lunedì 22 settembre 2008

keef the human riff


KEITH RICHARDS, ETERNO E TOSSICO: DOPO LA DECIMA DISINTOSSICAZIONE, SAI CHE NON È POI COSÌ TERRIBILE – MICK PUÒ ROVINARE QUALUNQUE CANZONE – STUPENDA INTERVISTA A CHI INVENTÒ IL RIFF DI “SATISFACTION”…


Arianna Finos per “la Repubblica”


Keith Richards

C´è un medico americano che giura di averlo sentito parlare in modo nitido e veloce per tutta la serata, al tavolo del night club. Per poi tornare, appena salito sul palco, all´inconfondibile biascichio ereditato dagli anni della droga e dell´alcol. La parlata di Keith Richards, a Hollywood, ormai è slang di moda. Quello strascicar di vocaboli è entrato perfino nell´immaginario cinematografico dopo che Johnny Depp ci ha costruito il suo pirata dei Caraibi, Jack Sparrow. È un´etichetta, un marchio. Un boss della Disney, si racconta, visionò i primi provini di Depp e si mise a urlare: «Che cos´è questa roba? È pazzo, è ubriaco, è gay?». «È semplicemente Keith Richards», avrebbe ammesso pubblicamente l´attore, grande fan del musicista border line.

Richards, sessantacinque anni a dicembre, ha abbracciato il look corsaro da un trentennio. Camicia bianca e gilet nero, fascia azzurra in testa, come i bracciali di stoffa, quando lo incontriamo ci regala la sua ricetta di stile: «È tutto originale. Un po´ di Robert Louis Stevenson, un po´ di Barbanera e un pizzico di me». Tra la pioggia di amuleti, spicca la figura del teschio. C´è quello d´argento su un anello, da cui non si separa mai. «Ha un significato particolare nella mia vita. Io li attiro, i teschi. E mi sono anche rotto il mio». Ride e gli occhi bistrati affondano nella corteccia del viso. Ride, anche se si riferisce a un incidente piuttosto grave, accaduto due anni fa. Scalando una palma alle Isole Figi, è caduto ed è finito in sala operatoria: intervento a cranio aperto per un grumo al cervello.

Poche settimane dopo, però, era sul set del terzo “Pirati dei Carabi - Ai confini del mondo" a interpretare il papà di Depp. «Conosco Johnny da tanti anni», racconta, «è un grande amico di mio figlio. Per un po´ non sapevo chi fosse, a parte uno dei bravi ragazzi che frequenta Marlon. Poi ci siamo conosciuti meglio e lui mi ha detto che dovevamo fare qualcosa insieme. Gli ho risposto: "Procurami un lavoro". Non avrei mai immaginato di ritrovarmi in un film della Disney. La vita è strana, lo penso da sempre». Sull´esperienza da attore Richards ha molte certezze: «Ho detto la mia battuta, "il codice è la legge", e bum, buona la prima. Recitare mi piace: non avete ancora visto il mio re Lear. Devo trovarmi un agente».

Più recentemente, sui set del cinema c´è finito esercitando la sua professione principale: chitarrista della più antica rock band in vita. Keith Richards ha recitato se stesso nel documentario “Shine a Light” di Martin Scorsese. «Quando mi hanno riferito la proposta ho detto: un altro film sui Rolling Stones? Voglio dire, ce ne sono già di buoni, “Simpathy for the Devil”, “Gimme Shelter”, “Cocksucker Blues”? Poi ho saputo che lo avrebbe firmato Scorsese e ho chiesto: quando si comincia?». L´affinità tra gli Stones e Scorsese è di vecchissima data, ricorda Richards: «Marty ha la peculiarità di saper vedere le cose in profondità e per qualche strano motivo con noi ha sempre avuto un rapporto simbiotico. Ad esempio “Mean Streets”, che ho rivisto di recente. Il film poggia tutto sulla colonna sonora, a sua volta costruita sulle nostre canzoni».

