lunedì 17 marzo 2008

La moderazione del Dalai Lama

Scritto da: Fabio Cavalera alle 07:19

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“Genocidio culturale”. Il Dalai Lama ha parlato nella sede del governo tibetano in esilio e ha puntato il dito contro la Cina ma i suoi discorsi lasciano aperta la porta al dialogo con il regime. Sarebbe stato facile, per lui, sull’onda dei morti negli scontri di venerdì a Lhasa (13 bruciati vivi o accoltellati, secondo le fonti ufficiali) e delle nuove sette vittime in Sichuan, rivolgersi al mondo già toccato dalla violenza usata dalla forze di sicurezza per reprimere le proteste dei monaci e chiedere di boicottare le Olimpiadi di agosto a Pechino. A quel punto, come si sarebbero comportati i governi di fronte all’appello proveniente da una tale autorità di pace? Come sarebbero potuti restare insensibili di fronte al grido di dolore del popolo tibetano?

Il quattordicesimo capo spirituale della comunità buddista ha invece spento gli ardori di chi pensava che fosse venuto il momento di strappare con la Cina e di mandare in crisi l’organizzazione dei Giochi Olimpici. E, anzi, ha chiesto esplicitamente di non percorrere questa strada: “Il boicottaggio colpisce i più deboli”. Una posizione politicamente forte e cauta che lascia alla Cina la responsabilità piena e unica di ciò che nelle prossime ore avverrà a Lhasa, in Tibet e nella provincia vicina del Sichuan dove si è ribellata la comunità della contea di Abe e dove la polizia è intervenuta per soffocare e ammazzare i manifestanti.

Il Dalai Lama rompendo il silenzio a Daharamsala, in India, ha richiamato l’attenzione sul processo di colonizzazione cinese che “sta annullando la storia, la cultura e quanto c’è di tibetano” e che costringe “i tibetani a vivere in un regime di terrore, trattati come cittadini di seconda classe”: questo è il genocidio culturale, l’azzeramento dell’identità di una etnia che non “vuole la separazione ma l’autonomia”. Il premio Nobel per la Pace è stato molto attento nel calibrare le frasi proprio per non aggiungere nuova benzina a una situazione già di pericolo estremo e per non dare a Pechino il pretesto di giustificare un massacro in nome di presunte attività insurrezionali. Le proteste dei monaci e dei civili tibetani segnalano l’insofferenza forte verso una nomenklatura che anziché riconoscere il valore della diversità storica, delle tradizioni, dei costumi provano da anni a soffocarli, cancellarli o strumentalmente utilizzarli come vetrina di consumismo turistico. Ma il Dalai Lama non ha indicato nella secessione la via da seguire.

Il caso Tibet pesa sulla coscienza della comunità internazionale, non da oggi ma da almeno 50 anni. Ora esplode, alla vigilia delle Olimpiadi. Forse vi è una regia in tutto ciò ma se davvero c’è una trama politica per ricollocare il Tibet al centro delle attenzioni questa è utile per sollecitare la Cina a rispettare, come afferma di fare, le minoranze e le opposizioni. E’ impensabile che un evento di pace come la massima rassegna dello sport mondiale si ritrovi macchiata da una sistematica e ingiustificabile violazione dei diritti umani. Il Dalai Lama si è ben guardato dal chiedere ai governi di bloccare le spedizioni olimpiche, non ha regalato una carta del genere a Pechino. Si è limitato a sollecitare una inchiesta internazionale sulla strage di Lhasa e ora del Sichuan. E’ la Cina in grado di affrontare un passaggio del genere? E’ in grado di aprire le porte a un’autorità indipendente che sia messa nella condizione di verificare se in Tibet vi è stato “genocidio culturale”? E’ in grado di rispondere all’invito al dialogo di nuovo espresso dal Dalai Lama all’indomani di un massacro?

Oggi a Pechino finisce l’Assemblea Nazionale. Forse parlerà il premier Wen Jiabao, uomo di partito ma uomo di consolidata sensibilità e di esperienza internazionale. Pechino deve rispondere e decidere se vuole ospitare Olimpiadi senza ombre.
Pubblicato il 17.03.08 07:19
13/03/2008

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