martedì 30 settembre 2008

la deriva universitaria

La prof che non pubblicò una riga
dal corriere Online


Il bello del calcio è che, qualche volta, può accadere l’impossibile: la Corea del Nord che batte l’Italia, l’Algeria che batte la Germania, Israele che batte la Russia. Il brutto dell’università italiana è che troppo spesso accade l’impossibile. Come all’Università di Bari, dove un concorso del 2002 dichiarò idonea alla cattedra l’aspirante docente Fabrizia Lapecorella, che aveva zero pubblicazioni nelle quattro categorie delle 160 riviste più importanti del mondo, zero nelle prime venti riviste italiane, zero in tutte le altre, zero libri firmati come autore, zero libri come curatrice, zero libri come collaboratrice. E ovviamente zero citazioni fatte dei suoi lavori: come potevano citarla altri studiosi, se non risulta aver mai scritto una riga? Eppure, battendo una concorrente che aveva un dottorato alla London School of Economics, 10 pubblicazioni e 31 citazioni sulle riviste nazionali e internazionali più importanti, vinse lei. Destinata a essere promossa poco più di tre anni dopo, dal terzo governo Berlusconi, direttore del Secit per diventare col secondo governo Prodi esperto del Servizio consultivo e ispettivo tributario e infine, di nuovo con Tremonti, direttore generale delle Finanze. Una carriera formidabile. Durante la quale, stando alla banca dati centrale di tutte le biblioteche italiane, non ha trovato il tempo per scrivere una riga. Sia chiaro: magari è un genio. E forse dovremo essere grati a chi l’ha scoperta nonostante difettasse di quei lavori che all’estero sono indispensabili per diventare ordinari.

Ma resta il tema: con quali criteri vengono distribuite le cattedre nella università italiana? Roberto Perotti, PhD in Economia al Mit di Boston, dieci anni di docenza alla Columbia University di New York dove ha la cattedra a vita, professore alla Bocconi, se lo chiede in un libro ustionante che non fa sconti fin dal titolo: L’università truccata. Gli scandali del malcostume accademico. Le ricette per rilanciare l’università (Einaudi). Un’analisi spietata. A partire, appunto, dal sistema di assegnazione delle cattedre. Dove i casi di persone benedette dalla nomina a «ordinario » con 12 «zero» su 12 in tutte le tabelle delle pubblicazioni e delle citazioni, a partire da quelle del «Social Science Citation Index», sono assai più frequenti di quanto si immagini, visto che Perotti ne ha scovati almeno cinque. Dove capita che il rettore di Modena Giancarlo Pellicani indica una gara vinta dal figlio Giovanni anche grazie alla scelta di non presentarsi di 26 associati su 26. Dove succede che il preside di Medicina a Roma, Luigi Frati, possa vincere la solitudine avendo al fianco come docenti la moglie Luciana, il figlio Giacomo, la figlia Paola. Un uomo tutto casa e facoltà. Che probabilmente diventerà rettore della Sapienza. Superato solo da certi colleghi baresi come i leggendari Giovanni Girone, Lanfranco Massari o Giovanni Tatarano, negli anni circondati da nugoli di figli, mogli, nipoti, generi... Il familismo è però solo una delle piaghe nelle quali il professore bocconiano (che ha l’onestà di toccare perfino il suo ateneo, rivelando che «l’ufficio relazioni esterne della Bocconi impiega circa 100 persone e ha un bilancio di 13 milioni di euro» che basterebbero ad assumere «i migliori docenti di economia degli Usa») affonda il bisturi. A parte quello che «il clientelismo e la corruzione esistono, ma sono tutto sommato circoscritti», Perotti fa a pezzi almeno altri tre miti. Uno è che «il vero problema dell’università italiana è la mancanza di fondi». Non è vero. Meglio: è vero che «le cifre assai citate della pubblicazione dell’Ocse "Education at a Glance" danno per il 2004 una spesa annuale in istruzione terziaria di 7.723 dollari per studente» appena superiore ad esempio a quella della Slovacchia o del Messico. Ma se si tiene conto che metà degli iscritti è fuori corso e si converte più correttamente «il numero di studenti iscritti nel numero di studenti equivalenti a tempo pieno», la spesa italiana per studente «diventa 16.027 dollari, la più alta del mondo dopo Usa, Svizzera e Svezia ». Quanto agli stipendi dei docenti, è verissimo che all’inizio sono pagati pochissimo, ma da quel momento un meccanismo perverso premia l’anzianità (mai il merito: l’anzianità) fino al punto che un professore con 25 anni di servizio da ordinario non solo prende quattro volte e mezzo un ricercatore neoassunto ma «può raggiungere uno stipendio superiore a quello del 95 percento dei professori ordinari americani (...) indipendentemente dalla produzione scientifica».

Altro mito: nonostante tutto, «l’università italiana è eroicamente all’avanguardia mondiale della ricerca in molti settori».Magari! Spiega Perotti che in realtà, al di là della propaganda autoconsolatoria, fra i primi 500 atenei del mondo, secondo la classifica stilata dall’università cinese Jiao Tong di Shanghai, quelli italiani sono 20 e «la prima (la Statale di Milano) è 136ª, dietro istituzioni quali l’Università delle Hawaii a Manoa ». Certo, sia questa sia la classifica del Times (dove la prima è Bologna al 173˚posto) sono fortemente influenzate dalle dimensioni dell’ateneo. Infatti nella «hit parade» pro capite della Jiao Tong 2008 possiamo trovare al 19˚posto la Normale di Pisa. Ma a quel punto le grandi università italiane slittano ancora più indietro: la Statale milanese al 211˚,Bologna al 351˚,la Sapienza addirittura a un traumatico 401˚posto. Da incubo. Quanto al quarto mito, quello secondo cui «l’università gratuita è una irrinunciabile conquista di civiltà, perché promuove l’equità e la mobilità sociale consentendo a tutti l’accesso all’istruzione terziaria», l’economista lo smonta pezzo per pezzo. I dati Bankitalia mostrano che nel Sud (dove il fenomeno è più vistoso) dal 20% più ricco della società viene il 28% degli studenti e dal 20% più povero soltanto il 4%. Un settimo. In America, dove l’università si paga, i poveri che frequentano sono il triplo: 13%. Come mai? Perché al di là della demagogia, spiega l’autore, l’università italiana è «un Robin Hood a rovescio, in cui le tasse di tutti, inclusi i meno abbienti, finanziano gli studi gratuiti dei più ricchi ». Rimedi? «Basta introdurre il principio che l’investimento in capitale umano, come tutti gli investimenti, va pagato; chi non può permetterselo, beneficia di un sistema di borse di studio e prestiti finanziato esattamente da coloro che possono permetterselo». Non sarebbe difficile. Come non sarebbe difficile introdurre dei sistemi in base ai quali il rettore che «fa assumere la nuora incapace subisca su se stesso le conseguenze negative di questa azione e chi fa assumere il futuro premio Nobel benefici delle conseguenze positive». Tutte cose di buon senso. Ma che presuppongono una scelta: puntare sul merito. Accettando «che un giovane fisico di 25 anni che promette di vincere il premio Nobel venga pagato tre volte di più dell’ordinario a fine carriera che non ha mai scritto una riga». Ma quanti sono disposti davvero a giocarsela?

Gian Antonio Stella

DARLING I LOVE YOU

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lunedì 29 settembre 2008

satira e violenza

Il portavoce del ministro: «Istigazione a delinquere»

Vignetta anti-Brunetta, è polemica

Gasparri (Pdl): «Il direttore dell'Unità si scusi. La satira è sacra, ma non si scherzi sulle armi»

Il ministro Brunetta (LaPresse)
Il ministro Brunetta (LaPresse)
ROMA - È polemica politica dopo la vignetta pubblicata sull'inserto satirico dell'Unità: un ragazzo armato che punta la pistola, prendendosela con il ministro Brunetta (guarda). Il presidente dei senatori del Pdl, Maurizio Gasparri, parla di immagine «pericolosamente ambigua». «La satira è sacrosanta - premette Gasparri - ma non si può non rilevare la pericolosa ambiguità della vignetta contro il ministro Brunetta. Non so se il direttore del quotidiano l'ha vista prima che fosse pubblicata. Sotto il titolo 'Guerre giuste', c'è l'immagine di una persona che, puntando una pistola, fa intendere che a Brunetta si potrebbe anche sparare».

