dei cervelli fosse un problema ingigantito dai media e che andare negli Stati Uniti per continuare gli studi fosse una moda. Poi ho fatto i conti con il mio futuro, l’ho guardato in faccia, e mi sono visto guadagnare 1.500 euro dopo 15 anni dalla laurea, se va bene. Mi sono visto a casa ancora a lungo, a chiedere i soldi per la benzina, ad aspettare il piatto in tavola la sera. A Zurigo, invece, avrò la possibilità di mantenermi. Mi dico che la patria, in fondo, è quella che mi dà lavoro. Andrò in Svizzera e poi chissà dove».
Fabio, giovane laureato in chimica, insieme a tanti altri ricercatori si è rivolto al Messaggero online dopo che abbiamo pubblicato i dati di una ricerca del Censis. I dati sono allarmanti, su carriere, retribuzioni e modalità di accesso al lavoro. Ma qual è la differenza tra lavorare in Italia e all’estero? Partiamo dal curriculum, che è lo strumento principale per presentarsi alle aziende. Ebbene, all’estero l’invio del profilo personale ha un riscontro, è uno strumento efficace per trovare lavoro, in Italia, invece, se il curriculum non è accompagnato da calorose segnalazioni è praticamente carta straccia. Ecco un dato: il 22,4% dei laureati, che hanno conseguito il titolo da tre anni, all’estero abbastanza frequentemente conquistano un contratto attraverso le inserzioni sui giornali o su Internet. In Italia la percentuale scende al 9%. Oltre confine l’accesso al lavoro tramite stage o tirocinio in azienda è molto più frequente. Da noi, invece, è alto il ricorso alla classica segnalazione di parenti e amici.
Quanto alla carriera, tra i lavoratori dipendenti quelli che all’estero a tre anni dalla laurea hanno una posizione di quadro o funzionario sono il 32,1%. Se ci spostiamo in Italia la percentuale scende al 17,1%. Ma i dati che saltano più agli occhi, brutalmente, sono quelli relativi alla retribuzione: è sotto i 1.000 euro netti al mese per il 24,6% dei giovani rimasti in Italia; contro il 10,2% di quelli che lavorano all’estero. Ma è guardando alla fascia alta che il confronto si fa impietoso: fuori dei confini nazionali il 43% ha uno stipendio che supera i 1.700 euro al mese. In Italia solo il 9,2% ha una analoga retribuzione. D’accordo che i soldi non sono tutto, d’accordo che in alcuni dei Paesi il costo della vita più alto può giustificare salari maggiori, ma il divario è enorme e l’impressione che la tua patria ti valuti meno, e dunque in un certo senso ti rifiuti, spinge a cercare fortuna altrove.
Ed ecco un’altra testimonianza: «Sono emigrato in Olanda più di dieci anni fa, laurea in legge, esperienze lavorative a Roma, nel campo informatico. Precarietà e incertezze erano pane quotidiano. Mi sono trasferito e qui, dopo tre mesi, avevo un lavoro decente, prima alla Shell, poi presso una società edilizia, poi presso una organizzazione internazionale, sempre nell’informatica. Tre anni fa mi sono spostato in Inghilterra dove ho trovato un nuovo lavoro, che svolgo con grande soddisfazione. Senza amici, senza raccomandazioni, senza essere un genio, mi sono sistemato». «All’estero la parola magica è una sola, meritocrazia - osserva George, anche lui in Olanda - In Italia clientelismo e nepotismo sono diffusi a tutti i livelli, essere bravi è sostanzialmente inutile».
L’emigrazione di ricercatori e laureati è uno dei problemi irrisolti. Esportiamo trentamila ricercatori l’anno e ne importiamo tremila. Un saldo drammaticamente negativo. La “fuga” dei cervelli ci costa otto miliardi di euro l’anno. La nostra capacità competitiva è progressivamente in calo e cresce il divario con gli altri partners. Costringiamo i ricercatori a fare le valigie e quando riusciamo a farli tornare, ma è raro che tornino, non siamo in grado di trattenerli. «Siamo schiacciati da un sistema gerontocratico che si autoalimenta - sostiene Francesco Mauriello, presidente dell’Adi, l’Associazione dei dottorandi e dei dottori italiani - Non diamo prospettive ai giovani. Eppure sono bravi, all’estero li prendono a scatola chiusa e li pagano bene. La fuga continua perché qui non si investe in ricerca, mancano adeguate dotazioni di laboratori e i finanziamenti arrivano col contagocce».
I ricercatori prima li facciamo partire, poi, quando tornano, non abbiamo abbastanza risorse per utilizzarli. I cervelli che abbiamo richiamato nel 2006 spendendo 3 milioni di euro in parte ancora vagano alla ricerca di una università o di un ente di ricerca che li prenda e li faccia lavorare. Molti dei 466 rientrati hanno già rifatto le valigie. Qualche altro aspetta, perché ha avuto delle promesse. Però i fondi destinati al ritorno in patria nel 2007 sono stati dimezzati, 1.500 euro. Per il 2008 non si sa quanti ne verranno stanziati. Tanto la situazione è fluida che i ”cervelli rientrati” hanno costituito un Coordinamento. «Se alla emigrazione massiccia - dicono - corrispondesse un flusso in ingresso altrettanto rilevante non ci dovremmo preoccupare, però non è così, l’Italia non ha capacità di attrarre gli stranieri».
Rob, irlandese da un anno e mezzo: «Sono arrivato che non sapevo dire nemmeno ciao, ora lavoro per una delle più grandi aziende del mondo con contratto a tempo indeterminato. Parlo due lingue e ho un elevato livello di professionalità. Qualche tempo fa sono tornato in Italia e cosa mi offrono? Due mesi di contratto a progetto e 800 euro al mese. Faccio presente che ne guadagno 2.000, ma niente. Così sono ripartito. A chi resta faccio tanti auguri». «Peccato che lo Stato sia assente - è il commento di un altro ricercatore all’estero - Ne conosco moltissimi di espatriati in Olanda, tutti se ne sono andati per lo stesso motivo: non erano raccomandati e non sopportavano più di essere penalizzati da un sistema che non riconosce il merito ma si regge sulle lobby e sulle clientele politiche. C’è gente che lavora al Centro spaziale di Noordwijk e che è arrivata in Olanda solo con la laurea e una certa conoscenza dell’inglese. Per loro l’obiettivo era quello di premiare i loro anni di studio con una realizzazione professionale all’altezza della preparazione. Ci sono riusciti».
Un sistema malato, il nostro, del quale ci dobbiamo liberare se vogliamo ridare speranze e prospettive alle generazioni che formiamo. Non possiamo continuare a regalare su un piatto d’argento i giovani sfornati dalle nostre università, i cui costi sono a carico del Paese.
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