La pellicola preferita da Keith Richards nella cinematografia dell´italoamericano è “Toro Scatenato”: «Fantastico. È la mia riserva continua di citazioni e battute. "Quella notte mi levai l´accappatoio e cascò il mondo, avevo scordato i pantaloncini", è una delle grandi battute del film. Gran parte dei tecnici dei Rolling Stones è italoamericana e il tour va via con una citazione continua della filmografia di Scorsese».

In realtà degli Stones il vero appassionato di cinema è Mick Jagger, che ha fondato la sua casa di produzione e che già progetta un film con Scorsese sulla storia dell´industria cinematografica, le sue banditesche origini. «Mick pensa di essere l´uomo di cinema dei Rolling, ma non lo è. L´ho visto rotolare sullo schermo diverse volte, negli anni? Non lo fare, Mick, non lo fare? Ma lui nel tempo libero, alla fine, fa quello che vuole», concede acidamente Richards. Il dualismo tra lui e il frontman dei Rolling è iniziato insieme al loro sodalizio. Avevano diciassette anni ed erano sul treno che dalle rispettive scuole londinesi li riportava a casa, a Dartford, nel Kent. I due si erano annusati, guardando il mucchio di vinili sottobraccio dell´altro. «Vidi quei dischi e pensai: “The Best of Muddy Waters”, questo dev´essere un tipo a posto. Mettiamo su un gruppo».

C´è alchimia creativa e scontro caratteriale tra i due, una costante nella storia del gruppo. Mick, l´organizzatore, il ragioniere che veniva dalla School of Economics. Keith, studente d´arte, il pubblicitario, l´esteta e compositore. «Mick già ordinava dall´America i dischi della Chess Records, la casa discografica del rock´n´roll, mentre noi aspettavamo che venissero pubblicati in Inghilterra. Era molto organizzato». Nel ‘67 furono arrestati per droga insieme, nella casa di campagna di Richards, a Redland, nel Sussex. Ma nei decenni Jagger si è costruito un´immagine da manager salutista mentre il chitarrista ha continuato a tuffarsi nell´eroina e nella cocaina. Uno è stato recuperato dall´establishment e fatto baronetto dalla Regina, l´altro ha preferito alimentare l´aura maledetta: «Quando ti disintossichi per la decima volta sai già che puoi farcela e non è più così terribile».

Durante una delle sue pause tossiche dal gruppo, Jagger prese il sopravvento organizzativo, incombenza che non ha mollato più. I loro litigi sono entrati, come le canzoni composte insieme, nella storia del rock. Celeberrima la volta in cui Charlie Watts, ad Amsterdam, prese per il collo Jagger che lo aveva appena definito «il mio batterista» e lo lanciò su un tavolo colmo di salmone affumicato. «Jagger scivolava verso la finestra aperta, lo avrei lasciato cadere volentieri, lo ripescai solo perché indossava la mia giacca da matrimonio», racconta il perfido Richards.

Con gli anni il rapporto tra i due si è incattivito. Le tensioni si sono riaccese soprattutto dopo la lunga convivenza imposta dal tour Bigger Band, nel 2006. All´inizio di “Shine a Light” si vede Jagger preparare la scaletta. «È lui quello che deve andare a cantare. Se dice: "Stasera non ce la faccio a fare questa canzone, ho la voce rauca", per noi va bene. Puoi cambiare l´ordine delle canzoni, ma poi devi andare con il tuo frontman. Sul palco Charlie Watts e io non facciamo che girare come una rete di sicurezza. Quando Mick attacca a trotterellare lontano, verso il pubblico, quando prende un ritmo sbagliato, inizia a cantare in una scala musicale cinese, allora con Charlie ci guardiamo: "Riprendilo, riprendilo?". È un problema, riesce a rovinare qualunque canzone. Ma ogni tanto nella vita bisogna pur lavorare».