SCUSE - Il ministro dell'Innovazione, ricorda inoltre Gasparri, «ha più volte dimostrato grande sintonia con la satira istituendo addirittura un concorso per premiare la migliore vignetta a lui dedicata. E tutti dobbiamo accettare anche la più graffiante presa in giro. Io stesso ho più volte elogiato chi mi imita anche in maniera molto vistosa. Ma una pistola puntata, pur se in una vignetta, non è un bel gioco. In un paese in cui violenza e terrorismo hanno una drammatica storia e forse radici non completamente recise, si scherzi su tutto, ma non con le armi e le pistole puntate. Sono certo che il direttore dell'Unità, accortosi dell'errore, vorrà scusarsi con il ministro Brunetta». 

IL PORTAVOCE - Brunetta, al momento, non commenta. Ma anche il suo portavoce, Vittorio Pezzuto, chiede le «immediate scuse» del quotidiano. «Prendiamo atto che questo è il nuovo corso politico dell'Unità - afferma al Velino. E poi aggiunge: «Questa è istigazione a delinquere» contro una persona che «è sotto scorta da anni».

mercoledì 24 settembre 2008

la risposta di Parente a Sgarbi


lettera di Parente a Dagospia, er mejo sito che ci sia

PARENTE: HA RAGIONE SGARBI. CHI NON VENDE È UN COGLIONE DA CESTINARE
SERPENTE: SI PUÒ SAPERE QUANTO VENDONO I LIBRI DI SUA SORELLA ELISABETTA?
TUTTI PUBBLICATI GENEROSAMENTE DA BOMPIANI DI CUI LA SGARBINA È EDITOR


Ciao Roberto, questa è una gentile lettera inviata alla Bompiani (per conoscenza a Dagospia), in attesa di gentile risposta.
Un caro saluto, continuando a "sbucciare piselli",
Massimiliano Parente


Massimiliano Parente
Gentile casa editrice Bompiani, sarete al corrente che molti testi fondamentali (tanto per citarne un paio la “Trilogia” di Beckett, o il “Contro Sainte-Beuve” di Proust), risultano introvabili, così come molti scritti critici e letterari basilari che gli studenti devono studiare in fotocopia, augurandoci che smettano del tutto di studiarli. L’editoria punta al guadagno immediato, e è giusto che sia così.

Il principio del pubblicare libri commerciali per venderli e libri di qualità per promuovere cultura “alta” (su cui puntare, come Mondadori con D’Arrigo) e venderli nel tempo, è solo una vecchia e desueta idea, non siamo certo ai pioneristici tempi di Valentino Bompiani. Oggi perfino Carlo Emilio Gadda lo prenderemmo volentieri a calci nel didietro, e mai lo sponsorizzeremmo come fece Livio Garzanti. Noi vogliamo vivere in un mondo felice e semplice, senza problemi. Ne sono convinto quanto voi, mi avete convinto voi.

Sto pertanto lavorando a un’inchiesta sul rapporto tra editoria e cultura, a partire da un noto, interessante e elegante pensiero del critico d’arte Vittorio Sgarbi secondo cui un editore, appunto, debba pubblicare solo ciò che vende (“è coglione chi non vende”), al contrario di quanto crede quell’illuso marxista di André Schiffrin (il nostro critico d'arte di fiducia lo definirebbe con più efficacia “rotto in culo”).

Di conseguenza, in maniera molto saggia e nobile, l’editore punta su autori non coglioni, per esempio (tanto per citarne una molto brava a titolo d’esempio) sulla nota Pulsatilla, perché vendibilissima, o al massimo sull’altrettanto noto scrittore e pensatore Scurati, mentre Marcel Proust al giorno d’oggi, scherziamo, potrebbe interessare solo la “piagnucolosa comunità gay” (cito il medesimo autorevole critico d’arte), per tacere di Leopardi che interesserebbe solo la noiosa comunità dei gobbi (di sicuro gay anche loro, visti gli equivoci rapporti intercorrenti tra il poeta e il suo amico Ranieri, come d’altra parte certe vocine circolano anche sul suddetto ingegnere Carlo Emilio, al quale un altro gay dichiarato di insuccesso commerciale, Arbasino Alberto, ha perfino dedicato un recente saggio stranamente, e per disdetta, di un certo successo).



Alberto Arbasino
© Foto U.Pizzi
Premesse queste incontestabili verità, vorrei pertanto sapere se, per agevolarmi nella presente inchiesta, potreste gentilmente offrirmi la Vostra preziosa collaborazione, e fornirmi, tanto per cominciare, i dati vendita dei seguenti libri non gay e “best seller”, vista la Vostra accuratezza e perseveranza nel pubblicarli: “Il pianto della statua”, di Reale Giovanni e Sgarbi Elisabetta, prezzo di copertina euro 45; “I misteri di Grunewald e dell’altare di Isenheim”, di Reale Giovanni e Sgarbi Elisabetta, prezzo di copertina euro 45; “Le nozze nascoste o la primavera di Sandro Botticelli”, di Reale Giovanni e Sgarbi Elisabetta, prezzo di copertina euro 45; nonché “La bicicletta incantata”, di Diego Marani e Sgarbi Elisabetta, quest’ultimo pensato per un pubblico ancora più vasto e mondiale, con addirittura una rara intervista alla regista (la quale, come è noto, non rilascia interviste) a cura del suo compagno e editor e aiuto regista Lio Eugenio, prezzo di copertina di soli euro 16.

Vi prego di specificare cortesemente i canali di promozione, gli eventuali patrocini, le vendite presso le librerie generaliste e specializzate, l’investimento complessivo della casa editrice, e le sicuramente cospicue adozioni universitarie, affinché si possa smentire l’idea che non è possibile pubblicare prodotti di grande spessore culturale come i succitati e al contempo guadagnarci, finendo perfino, come mi pare sia accaduto sempre per i succitati testi, in classifica di vendita. Ringraziandovi per la collaborazione, invio i miei più cordiali saluti,

Massimiliano Parente

goodnight vienna


goodnight vienna da te.
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martedì 23 settembre 2008











L'esperienza di Icone oniriche nasce dal desiderio di raccontare con codici diversi temi nati da discussioni verbali intense all'interno di quello che si è spontaneamente costituito come gruppo di lavoro. Icone oniriche è divenuto quindi un grande "gioco d'azione comunicativa" in senso wittgensteiniano, un gioco di ruoli e di scambio di ruoli tra chi produce segni e chi li interpreta. Le tappe dell'itinerario poetico/iconico dell'opera si collocano nell'alveo di un discorso a più voci e percorrono un continuum analitico che va da un massimo di contatto con la realtà, le pagine intense della sezione Diario civile, fino al massimo dell'apertura alla dimensione conoscitiva del sogno rappresentato dalla sezione Icone oniriche, passando per gli spazi indagativi di Fil di lama.
Antonino Di Giovanni è nato a Catania, laureato in Filosofia e specializzato in Storia della Filosofia, ha di recente conseguito un master in Nuove Metodologie didattiche. Collabora con la cattedra di Lingua inglese della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Catania. Ha collaborato con diversi periodici, ha fondato e presiede l'Associazione Culturale e di Promozione Sociale Arte al Cubo Eventi e dirige la collana di poesia Euterpe e la collana di testi/immagini Mille Porte. Ha pubblicato: Filastrocche pietrificate (2005), Logiche insensatezze (2006), Mario Calderoni e il tempo delle riviste (2007), Icone oniriche (2007, con Giovanni Caviezel), Parole di carta (2008, con Elisa D’agata). Ha curato, oltre a diversi volumi di poesie e all’antologia Memorie del sogno, gli Scritti sul pragmatismo di M. Calderoni e le Ricerche sul pensiero italiano del Novecento. Numerosi progetti sono in corso di stampa, tra questi ricordiamo: una monografia sul pensiero di Giovanni Papini, un’edizione del Ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde con testo a fronte e un breve saggio Sulla poesia.
Giovanni Caviezel, allievo di Dino Formaggio e Mikel Dufrenne, è nato a Milano nel 1961, è autore radiotelevisivo, pubblicitario, musicista, autore e illustratore di libri per ragazzi, pittore e fotografo, docente di comunicazione visiva, storia del cinema e della televisione presso l’IDI/AC di Milano e collabora con Domus Academy di Milano. Con Roberto Piumini, Anna Lavatelli, Augusta Gori, ha composto sigle radiotelevisive e molte canzoni per piccoli e grandi. Ha registrato e pubblicato dischi per varie etichette. Ha ideato, scritto e condotto programmi per: Telenova, Radio Due, Rai Uno (L’Albero Azzurro, Le storie dell’Albero Azzurro), Televisione Svizzera in lingua italiana (TSI), Starworkers, Retequattro, Junior Tv, Odeon, Happy Channel, Sky, Tivà Tivù. Sue immagini sono state pubblicate da Camera Immaginativa, ImmaginArti, Progresso Fotografico, AD. Ha scritto manuali per insegnanti e operatori scolastici e, insieme a Rosaria Sardo e Marco Centorrino, due saggi su tv e ragazzi (Dall’Albero Azzurro a Zelig: modelli e linguaggi della tv vista dai bambini, Rubbettino, 2004; Dall’antenna alla parabola. Modelli di ricezione e fruizione della tv per ragazzi oggi, Bonanno, 2007).

