Caso Emanuela Orlandi: dai vecchi identikit
spunta il complice di Renatino
di Valentina Errante
ROMA (29 giugno) - “Renatino”, ma non solo, c’è un altro nome nella “nuova” inchiesta sul caso Orlandi. Perché dopo le rivelazioni dell’ex compagna del boss dei “Testaccini”, gli investigatori sono tornati indietro. Fino al 22 giugno del 1983. Fino alle ultime ore di Emanuela e alle uniche vaghe testimonianze sulla sua scomparsa, quelle che nei giorni successivi al sequestro hanno consentito di tracciare gli identikit. Con un vantaggio: adesso i tratti abbozzati dalla matita dei carabinieri di via In Selci sono stati cercati nei volti schedati degli uomini della Magliana. E qualcosa dall’archivio è saltato fuori: la somiglianza tra uno dei tre iedentikit dell’epoca e l’immagine di uno dei tanti “gregari” della Magliana. Allora un ragazzo. Oggi un cinquantenne, sopravvissuto alla guerra tra bande. Senza condanne “pesanti” sulle spalle.
La procura smentisce. Le indagini sono a 360, ripetono il procuratore aggiunto Italo Ormanni e i pm Simona Maisto e Andrea De Gasperis, si sta ancora verificando l’attendibilità di Sabrina Minardi. Ma gli investigatori hanno già controllato: quell’uomo, all’epoca del sequestro, non era in carcere. E la sua abitazione, alcune settimane fa, prima che le dichiarazioni di Sabrina Minardi venissero rese pubbliche, è stata perquisita. Anche l’età coincide. Un giovane sui 23-27 anni, si leggeva nella descrizione fornita nel luglio ’83 da un’amica di Emanuela ai carabinieri, alto circa un metro e 75, corporatura normale, capelli neri corti con una leggera frangetta sulla fronte, occhi scuri, naso e bocca regolari, colorito olivastro. Potrebbe essere sudamericano o arabo.
Secondo le testimonianze, quel ragazzo si aggirava tra piazza Navona e piazza Sant’Apollinare. E la compagna del corso di musica di Emanuela lo aveva visto. Con un altra persona aveva tentato di “abbordare” la sua amica. Emanuela, con garbo e fermezza, aveva respinto le avances. Gli identikit tracciati per il sequestro Orlandi erano poi erano stati riconosciuti anche dalla mamma di Mirella Gregori, la ragazza scomparsa 45 giorni prima di Emanuela. E i volti abbozzati erano diventati anche quelli dei ”sospettati” per il rapimento di Mirella. I disegni, però, per venticinque anni, non sono stati associati a un nome.
Gli accertamenti sono ancora in corso. Gli investigatori non si aspettano di ottenere conferme interrogando l’ex “testaccino”. Cercano riscontri oggettivi. E la voce di quell’uomo verrà comparata con i vecchi nastri. Quelli di archivio, riscoltati centinaia di volte in questi venticinque anni. La voce di “Mario”, l’unico dei tanti a chiamare casa Orlandi in quei giorni per rivendicare il sequestro ad essere ritenuto attendibile, per i riscontri offerti alla famiglia. Due anni fa, quella stessa telefonata era stata ascoltata con attenzione. Il pentito Antonio Mancini, davanti alle telecamere, aveva sostenuto che quella fosse la voce della “Magliana”, indicando il nomignolo dell’autore della chiamata. Ma gli accertamenti della procura hanno dato esito negativo.
Adesso sarà eseguito lo stesso esame, la voce dell’uomo che qualcuno degli investigatori riconosce nell’identikit, sarà comparata a quella di chi, nel 1983, rivendicava al telefono il rapimento.
Eppure, alcuni uomini della banda della Magliana, già a pochi mesi dal sequestro, erano stati convocati e sentiti dagli investigatori. I carabinieri, all’epoca, avevano anche ipotizzato che a eseguire il sequestro potessero essere i componenti di un’organizzazione. Una possibilità alla quale la squadra mobile non aveva creduto. L’apparato “scenografico”, fatto di telefonate, messaggi anonimi e rivendicazioni, non rientrava nel modus operandi della banda. E così la pista era stata abbandonata, per privilegiare quella politica, con un ruolo centrale dei “Lupi grigi” e il tentativo di liberazione di Alì Agca, l’uomo che aveva sparato al Papa. La direzione presa allora dalle indagini è stata definita più di dieci anni fa il frutto di un depistaggio. Nel ’97, il giudice Adele Rando, a quattordici anni dal sequestro di Emanuela, ha archiviato la pista internazionale. Il giudice, su sollecitazione del procuratore generale Vittorio Malerba, aveva però mandato in procura gli atti, sostenendo che la chiave del mistero fosse all’interno delle mura leonine e ipotizzando un ruolo del vicecapo della sicurezza Vaticana nei pesanti depistaggi messi in atto per quattrdici anni.
I mitomani all’epoca erano tanti. Così, nell’84, quando gli investigatori seguirono Sabrina Minardi per arrestare Enrico De Pedis, nessuno pensò a una lettera anonima diffusa dall’Ansa a pochi mesi dal sequestro. Si metteva in relazione la scomparsa di Emanuela Orlandi con la moglie di un calciatore della Lazio. Il documento non nominava Bruno Giordano, marito di Sabrina Minardi, ma il difensore Arcadio Spinozzi, risultato assolutamente estraneo alla vicenda. Nessuno però pensò di fare chiarezza su quello strano messaggio.
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