venerdì 4 settembre 2009

ART & BRAND


lips © giovanni caviezel

Opere da tre soldi – Damien Hirst fa i saldi. Takashi Murakami vende giocattoli. E le canzoni di Martin Creed si scaricano sull'iPod - Gli artisti scoprono il mondo dei gadget - E la factory ideata da Warhol lascia il posto alla company...

Alessandra Mammì per L'espresso

Non è più vero che "Good business is the best art", come diceva Warhol, il cinico. Tempi più cinici di lui ci insegnano che oggi è vero esattamente il contrario: "Good art is the best business". Quel business che ha scavalcato gallerie, musei, fiere ed è esploso nel mondo in forma di gadget, moda, status symbol. Più di Warhol e meglio di Warhol che predicava ai discepoli: "Il tuo prodotto non dovrebbe avere niente a che fare con te".
warhol by berengo gardin

Ovvero: niente pathos, niente artigianato, niente segno dell'artista. Non opera ma prodotto appunto, oggetto neutro che va ben oltre la fisicità del creatore. Perché in quegli anni Sessanta non se ne poteva più della Bohème e dell'esistenzialismo, degli artisti maledetti e perennemente innamorati, delle loro strabordanti biografie e delle opere ideologiche e ruggenti da ultimi figli del Romanticismo.

Il primo passo fu disarmarli con una zuppa al pomodoro, il secondo calpestarli con una intera Factory e infine annientarli con il gelido biondo platino di una parrucca e lo sguardo impassibile del primo artista impresario.

Ma a sferrare il colpo finale è l'attuale trasformazione dell'impresario in brand, e della factory in company che gestisce la globalizzazione, conquista il mercato reale e virtuale, scavalca persino quello artistico promuovendosi in modo autarchico.

Autunno 2007. Takashi Murakami porta in giro per il mondo la sua mega mostra chiamandola ' MURAKAMI' un titolo che è epitaffio dell'individualità dell'artista, dove muore persino la firma e resta solo il copyright.
Andy Warhol

Settembre 2008. Damien Hirst nel ruolo di autore e promoter indice per la prima volta un'asta da Sotheby's senza intermediari. E vende tutto. Urge riflessione. E la riflessione arriva dal primo ottobre in forma di mostra nel luogo più indicato a tanta impresa: la Tate Modern di Londra. 'Pop Life. Art in a material world' recita il titolo che gira intorno a inquietanti pensieri.

Se il mondo è materiale gli artisti sono oggi più materialisti di lui. A loro non basta più trasformare in icona la società dei consumi e dello spettacolo. Vogliono entrare nella pancia della balena, infiltrarsi nei meccanismi, usare il mercato come una strategia scientifica di conquista del loro pubblico ed espandere i confini del mondo dell'arte in quelli del commercio vero e proprio.

Cliccare per credere: www.othercriteria. com. È il sito della casa di produzione di libri, gadget e magliette a firma Damien Hirst. Il suo webshop come tutto il commercio on line è prodigo di occasioni. Tra le 'special offers' del momento compaiono due sedie a sdraio firmate e scontate al prezzo di 500 sterline e una sfilata di T-shirt con teschi luccicanti e croci pastello al 30 per cento in meno se acquistate per un minimo di tre capi.

Mettere crocette con le taglie nell'apposita finestra, poi buttare il tutto nel basket in cui si possono sempre aggiungere pezzi unici da 50 mila sterline in su e cataloghi firmati al prezzo di 500 sterline contro le 190 della copia in libreria.

È il mercato, bellezza: quello dell'arte on line che è diventato opera di per sé. È un'opera solo a vederlo il sito giapponese, in puro giapponese e esclusivamente per acquisti in yen, che ha aperto Murakami per vendere i suoi toys, i suoi cartoon, i suoi cuscini e i portachiavi impupazzati.
Takashi Murakami

Il sito si chiama Kaikai Kiki Market Place (http://kkm.kaikaikiki.co.jp), esattamente come la sua fondazione che promuove giovani artisti, organizza fiere, controlla il mercato, gestisce joint venture con potenti brand come Vuitton e titola giustamente le grandi mostre itineranti MURAKAMI.

Bisogna capire dove stiamo andando. E la Tate ci prova, nella persona di uno dei curatori della mostra Catherine Wood che nel suo saggio cerca disperatamente i padri di tanta rivoluzione. Da una parte trova ovviamente Warhol, dall'altra Duchamp. In fondo fu lui a spersonalizzare l'opera, a firmare un orinatoio, a miniaturizzare i suoi capolavori mettendoli tutti in una valigetta di cuoio prodotta a multiplo.