lunedì 22 settembre 2008

keef the human riff


KEITH RICHARDS, ETERNO E TOSSICO: DOPO LA DECIMA DISINTOSSICAZIONE, SAI CHE NON È POI COSÌ TERRIBILE – MICK PUÒ ROVINARE QUALUNQUE CANZONE – STUPENDA INTERVISTA A CHI INVENTÒ IL RIFF DI “SATISFACTION”…


Arianna Finos per “la Repubblica”


Keith Richards

C´è un medico americano che giura di averlo sentito parlare in modo nitido e veloce per tutta la serata, al tavolo del night club. Per poi tornare, appena salito sul palco, all´inconfondibile biascichio ereditato dagli anni della droga e dell´alcol. La parlata di Keith Richards, a Hollywood, ormai è slang di moda. Quello strascicar di vocaboli è entrato perfino nell´immaginario cinematografico dopo che Johnny Depp ci ha costruito il suo pirata dei Caraibi, Jack Sparrow. È un´etichetta, un marchio. Un boss della Disney, si racconta, visionò i primi provini di Depp e si mise a urlare: «Che cos´è questa roba? È pazzo, è ubriaco, è gay?». «È semplicemente Keith Richards», avrebbe ammesso pubblicamente l´attore, grande fan del musicista border line.

Richards, sessantacinque anni a dicembre, ha abbracciato il look corsaro da un trentennio. Camicia bianca e gilet nero, fascia azzurra in testa, come i bracciali di stoffa, quando lo incontriamo ci regala la sua ricetta di stile: «È tutto originale. Un po´ di Robert Louis Stevenson, un po´ di Barbanera e un pizzico di me». Tra la pioggia di amuleti, spicca la figura del teschio. C´è quello d´argento su un anello, da cui non si separa mai. «Ha un significato particolare nella mia vita. Io li attiro, i teschi. E mi sono anche rotto il mio». Ride e gli occhi bistrati affondano nella corteccia del viso. Ride, anche se si riferisce a un incidente piuttosto grave, accaduto due anni fa. Scalando una palma alle Isole Figi, è caduto ed è finito in sala operatoria: intervento a cranio aperto per un grumo al cervello.

Poche settimane dopo, però, era sul set del terzo “Pirati dei Carabi - Ai confini del mondo" a interpretare il papà di Depp. «Conosco Johnny da tanti anni», racconta, «è un grande amico di mio figlio. Per un po´ non sapevo chi fosse, a parte uno dei bravi ragazzi che frequenta Marlon. Poi ci siamo conosciuti meglio e lui mi ha detto che dovevamo fare qualcosa insieme. Gli ho risposto: "Procurami un lavoro". Non avrei mai immaginato di ritrovarmi in un film della Disney. La vita è strana, lo penso da sempre». Sull´esperienza da attore Richards ha molte certezze: «Ho detto la mia battuta, "il codice è la legge", e bum, buona la prima. Recitare mi piace: non avete ancora visto il mio re Lear. Devo trovarmi un agente».

Più recentemente, sui set del cinema c´è finito esercitando la sua professione principale: chitarrista della più antica rock band in vita. Keith Richards ha recitato se stesso nel documentario “Shine a Light” di Martin Scorsese. «Quando mi hanno riferito la proposta ho detto: un altro film sui Rolling Stones? Voglio dire, ce ne sono già di buoni, “Simpathy for the Devil”, “Gimme Shelter”, “Cocksucker Blues”? Poi ho saputo che lo avrebbe firmato Scorsese e ho chiesto: quando si comincia?». L´affinità tra gli Stones e Scorsese è di vecchissima data, ricorda Richards: «Marty ha la peculiarità di saper vedere le cose in profondità e per qualche strano motivo con noi ha sempre avuto un rapporto simbiotico. Ad esempio “Mean Streets”, che ho rivisto di recente. Il film poggia tutto sulla colonna sonora, a sua volta costruita sulle nostre canzoni».

La pellicola preferita da Keith Richards nella cinematografia dell´italoamericano è “Toro Scatenato”: «Fantastico. È la mia riserva continua di citazioni e battute. "Quella notte mi levai l´accappatoio e cascò il mondo, avevo scordato i pantaloncini", è una delle grandi battute del film. Gran parte dei tecnici dei Rolling Stones è italoamericana e il tour va via con una citazione continua della filmografia di Scorsese».

In realtà degli Stones il vero appassionato di cinema è Mick Jagger, che ha fondato la sua casa di produzione e che già progetta un film con Scorsese sulla storia dell´industria cinematografica, le sue banditesche origini. «Mick pensa di essere l´uomo di cinema dei Rolling, ma non lo è. L´ho visto rotolare sullo schermo diverse volte, negli anni? Non lo fare, Mick, non lo fare? Ma lui nel tempo libero, alla fine, fa quello che vuole», concede acidamente Richards. Il dualismo tra lui e il frontman dei Rolling è iniziato insieme al loro sodalizio. Avevano diciassette anni ed erano sul treno che dalle rispettive scuole londinesi li riportava a casa, a Dartford, nel Kent. I due si erano annusati, guardando il mucchio di vinili sottobraccio dell´altro. «Vidi quei dischi e pensai: “The Best of Muddy Waters”, questo dev´essere un tipo a posto. Mettiamo su un gruppo».

C´è alchimia creativa e scontro caratteriale tra i due, una costante nella storia del gruppo. Mick, l´organizzatore, il ragioniere che veniva dalla School of Economics. Keith, studente d´arte, il pubblicitario, l´esteta e compositore. «Mick già ordinava dall´America i dischi della Chess Records, la casa discografica del rock´n´roll, mentre noi aspettavamo che venissero pubblicati in Inghilterra. Era molto organizzato». Nel ‘67 furono arrestati per droga insieme, nella casa di campagna di Richards, a Redland, nel Sussex. Ma nei decenni Jagger si è costruito un´immagine da manager salutista mentre il chitarrista ha continuato a tuffarsi nell´eroina e nella cocaina. Uno è stato recuperato dall´establishment e fatto baronetto dalla Regina, l´altro ha preferito alimentare l´aura maledetta: «Quando ti disintossichi per la decima volta sai già che puoi farcela e non è più così terribile».

Durante una delle sue pause tossiche dal gruppo, Jagger prese il sopravvento organizzativo, incombenza che non ha mollato più. I loro litigi sono entrati, come le canzoni composte insieme, nella storia del rock. Celeberrima la volta in cui Charlie Watts, ad Amsterdam, prese per il collo Jagger che lo aveva appena definito «il mio batterista» e lo lanciò su un tavolo colmo di salmone affumicato. «Jagger scivolava verso la finestra aperta, lo avrei lasciato cadere volentieri, lo ripescai solo perché indossava la mia giacca da matrimonio», racconta il perfido Richards.

Con gli anni il rapporto tra i due si è incattivito. Le tensioni si sono riaccese soprattutto dopo la lunga convivenza imposta dal tour Bigger Band, nel 2006. All´inizio di “Shine a Light” si vede Jagger preparare la scaletta. «È lui quello che deve andare a cantare. Se dice: "Stasera non ce la faccio a fare questa canzone, ho la voce rauca", per noi va bene. Puoi cambiare l´ordine delle canzoni, ma poi devi andare con il tuo frontman. Sul palco Charlie Watts e io non facciamo che girare come una rete di sicurezza. Quando Mick attacca a trotterellare lontano, verso il pubblico, quando prende un ritmo sbagliato, inizia a cantare in una scala musicale cinese, allora con Charlie ci guardiamo: "Riprendilo, riprendilo?". È un problema, riesce a rovinare qualunque canzone. Ma ogni tanto nella vita bisogna pur lavorare».