I disaccordi con Jagger hanno quasi provocato la fine del gruppo. «Ci stavamo per sciogliere, è vero. Ma - e qui la voce si fa ancora più lenta - lui, Mick, ha fatto quel che gli era stato detto di fare. È stato saggio». Ha pure indossato una maglietta con su scritto: «Chi cazzo è Mick Jagger?». Chiosa placido Keith: «Perché no?». Negli ultimi tempi anche il leader si è messo in testa di rendergli la pariglia. Uscita la notizia di un´autobiografia che Richards scriverà con l´aiuto dello scrittore, suo amico trentennale, James Fox (l´editore sborserà al musicista 7,3 milioni di dollari) e che sarà pubblicata nel 2010, il frontman ha commentato: «Per scrivere le proprie memorie bisognerebbe ricordarsele».

Si torna ai periodi poco lucidi del chitarrista Richards. A Mick, però, si sa, manca la cattiveria del collega, ansioso di provocare e di alimentare la sua leggenda di pirata. A proposito del critico svedese che ha stroncato l´ultimo album dei Rolling Stones dice, definendolo «l´uomo di Goteborg»: «Devo avergli fottuto la moglie, o qualcosa del genere. Ce l´ha con me per qualche motivo. Queste cose non mi danno fastidio, per niente. La prossima volta che vado in Svezia manderò un gruppo di ragazzi a spezzargli le gambe».

Sbruffone con le donne, come da etichetta, Richards innaffia la sua leggenda: «È vero che stare sul palco è un po´ come fare sesso. E quando non ho una bella bambola, nel letto mi porto la mia chitarra». Ma anche il pirata del rock è invecchiato. L´uomo che un tempo girava con rotoli di soldi, pistola e coltelli nelle tasche, che è stato per decenni sulla lista dei «pronti a morire» ed è sopravvissuto grazie a una fisicità taurina, oggi è un signore che posa accanto a valigie firmate e nel tempo libero va a pesca o porta «il cane a pisciare e le ragazze a scuola». Se gli chiedi conto della sortita sulla sniffata delle ceneri paterne, ti fissa negli occhi e risponde: «Bella domanda, passiamo oltre?».

Ti racconta, invece, quanto sia faticosa la tournée a sessantacinque anni: «Finiti i concerti, ci vogliono quattro mesi per riprendermi. Continuo a svegliarmi il mattino con l´adrenalina da palco e penso: "Ma oggi devo suonare? Devo volare? Dove sono?"». La macchina Rolling Stones è un ingranaggio inarrestabile: «Non andiamo avanti solo per i soldi, la nostra è una sfida: nessuno è riuscito a tenere una band per così tanto tempo. Sul palco, a volte, mi ritrovo a suonare sollevato un palmo da terra».

In “Shine a Light” c´è una scena in cui, dopo un duetto con Buddy Guy, Richards gli regala la sua chitarra. «Non sono uno che sfascia gli strumenti, né li do via. Ma Buddy se l´era meritato, era arrivato caldissimo sul palco, è stato straordinario», dice. «La mia posizione è che io sono un musicista, uno che scrive canzoni, un menestrello se vuoi. E la cosa importante di questo gioco è passare il testimone agli altri. Tutto quel che ho imparato lo devo ad altri. È una lunga tradizione che appartiene alla storia della musica. Sulla tomba mi piacerebbe avere inciso: "È trapassato, ma l´ha passato"».

Dentro il petto del senescente pirata batte il cuore di un musicista vivo e scalciante: «Sono gli altri, e non noi, a chiedersi quando smetteremo. L´altra sera ho incontrato Chuck Berry, ha ottant´anni passati e suona ancora. Per me è lo Shakespeare del rock´n´roll e sembra eterno. Anch´io continuerò a suonare finché sono vivo, finché posso. Semplicemente sul palco, anche su una sedia a rotelle».


Dagospia 22 Settembre 2008

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