Non c'era ancora lo shop online e le miniature erano affidate agli artigiani del presepe, ma il principio in fondo era lo stesso. Quello che mancava però, era l'esplosione del capitalismo globale che trasforma ruolo e immagine dell'artista. Non a caso la nascita degli Young British Artists (Hirst in testa) avviene proprio in quella Londra anni Novanta uscita dalla crisi e diventata la capitale della finanza globale.

Il nuovo scenario economico modifica dall'interno ruolo e immagine dell'artista. Fa notare Catherine Wood che l'entrata in scena di Jeff Koons cambia addirittura il dress code: "Con le sue ordinarie giacche e cravatte, il suo fascino da ragazzino, l'aria sveglia da ex Wall Street trader, Koons distrugge l'immagine eccentrica e bohème dell'artista segregato dalla società normale". Altro che segregati.
Damien Hirst

Koons e i suoi fratelli sono perfettamente omogenei ai meccanismi dell'economia tanto da non aver più bisogno di parrucche, travestimenti, effetti speciali per sentirsi artisti. Guardateli: Murakami con la sua aria da fanciullone cresciuto, Martin Creed coi completi da college, Hirst con maglietta e jeans bracaloni. Niente stranezze. Siamo di fronte a geniali costruttori di immagini che come tali possono benissimo diventarne i venditori. E non come la benefica Fondazione di Keith Haring, una vera multinazionale che mette il marchio su penne, magliette e giochi da costruzione per devolvere il tutto ai malati di Aids. Qui l'artista si è trasformato in businessman.

Di più. Secondo Wim Delvoye, immaginifico artista belga "è finita l'epoca di curatori e critici. Gente che non è professionale come lo siamo noi, non ha la forza di visione che abbiamo noi. Oggi l'artista può riconquistare l'autonomia che aveva nel Rinascimento ed è la prima volta che accade in cinquecento anni". Tanto riscatto passa anche per il suo sito cliccabile, la Wim City a cui non manca naturalmente un ben fornito shop.

In fondo l'accesso diretto all'opera in forma di multiplo da pochi soldi è democratizzazione dell'arte. L'inglese Julian Opie ne fa un punto di forza del lavoro. Produce di tutto: dal magnete per frigorifero alla carta da parati, dai film alle sculture, dai quadri in 3D ai segnalibri, tutto democraticamente su www.julianopieshop.com a prezzi popolari. E ancor più economici sono i brani musicali di Martin Creed (www.martincreed.com) da scaricare per pochi centesimi di sterlina direttamente sull'iPod.
Koons jeff

Cosa buona e giusta perché per Creed il lavoro musicale è contraltare di quello visivo e non c'è mostra che non preveda l'esibizione della sua band. Libera musica - libera arte - libero web: l'opera-prodotto è anche simbolo di una rivoluzione sociale.

"Rovesciando la nozione di Underground", ci spiega la Wood," gli artisti ora portano ogni cosa in superficie, sperimentando la loro forza nel mondo attraverso i gradi di visibilità che riescono a raggiungere". E la visibilità rafforza il brand, il conto in banca e la possibilità di creare e operare all'interno dei meccanismi globali.

Ad accorgersi delle infinite potenzialità di tale sistema fu qualche anno fa Larry Mangel, dealer e direttore di una galleria d'arte americana, che esponeva Richard Serra e Donald Judd, Roy Lichtenstein e Anselm Kiefer. Tutte cose carissime, inaccessibili alla classe media. Mangel in realtà non aveva problemi: vendeva a musei e ricchi collezionisti ma cercava un'idea per conquistare un mercato più ampio.

Qualcosa che miniaturizzasse e mettesse in rete le opere proprio come aveva fatto Duchamp in scala artigianale con la sua 'Boîte-en-valise'. È allora che nasce 'Cerealart', sito dove comprare in forma lillipuziana un intero museo: dai mostri di Winnipeg di Marcel Dzama ai ministencil con le scritte di Lawrence Weiner per addobbare i muri di casa fino alla riproduzione esatta della 'Wrong Gallery'di Cattelan-Gioni-Subotnick in scala 1:6.

E così quella minuscola galleria-vetrina di New York dove non si entrava, non si comprava e non si vendeva, nata come uno schiaffo situazionista-concettuale al sistema di mercato è ora in vendita sul web in una tiratura di 2.500 esemplari a 1.650 dollari a pezzo con tanto di autentica degli autori. Colpo di coda dei tempi e conferma che davvero "good art is the best business".

Avrebbe dovuto saperlo Warhol il cinico quando si trovò di fronte una Campbell's più cinica di lui che nei tardi Sessanta lanciò una campagna con questo slogan: "Una copia di questa lattina è stata battuta all'asta per migliaia di dollari, voi potete avere l'originale per pochi cents". Ecco dov'è davvero lo spirito guida dei tempi. Bisogna suggerirlo alla Tate.

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