I disaccordi con Jagger hanno quasi provocato la fine del gruppo. «Ci stavamo per sciogliere, è vero. Ma - e qui la voce si fa ancora più lenta - lui, Mick, ha fatto quel che gli era stato detto di fare. È stato saggio». Ha pure indossato una maglietta con su scritto: «Chi cazzo è Mick Jagger?». Chiosa placido Keith: «Perché no?». Negli ultimi tempi anche il leader si è messo in testa di rendergli la pariglia. Uscita la notizia di un´autobiografia che Richards scriverà con l´aiuto dello scrittore, suo amico trentennale, James Fox (l´editore sborserà al musicista 7,3 milioni di dollari) e che sarà pubblicata nel 2010, il frontman ha commentato: «Per scrivere le proprie memorie bisognerebbe ricordarsele».

Si torna ai periodi poco lucidi del chitarrista Richards. A Mick, però, si sa, manca la cattiveria del collega, ansioso di provocare e di alimentare la sua leggenda di pirata. A proposito del critico svedese che ha stroncato l´ultimo album dei Rolling Stones dice, definendolo «l´uomo di Goteborg»: «Devo avergli fottuto la moglie, o qualcosa del genere. Ce l´ha con me per qualche motivo. Queste cose non mi danno fastidio, per niente. La prossima volta che vado in Svezia manderò un gruppo di ragazzi a spezzargli le gambe».

Sbruffone con le donne, come da etichetta, Richards innaffia la sua leggenda: «È vero che stare sul palco è un po´ come fare sesso. E quando non ho una bella bambola, nel letto mi porto la mia chitarra». Ma anche il pirata del rock è invecchiato. L´uomo che un tempo girava con rotoli di soldi, pistola e coltelli nelle tasche, che è stato per decenni sulla lista dei «pronti a morire» ed è sopravvissuto grazie a una fisicità taurina, oggi è un signore che posa accanto a valigie firmate e nel tempo libero va a pesca o porta «il cane a pisciare e le ragazze a scuola». Se gli chiedi conto della sortita sulla sniffata delle ceneri paterne, ti fissa negli occhi e risponde: «Bella domanda, passiamo oltre?».

Ti racconta, invece, quanto sia faticosa la tournée a sessantacinque anni: «Finiti i concerti, ci vogliono quattro mesi per riprendermi. Continuo a svegliarmi il mattino con l´adrenalina da palco e penso: "Ma oggi devo suonare? Devo volare? Dove sono?"». La macchina Rolling Stones è un ingranaggio inarrestabile: «Non andiamo avanti solo per i soldi, la nostra è una sfida: nessuno è riuscito a tenere una band per così tanto tempo. Sul palco, a volte, mi ritrovo a suonare sollevato un palmo da terra».

In “Shine a Light” c´è una scena in cui, dopo un duetto con Buddy Guy, Richards gli regala la sua chitarra. «Non sono uno che sfascia gli strumenti, né li do via. Ma Buddy se l´era meritato, era arrivato caldissimo sul palco, è stato straordinario», dice. «La mia posizione è che io sono un musicista, uno che scrive canzoni, un menestrello se vuoi. E la cosa importante di questo gioco è passare il testimone agli altri. Tutto quel che ho imparato lo devo ad altri. È una lunga tradizione che appartiene alla storia della musica. Sulla tomba mi piacerebbe avere inciso: "È trapassato, ma l´ha passato"».

Dentro il petto del senescente pirata batte il cuore di un musicista vivo e scalciante: «Sono gli altri, e non noi, a chiedersi quando smetteremo. L´altra sera ho incontrato Chuck Berry, ha ottant´anni passati e suona ancora. Per me è lo Shakespeare del rock´n´roll e sembra eterno. Anch´io continuerò a suonare finché sono vivo, finché posso. Semplicemente sul palco, anche su una sedia a rotelle».


Dagospia 22 Settembre 2008

domenica 21 settembre 2008

grande barbara

BARBARA ALBERTI CONTRO LE OSCENE BARBARIE LETTERARIE DEGLI SGARBI D’ITALIA
“È NORMALE CHE SGARBI CHIEDA DI FIRMARE UN PEZZO- MARKETTA A UNO SCRITTORE?”
“MASSIMILIANO PARENTE SA CHE È PIÙ APPASSIONANTE ESSERE VIVI CHE SOTTOMESSI”




LETTERA DI BARBARA ALBERTI A DAGOSPIA

Lo scrittore Massimiliano Parente ha raccontato su Dagospia che, per avere rifiutato un “favore” a Vittorio Sgarbi, si è visto respingere dal direttore editoriale della Bompiani, Elisabetta Sgarbi, un saggio su Proust.
Alcuni amici dello scrittore si preoccupano, dicono “ha fatto male, è stato imprudente, ha un contratto di opzione per 10 anni con la Bompiani, così butta via tutto, sai adesso come si vendicano…”.

Io non sono affatto preoccupata per Parente. Anzi lo invidio: beato lui che si prende il lusso di vivere fuori dalle logiche spregevoli della convenienza. Chissà come si diverte.
Gli invidio l’enormità del gesto. Gli invidio il coraggio. Gli invidio il pericolo e l’avventura.
E perfino il silenzio intorno, che dimostra la necessità della sua audacia.
Dicono che rischia brutto.

Ma no, rischierebbe molto di più a tacere, a non dar battaglia, a rinunciare a un gesto d’avanguardia a non prendersi questa soddisfazione, se no uno che è scrittore a fare? Scrittore vero. Chi non ha talento ma insiste, fa bene ad obbedire. Non Parente, che ha scritto "Contronatura", un libro come se ne vedono (forse) ogni 50 anni, una rivoluzione.

Un capolavoro del pessimismo e della parola, di sgradevolezza imperiale, di maestria sbalorditiva. Non lo dico solo io che sono una strega sospetta, lo ha scritto anche Edmondo Berselli sull’Espresso, definendolo l’opera d’arte assoluta.

Dicono che non doveva agire così perché “non la le spalle coperte”.
Copertissime, invece. Ha l’opera. Che lo protegge come i libri-angeli di Bergotte nella Recherche.
Finalmente un gesto. Come quando Majakovskij prese a schiaffi Vasilj Rozanov, invece del solito far finta di niente. Esempio: Paolo di Stefano, ad un lettore che gli chiede cosa pensi della vicenda Parente-Sgarbi-Sgarbi, risponde: “Ma è così importante?”
Sì. E’ importante. E’ fondamentale. E mi spiace che Di Stefano non lo intenda.

E’ importante che un autore scelto dall’editore per il suo valore letterario sia punito per uno “sgarro”, ovvero per avere rifiutato una proposta disonesta. Importante che non si usi il potere editoriale a capriccio, prescindendo dai testi.

Ma in questa bonaccia morale sembra normale che Sgarbi chieda di far firmare un articolo autopromozionale ad uno scrittore, contando sul fatto che non può dire no, visto che pubblica con la sorella - e quindi - secondo l’espressione orribile e cavallina - fa parte di una scuderia, dove si corre in gruppo o si è cacciati.

Sì, è normale perché è nella norma, una brutta norma che si fonda sulla vigliaccheria di molti scrittori, che non osano ribellarsi alle angherie degli editori, né prendere posizione contro una grande casa editrice. Ma c’è sempre un giusto a Sodoma, anzi cinque: Dagospia ha pubblicato la denuncia di Parente, Fulvio Abbate ha scritto un impetuoso articolo sull’Unità, il biblico Davide Brullo su La Voce di Romagna, Mario Baudino su La Stampa, e l’Unione Sarda. Solo loro non hanno paura? E gli altri? Tutti a capo chino, come gli schiavi di Metropolis? Il tema è così spinoso da indurre alla prudenza perfino chi vorrebbe schierarsi contro Parente?

Massimiliano Parente non è un martire, non si è “immolato” come scrive Mario Baudino .
Fa quello che deve fare l’artista, mettersi contro il suo tempo.
Bravo. Ha dato una grande soddisfazione al suo narcisismo eretico, e ha ragione a non avere paura. La vendetta non mancherà, e non in campo aperto, ma cosa possono fargli, di ‘definitivamente’ dannoso? Mica possono impedirgli di scrivere, o di pubblicare con altri.

Nella dittatura prossima ventura forse, ma non ancora. Il potere colpisce più facilmente chi è organico e compromesso, chi vuole una fetta della sua torta ripugnante, ma Parente è indecifrabile, non apparentato, straniero, sembra uno scrittore d’altri mondi capitato qui per caso, che si permette libertà oltraggiose per chi vi abbia rinunciato.

Anche negli articoli che scrive su un giornale che ho in abominio, e che però
compero quando li pubblica, attaccando i potenti delle lettere (critici, editori, scrittori), mai con elusivi discorsi sul “sistema” ma sempre con nomi e cognomi - e con una leggerezza, un sorriso, un’insolenza geniale, come se fossero tutti morti da mille anni, come se fossero un pretesto letterario invece di una banda agguerrita e vendicativa.

Pretendendo di conservare la sua dignità Parente ha infranto un tabù scottante, e non stupisce che siano in pochi ad intervenire - ciò che penso aumenti la sua ybris e il suo divertimento teatrale.

La società letteraria vive secondo quella che Antonio Moresco chiama la Restaurazione. Vive nella prudenza, nei favori, credendo che il potere sia questo, mentre il potere è sfidare chi vuole usarti ingiustizia, finché non ti rompono una gamba (speriamo che qualcuno non lo prenda per un suggerimento) e anche dopo, nel caso.

Gli scrittori non sono tenuti ad essere all’altezza dei loro libri, ad avere rapporti con lo sconosciuto che li scrive. Baudelaire contraddiceva il suo genio corteggiando il torpido Sainte-Beuve, che mai scrisse una vera parola di lode sulla sua opera. E come Paolo di Stefano scrolla il capo e passa oltre davanti alla vicenda Parente, Sainte- Beuve non volle prendere posizione nel processo per oscenità contro il poeta. Che continuava ad adularlo, a far finta di niente, a cadere in deliquio al primo cauto sorrisino che l’altro gli concedeva (come racconta Proust in Contre Sainte-Beuve).

Ma qualche volta capita che lo scrittore somigli all’opera.
Riconosco in questo gesto l’autore di "Contronatura".
E mi piace vedere un giovane che sa stare a testa alta- casualmente un giovane: mi esalta ugualmente l’essere scrittore radicale di Antonio Moresco, mio coetaneo, che pubblicò da Bollati Boringhieri “Lettere a nessuno”, corrispondenza con gli editori che rifiutavano i suoi libri, smascherandone ridicolaggini e miserie. Stesso coraggio, stesso umorismo anarchico, stessa sprezzatura.

Cosa si perde Parente? Alcuni vantaggi apparenti.
Cosa si guadagna? Tutto.
Non essere ricattabile, non affermare ciò in cui non crede.
Lanciare un manifesto di indipendenza.

Secondo la mia ingenua educazione al bello (in gioventù si studiava da eroi, cioè da uomini liberi) mantenersi integri, non corrotti, è un potere concreto, un patrimonio di salute.
Una cosa deve preservare lo scrittore una sola, la ricchezza, il talismano: la propria arte la propria ispirazione. Subisci oggi fingi domani si diventa brutti, incapaci di creare.

Ed è un suicidio rinunciarvi per il famoso “potere” letterario, che è un abbaglio, che vuol dire vivere come topi stando attenti tutta la vita a chi frequenti, senza una mossa che non sia studiata, a non dire mai ciò che pensi anzi a non pensarlo affatto.

Intervengo con un po’ di dispiacere. Ho amato Sgarbi in un’altra vita quando io ero un’altra e lui un altro, e credo che non avrebbe adoperato il suo potere in questo modo.
Né avrebbe detto che un libro su Proust può interessare solo una “comunità gay piagnucolosa”
Nè avrebbe chiamato qualcuno “coglione e gay”
Né replicato a Parente “quel rotto in culo le lettere aperte se le deve mettere nel culo”

Né gli avrebbe dato del cattivo scrittore perché non vende abbastanza.
Abbastanza per cosa?
Quando la Mondadori finanziava Stefano D’Arrigo mentre scriveva Horcynus orca non lo faceva perché pensava di pubblicare un best-seller, ma un grande libro. E un libro difficilissimo
Se il criterio è la vendita, togliamo Leopardi dalle scuole e al posto suo mettiamo Faletti e la Tamaro.

A Massimiliano Parente che gli chiede se alla base di questa restaurazione del clima intellettuale ci sia una regia consapevole, Antonio Moresco risponde:

“Non è neppure più necessario che ci sia una regia unica, basta lasciare che piccole vanità personali, interessi trasversali, ambizioni di carriere, di status, sinergie, dare-avere, servilismo, presunta furbizia, mediocrità, spirito del tempo, pelo sullo stomaco, accettazione di parametri e cinismo facciano il loro corso e il gioco è fatto, l’intossicazione è avvenuta. La solita, vecchia paura della bruciatura, dell’esclusione, dell’essere tenuti fuori dal gioco, anche se il gioco è piccolo, piccolo, fa spavento…”

Parente non ha paura perché sa che tutto questo temutissimo potere è come il mago di Oz: un’invenzione del terrore, un grammofono con un vecchio mantello sopra.
Sa che chi si vende si vende per niente - che è molto più appassionante essere vivi che sottomessi, rischiare che strisciare - che niente costa come piegarsi.

Bravo, permettiti questo lusso, esercita la forza del tuo talento.
Ci sarà tempo per essere vigliacco semmai diventassi un trombone rassegnato e colluso, ma ti auguro di morire prima.
Per ora stai facendo la rivoluzione culturale da solo. Stai salvaguardando te stesso.
Barbara Alberti

sabato 20 settembre 2008

profili pericolosi

La selezione ora si fa su Facebook
I social network "contro" l'utente

Gli strumenti nati per condividere vengono usati per reperire informazioni imbarazzanti


La selezione ora si fa su Facebook I social network "contro" l'utente
di MAURO MUNAFO'
SE AVETE un profilo su Facebook o su MySpace state allerta: la pagina che avete aperto per rimanere in contatto con i vostri amici o per conoscere nuove persone potrebbe rivoltarsi contro di voi. Le ricerche pubblicate in questi giorni negli Stati Uniti e in Inghilterra parlano chiaro: i social network sono una delle fonti di informazioni preferite dai responsabili delle assunzioni nelle aziende e dai selezionatori nei college.

Ad evidenziare il nuovo trend ci ha pensato per prima una ricerca di CareerBuilder.com, agenzia specializzata nel reclutamento. Secondo lo studio, condotto su 31 mila "cacciatori di teste", il 22% degli intervistati ha ammesso di controllare il profilo online dei candidati, mentre un altro 9% intende farlo in futuro. Un dato confermato anche dalla ricerca inglese di Personnel Today, condotta su 220 responsabili delle risorse umane, in cui un intervistato su 4 ha dichiarato di dare una "sbirciata" alle pagine personali prima di assumere una persona, alla ricerca di quei particolari che nessuno si sognerebbe di confessare in un colloquio.

venerdì 19 settembre 2008

valentina

Crepax, per amore di Valentina

Nella fantasia dell'artista con la «ribelle» del fumetto

Luisa Crepax con il marito Guido
Luisa Crepax con il marito Guido
Nome: Valentina Rosselli, nata a Milano il 25 dicembre 1942, professione fotografa: sembra il passaporto di una persona qualunque. Invece sono i dati anagrafici di un personaggio dei fumetti, la famosissima «Valentina» di Guido Crepax. Un personaggio che ha molti punti di contatto con le persone «normali»: invecchia (a differenza di tanti altri eroi di carta), vive in un luogo definito e caratterizzato (Milano) che, guarda caso, è lo stesso del suo autore. E proprio per celebrare Guido Crepax, creatore (raffinatissimo) di questo personaggio, a 5 anni dalla scomparsa, si apre alla Triennale Bovisa una mostra dal titolo «Valentina, la forma del tempo». «Il trascorrere dei giorni, degli anni è il concetto che ci ha colpito maggiormente mentre esaminavamo l'incredibile mole di materiale, per definire il percorso espositivo — spiega Massimo Gallerani, curatore della rassegna insieme con Caterina Crepax, figlia dell'artista —. Valentina era strettamente legata al suo tempo, così come il suo autore, che riusciva a trasferire sulla carta questa continuità ».

Il percorso si articola in una serie di stanze che scandiscono in qualche modo la vita di Valentina quasi fosse una persona in carne ed ossa. All'ingresso si viene accolti da una parete di tulle e dalle gigantografie del personaggio. Sullo sfondo, in trasparenza, lo studio dell'autore, con il suo tavolo di lavoro, la custodia del violoncello del padre, la chaise longue. Ma già nella prima stanza si «raccontano» le origini della «signora Rosselli». L'ambiente successivo è dedicato a Milano, luogo dove si muovono sia l'autore che il personaggio: alle pareti Valentina nei luoghi caratteristici che percorre in bicicletta, in auto, in metropolitana: i Navigli, il centro, via de Amicis. In mezzo alla stanza un'Alfa Romeo Giulietta sprint, l'auto della protagonista. Il percorso si snoda attraverso altre sale che hanno sempre un chiaro riferimento al passare degli anni: «il tempo onirico», «il tempo ritrovato», «il tempo della memoria». Non mancano le installazioni video e multimediali, in cui Crepax racconta se stesso o parlano artisti e personaggi della cultura a lui vicini. E da una sorta di buco della serratura si spiano alcune tavole che riprendono i capolavori dell'erotismo.

Per gli irriducibili appassionati di fumetti nella «galleria rossa» sono esposte numerose tavole originali, disegnate con quel tratto preciso e caratteristico, in inchiostro di china su carta. La chicca è la possibilità di acquistare le gigantografie di Valentina in mostra. (Verranno consegnate dopo il 18 gennaio 2009, quando la rassegna chiuderà). «Abbiamo iniziato a preparare questa mostra due anni fa — ricorda Gallerani — e abbiamo visionato una quantità incredibile di materiale. Ma la sorpresa maggiore è stato scoprire che Crepax è uno degli autori italiani più tradotti all'estero: abbiamo trovato libri in portoghese, in russo e altro ancora, senza contare le «copie pirata». Per questo, ci piacerebbe che la mostra potesse avere un seguito anche fuori dall'Italia». Nelle sale della Triennale non mancano i rimandi alle passioni di Crepax: la musica, la grafica, l'arte e i soldatini. E proprio a questi sono dedicate le ultime stanze: piccoli soldatini di carta, disegnati, ritagliati, con una piccola fustella in cartone per farli stare in piedi, riproducono alcune delle battaglie più famose della storia (in particolare del periodo napoleonico). Anche in questo caso la fantasia si confonde con la realtà, proprio come Valentina con il suo «papà».

Marco Vinelli
19 settembre 2008

mercoledì 17 settembre 2008

PSAIER


La leggenda del pittore fantasma
Amico di Warhol, con le sue tele Psaier fa moda. Ma una galleria annulla l’asta: forse non è mai esistito
VITTORIO SABADIN
Tutto era pronto per l’asta che avrebbe dovuto tenersi questa mattina nella prestigiosa galleria di John Nicholson a Fernhurst, nel Surrey. I quadri realizzati da Pietro Psaier, il grande amico di Andy Warhol che lavorò alla sua mitica Factory di New York, erano pronti per essere mostrati nella sala, davanti ad acquirenti inglesi, egiziani e arabi alla ricerca di un buon investimento in tempi di crisi. Ma all’ultimo momento l’asta è saltata, perché a John Nicholson è venuto un dubbio che gli toglie il sonno: forse Pietro Psaier non è mai esistito. Non è stato solo l’incredibile record raggiunto all’asta di Damien Hirst da Sotheby’s a mettere a rumore ieri il mercato dell’arte londinese. Un artista le cui opere sono state vendute da Christie's e dalle più prestigiose gallerie del mondo a decine di migliaia di sterline l’una è diventato improvvisamente un imbarazzante fantasma. Il solo Nicholson ha venduto 1500 opere di Psaier dal 2004: chi non aveva i milioni necessari a comperare un quadro di Warhol, poteva consolarsi con il quotato allievo, acquistando una sua Marilyn Monroe per 15 mila euro.

Ma se non arriverà presto un certificato di nascita, una foto o un documento credibili, c’è da giurare che tutti i quadri torneranno indietro, accompagnati dalla lettera di un avvocato. Se si scoprirà che Pietro Psaier non è mai esistito, la storia dell’arte perderà una biografie straordinaria, che accompagnava i suoi cataloghi a conferma di una vita travagliata, geniale e dissoluta, come si conviene a un artista. Psaier sarebbe nato in Italia nel 1936 e sarebbe emigrato negli Stati Uniti, dove avrebbe lavorato come cameriere in un caffè. Un giorno incontrò al bancone Andy Warhol e la sua vita cambiò. Dopo avere imparato l’arte alla Factory, cominciò a girare il mondo armato di tele, pennelli e droga, che consumava in grandi quantità. Passato dalla California al Messico, dalla Spagna all’India in un continuo girovagare, Psaier ha alla fine raggiunto lo Sri Lanka, lavorando in una grande varietà di stili, dal ritratto convenzionale alla pop art al collage. Stava probabilmente dipingendo in qualche spiaggia, quando lo sorprese lo tsunami del 2004: il suo corpo non è stato ovviamente mai ritrovato. Prima di partire dall’Italia, dice la sua biografia, Pietro Psaier trovò anche l’occasione di collaborare con Enzo Ferrari per dare un tocco di modernità alle sue vetture da corsa e forse bisognerà chiedere a qualche storico di Maranello se almeno da quelle parti è rimasta traccia del suo passaggio.

I primi dubbi sono venuti ai curatori del sito warohlstars.com, che vedevano abbinato il nome di Pasier a quello di Warhol. Vincent Fremont, che conobbe Warhol nel 1969 e ne divenne un collaboratore, esclude di avere mai incontrato il misterioso artista. «Ero sempre con Andy ed eseguivo i pagamenti dei collaboratori. Non ricordo nessun Psaier e non c’è alcun accenno a lui nei diari di Warhol. Se fosse esistito e avesse frequentato la Factory, non avrei potuto non incontrarlo». Alla disperata ricerca di una conferma che scongiurasse il rischio di annullare l’asta di oggi, John Nicholson ha mandato un suo emissario in Spagna, dove Carlos Langelaan Alvarez, uno psichiatra, ha testimoniato di avere avuto in cura Psaier tra il 1979 e il 1992. «Era un artista completo, con qualche problema di droga - ha dichiarato Alvarez -. Nel 1983 mi ha fatto conoscere Warhol, che era venuto a vedere i suoi lavori alla galleria Fernando Vijande di Madrid». Nicholson, uno stimato mercante d'arte da più di 20 anni, è deciso ad aggiungere a questa testimonianza altre prove dell'esistenza di Pasier.

Ma finora nessun documento decisivo è saltato fuori. I quadri da vendere venivano spediti da Los Angeles attraverso un intermediario che diceva di agire per conto del figlio di Pasier, Peter. Nicholson ha ricevuto un certificato notarile californiano che attesta che Peter è figlio di Pietro, ma ha dovuto ammettere di non averlo mai incontrato. Forse, dopo il padre, scomparirà presto nel nulla anche il figlio.

martedì 16 settembre 2008

luca giurato raccoglie le idee nello studio dell' Isola


dopo essere inciampato due volte nei gradini ed esser caduto alla terza, il geniale opinionista ne approfitta per raccogliere qualche opinione sparsa qua e là

chiambretti su italia 1

da dagospia


- Pierino Chiambretti ha firmato con Italia 1. Tre seconde serate a settimana. Si porta dietro l'inseparabile Tiberio Fusco e l'amica di sempre Irene Ghergo. Tra i desiderata la Magnolia di Giorgio Gori per produrre il suo show ma a Mediaset fanno orecchie da mercante.

arte al cubo

Manhattan: grattacielo a Cubo di Rubik

Piani sfalsati, i lavori inizieranno il prossimo mese e finiranno nel 2010. Costi degli appartamenti: proibitivi


MILANO - Sono diventati celebri in tutto il mondo per aver ideato l'incredibile stadio Nido d'uccello di Pechino, che ha ospitato le gare d'atletica dell'Olimpiade 2008. Ma la fama degli architetti svizzeri Jacques Herzog e Pierre de Meuron è destinata a crescere grazie al loro ultimo avveniristico progetto, un grattacielo da 57 piani che ricorda per le sue innovative forme il celebre cubo di Rubik. L'edificio che dovrebbe costare 650 milioni di dollari (circa 462 milioni di euro) sorgerà nel quartiere di Tribeca, nel cuore di Manhattan.


LAVORI - I lavori per la sua costruzione dovrebbero iniziare il mese prossimo e il grattacielo si chiamerà Fifty-six Leonard Street (Leonard Street 56), proprio come il numero civico dove sorgerà l'edificio. Si tratta del primo grande grattacielo che i due architetti realizzano assieme: il palazzo è stato progettato in modo che ogni piano appaia sfalsato rispetto agli altri e i 145 appartamenti che vi sorgeranno avranno forme e angoli tutti diversi tra loro. Vicino all'ingresso del grattacielo sarà presente un'enorme scultura di acciaio inossidabile creata dall'artista indiano Anish Kapoor che rappresenterà un omaggio alla cultura della città. I lavori dovrebbero terminare entro il 2010 e i costi degli appartamenti per adesso appaiono proibitivi: si va da un minimo di 3,5 milioni di dollari per quelli più piccoli a un massimo 33 milioni di dollari per le case più ampie.

REINVENTARE LO STILE DEL GRATTACIELO CLASSICO - Secondo i due architetti questa torre reinventa lo stile del classico grattacielo americano e lo trasforma in una sorta di «cubo di Rubik merlettato estremamente eccentrico. Le sue forme e i suoi materiali familiari sono modellati secondo un nuovo stile, cosicché tornano a rivivere», afferma Jacques Herzog. «Abbiamo portato a termine un'operazione simile a quella di Andy Warhol, che usava comuni immagini di cultura pop per dire qualcosa di nuovo». Per adesso non si sa quanto questo grattacielo sarà alto, ma secondo i suoi architetti, una volta terminato, sarà uno dei 15 edifici più alti della Grande Mela. Tra le altre singolari caratteristiche, presenterà un ampio salone in granito nero alto quasi sette metri e due piani dedicati ai divertimenti: in essi saranno presenti una piscina di oltre 25 metri, una grande libreria, un centro fitness e una stanza per la proiezioni di film

Francesco Tortora
15 settembre 2008

lunedì 15 settembre 2008

sofri horror

TI AMMAZZO (MA A FIN DI BENE) – MUGHINI SOFFRIGGE SOFRI: IL TUO “TEOREMA IDEOLOGICO” ALLORA VALE ANCHE A DESTRA? – “È LA PRIMA VOLTA CHE SOFRI LASCIA INTENDERE CHE SA CHI SONO I KILLER DI CALABRESI”…


Giampiero Mughini per Libero

A differenza di tanti di voi che mi state leggendo, a me piace molto l’orgoglio intellettuale di Adriano Sofri. Di se stesso ha scritto che i suoi pensieri di un tempo erano «taglienti», e che adesso si sono «arrotondati». Mica tanto a giudicare da quanto ha scritto a proposito dell’omicidio di Luigi Calabresi sulla sua rubrica del Foglio, una nota che su Libero di ieri aveva già commentato Antonio Socci.

In quella sua nota i giudizi aspri e taglienti sono molti, altro che arrotondamenti. Lascio da parte la questione di lana caprina se l’omicidio Calabresi sia stato o no «un atto di terrorismo», e Sofri giudica di no, e un po’ si lamenta che Mario Calabresi abbia preso parte a una manifestazione in onore delle vittime del terrorismo. Se non altro per una questione di gusto, lascerei cadere secco l’argomento.

Così come non mi pare che Sofri faccia onore alla sua intelligenza e a Licia Pinelli, la vedova del ferroviere anarchico precipitato dal quarto piano della questura milanese di via Fatebenefratelli, quando dice con forza che lei non «vorrà mai leggere il libro di Mario Calabresi». Ed è il libro in cui il figlio del commissario assassinato il 17 maggio 1972 racconta come la sua famiglia ha vissuto quella tragedia, ed era la prima volta dopo 35 anni che i fatti e le emozioni di quella tragedia venivano raccontati dal punto di vista dei Calabresi.

Padronissima la vedova Pinelli di gestire come vuole le valenze e le emozioni della sua di tragedia, ma non mi pare sia il caso di vantare il fatto che lei non vuole leggere quel libro. Dov’è scritto fra l’altro che Mario Calabresi fosse stato un giornalista italiano del dicembre 1969, di certo sarebbe insorto a sentire le menzogne che “il pezzo di Stato” cui faceva capo suo padre andò inizialmente diffondendo sulla morte di Pinelli. A cominciare dal fatto che lui si fosse buttato giù perché ormai incastrato, e non era vero e non poteva essere vero.

CHI SONO I MALVAGI?
Ma il cuore della nota di Sofri sta altrove. Lì dove dice che gli assassini del commissario Calabresi non erano necessariamente «persone malvagie». Fu l’azione di qualcuno che «disperando della giustizia pubblica e confidando sul sentimento proprio, volle vendicare le vittime di una violenza torbida e cieca». E mi pare che Sofri alluda alle vittime tutte di piazza Fontana e non solo all’ultima di loro, il povero Pinelli. E come se quelle vittime, tutte e diciassette (Pinelli a parte), ricadessero sulle spalle e sulla responsabilità di un commissario di polizia di 33 anni, che aveva due figli e un terzo in arrivo, e che andava in giro disarmato perché sapeva che se gli avessero sparato gli avrebbero sparato alle spalle. E a non dire che la giustizia pubblica non era stata sorda e muta quanto reputa Sofri. Alla fine del 1971, un procuratore della repubblica di Milano, quel Gerardo D’Ambrosio che sarà poi uno degli eroi di Tangentopoli e di recente un senatore dell’ex Pci, aveva avviato un’inchiesta sulla morte di Pinelli: un’inchiesta in cui Calabresi poteva essere imputato di “omicidio volontario”.

Le persone che non erano «malvagie» non volevano aspettare. A fin di bene, beninteso. A fin di bene loro organizzarono l’agguato del 17 maggio. A fin di bene un uomo alto e magro che impugnava una pistola a canna lunga e che aveva aspettato che Calabresi uscisse di casa gli andò dietro, gli sparò un primo colpo alla nuca e un secondo alle spalle.

Quell’uomo tanto non era “malvagio” che nella versione di Leonardo Marino, il “pentito” che faceva da autista del commando, quando si sedette in auto mormorò un «Che schifo». Parlo di Ovidio Bompressi. Era assolutamente a fin di bene che Lotta continua all’indomani scrisse che questa volta la «violenza s’era rivolta contro i nemici del proletariato, contro gli uomini che della violenza più spregiudicata hanno fatto la loro pratica quotidiana di vita al servizio del potere».



Calabresi un nemico del proletariato che aveva fatto della sua vita una pratica costante all’insegna della violenza più spregiudicata? Le successive corti di un processo durato dal 1988 al 2003 hanno reputato che quelle parole fossero “la rivendicazione criptica” che Lotta continua faceva dell’attentato. Non ne sono sicuro. Quelle parole a me paiono innanzitutto una porcata inaudita.

Gli assassini, pur talmente spietati, non erano malvagi. E dunque di certo non erano “malvagi” gli estremisti di sinistra che nel pomeriggio si misero a schernire e a ululare contro Gemma Calabresi che stava uscendo dall’aver visto il cadavere del marito steso sul tavolo dell’obitorio. Non erano “malvagi” i redattori di Lotta continua che avevano plaudito all’assassinio di un ingegnere della Fiat sequestrato da guerriglieri sudamericani. Non era malvagio un militante di Lotta continua, Mauro Pedrazzini, che beccarono mentre si aggirava dalle parti della casa di un missino milanese con una rivoltella in pugno.

E perché mai avrebbero dovuto essere malvagi? Non lo facevano mica per un interesse personale, mica randellavano e violavano una donna com’è successo nella Roma di qualche giorno fa. Ma quando mai i criminali politici erano innanzitutto “malvagi”? Erano semplicemente accecati dalle bestialità ideologiche che erano le loro.

ASSASSINI E TERRORISTI
Di certo non erano “malvagi” i brigatisti rossi che per 53 giorni tennero Aldo Moro rinchiuso in uno sgabuzzino dove entrava soltanto un letto e un water chimico. Lo facevano a fin di bene. Non erano di certo “malvagi” Renato Curcio e la sua compagna Mara Cagol, che tutti ricordano a Trento quali studenti assidui e appassionati. Solo che quando Curcio lesse in un libro di Lenin la frase secondo cui «in una società divisa in classi uccidere un nemico di classe è l’atto più umano che si possa compiere», quella frase la ripeté in tribunale a proposito dell’omicidio di Moro.

Ma se l’uccidere per motivi politici non è indice di malvagità, caro Sofri, allora questo vale anche per gli assassini della parte opposta. A ragionare così non era innanzitutto “malvagio” Pier Luigi Concutelli, che una mattina del 1976 aspettò che l’auto del pubblico ministero Vittorio Occorsio arrivasse sotto la casa dove abitava il magistrato romano e gli andò incontro a tirargli una prima e poi una seconda sventagliata di mitra. Anche lui lo fece a fin di bene, anche lui aveva i suoi parametri e i suoi criteri e i suoi valori che lo spingevano a premere il grilletto.

E perché mai pensare che fossero innanzitutto malvagi i sicari nazisti di cui parla Hans Magnus Enzensberger in questo suo ultimo e bellissimo libro pubbllicato da Einaudi (“Hammerstein o dell’ostinazione”) che entrarono in casa di un ex cancelliere tedesco che sapevano ostile a Hitler e ammazzarono prima lui e poi sua moglie. Lo fecero a fin di bene, perché la Germania risorgesse dalle umiliazioni del dopoguerra, perché fosse unita e risoluta, perché il popolo tedesco avesse il suo spazio vitale.

Quanto alla morte di Pinelli, l’istruttoria del giudice D’Ambrosio, durata tre anni, si concluse con un’assoluzione piena e motivata in ogni dettaglio del commissario Calabresi. Quelli che scrivevano sui muri di Milano “Calabresi assassino” non avevano nulla contro di lui. Non c’è alcun rapporto necessitante tra la morte di Pinelli e l’agguato a Calabresi, c’è solo il delirio dell’ideologia. È abietto fare una scala gerarchica tra le due morti, tra quelle due vittime innocenti alle quali ho dedicato un mio libro di dieci anni fa. È pazzesco fare delle comparazioni un po’ oblique tra il lutto di Gemma Calabresi e il lutto di Licia Pinelli. Tutto qui, ma non è poco.

Ps. Mentre correggo l’articolo mi ha telefonato un ex militante toscano di Lotta continua che stimo e che sento ogni tanto. «È la prima volta che Sofri lascia intendere che sa chi sono gli assassini del Commissario Calabresi», mi ha detto. Di questo a un’altra occasione.

Dagospia 14 Settembre 2008

mercoledì 10 settembre 2008

IL COSTO DELLA P.A.

Pubblica Amministrazione: costa a ogni italiano 5420 euro

10 set 11:52 Economia

MESTRE - La pubblica amministrazione costa a ogni italiano 5.420 euro. Il dato e' della Cgia, associazione di artigiani e piccole imprese di Mestre che sottolinea che solo la Francia e' davanti al nostro paese nella classifica. Dopo l'Italia invece Germania e Spagna. Guardando le varie voci di spesa si notano i 2784 euro per il personale e 1348 per il funzionamento della macchina pubblica. (Agr)

martedì 9 settembre 2008

ESQUIRE: COPERTINA DIGITALE

da DAGOSPIA

IL GIORNALE DEL FUTURO – TRA POCHI GIORNI, “ESQUIRE” USCIRÀ CON UNA COPERTINA REALIZZATA CON INCHIOSTRO DIGITALE: IMMAGINI IN MOVIMENTO, COME QUELLE CHE SI POSSONO AVERE SULLO SCHERMO DI UN COMPUTER…

Ernesto Assante per “la Repubblica”


Ebook il libro elettronico
Foto da Repubblica

Dieci anni fa avevamo visto i primi prototipi. Oggi l´inchiostro elettronico è una realtà: “Esquire”, uno dei magazine più diffusi negli Stati Uniti, pubblicherà tra qualche giorno l´edizione speciale del suo 75° anniversario con una novità assolutamente rivoluzionaria, una copertina (e una controcopertina) realizzata con un inchiostro digitale che consente di avere addirittura immagini in movimento, come quelle che si possono avere sullo schermo di un computer.

Nella copertina di “Esquire” sarà inserito un display di 25 centimetri quadrati, un foglio di carta trasparente, sul quale apparirà la scritta lampeggiante "Benvenuti nel XXI secolo", mentre nella controcopertina, tutta dedicata alla pubblicità, ci sarà una sorta di "spot di carta", dove il nuovo modello della Ford, la Flex Crossover, viene presentato al pubblico con una leggera animazione a colori di una macchina in movimento.

È un passo avanti assolutamente straordinario. «Spero che finirà allo Smithsonian» ha dichiarato il direttore di “Esquire”, David Granger, che ha aggiunto «questo è solo l´inizio, la versione 1.0». A fornire le tecnologie per questo primo passo nel mondo dell´editoria elettronica di carta è l´azienda leader del settore, E Ink che da dieci anni spinge i suoi nuovi sistemi sui ogni tipo di display e ha già ottenuto un grande successo con il recente lettore e-book di Amazon, il Kindle.

Il foglio di carta "elettronica" che sarà su “Esquire” è fatto di plastica leggera e trasparente, flessibile e pieghevole ed è, secondo i responsabili della E Ink, l´unica alternativa possibile alla carta e alla diffusione di Internet e dei computer. Molti libri sono ormai disponibili sulla rete Internet ma leggerli sullo schermo resta estremamente noioso e difficile, il libro e il giornale sono molto più comodi e leggibili.



Ma Joe Jacobson, il ricercatore del Media Lab del Mit di Boston che ha iniziato oltre dieci anni fa le sue ricerche, ha pensato che l´alternativa non era quella di creare una nuova forma di carta, ma quella di un nuovo tipo di inchiostro, totalmente elettronico, con il quale potessero essere riprodotte lettere, parole, articoli.

La copertina di Esquire con Charlize Theron

Il procedimento è questo: incastonare in ogni foglio trasparente milioni di microscopiche particelle sferiche che sono nere da una parte e bianche dall´altra, e una griglia di fili elettrici. Quando viene inviata corrente elettrica lungo i fili, le particelle si girano da una parte o dall´altra, quelle che diventano bianche definiscono lo sfondo del foglio, quelle che diventano nere formano parole, immagini.

Il risultato finale ha la leggibilità di un normale foglio di carta stampata. E oltretutto, collegando il foglio a un´antenna, o a un terminale di computer, o a Internet, è possibile, come già avviene con il Kindle, spingendo un semplice tasto, variare il contenuto di una o più pagine, ricevere in pochi secondi un intero giornale o un intero libro.

Per Granger e il suo staff arrivare al risultato della copertina elettronica di “Esquire” non è stato facile, soprattutto "impacchettare" nel giornale le batterie che rendono possibile la visione dell´inchiostro digitale e i due microchip di computer che gestiscono tutto. Ma il risultato positivo è che il numero di ottobre di “Esquire” ha fatto segnare una raccolta pubblicitaria in nettissimo aumento. «Negli ultimi due anni sono stato alla ricerca di idee per dimostrare la stampa è ancora vitale», ha detto Granger, «penso che questa iniziativa lo dimostri».

bob dylan- tell tale signs


Disc One
01 "Mississippi" (Unreleased, Time Out Of Mind)
02 "Most Of The Time" (Alternate version, Oh Mercy)
03 "Dignity" (Piano demo, Oh Mercy)
04 "Someday Baby" (Alternate version, Modern Times)
05 "Red River Shore" (Unreleased, Time Out Of Mind)
06 "Tell 'Ole Bill" (Alternate version, North Country soundtrack)
07 "Born in Time" (Unreleased, Oh Mercy)
08 "Can't Wait" (Alternate version, Time Out Of Mind)
09 "Everything Is Broken" (Alternate version, Oh Mercy)
10 "Dreamin' Of You" (Unreleased, Time Out Of Mind)
11 "Huck's Tune" (From Lucky You soundtrack)
12 "Marching To The City" (Unreleased, Time Out Of Mind)
13 "High Water (For Charley Patton)" (Live, Niagara, 2003)

Disc Two
01 "Mississippi" (Unreleased version #2, Time Out Of Mind)
02 "32-20 Blues" (Unreleased, World Gone Wrong)
03 "Series of Dreams" (Unreleased, Oh Mercy)
04 "God Knows" (Unreleased, Oh Mercy)
05 "Can't Escape From You" (Unreleased, December 2005)
06 "Dignity" (Unreleased, Oh Mercy)
07 "Ring Them Bells" (Live at the Supper Club, 1993)
08 "Cocaine Blues" (Live, Vienna, Virginia, 1997)
09 "Ain't Talkin'" (Alternate version, Modern Times)
10 "The Girl On The Greenbriar Shore" (Live, 1992)
11 "Lonesome Day Blues" (Live, Sunrise, Florida, 2002)
12 "Miss the Mississippi" (Unreleased, 1992)
13 "The Lonesome River" (w/ Ralph Stanley, Clinch Mountain Country)
14 "'Cross The Green Mountain" (From Gods And Generals soundtrack)

Disc Three
01 "Duncan And Brady" (Unreleased, 1992)
02 "Cold Irons Bound" (Live, Bonnaroo, June 2004)
03 "Mississippi" (Unreleased version #3, Time Out Of Mind)
04 "Most Of The Time" (Alternate version #2, Oh Mercy)
05 "Ring Them Bells" (Alternate version, Oh Mercy)
06 "Things Have Changed" (Live, Portland, Oregon, 2000)
07 "Red River Shore" (Unreleased version #2, Time Out Of Mind)
08 "Born In Time" (Unreleased version #2, Oh Mercy)
09 "Tryin' To Get To Heaven" (Live, London, England, 2000)
10 "Marchin' To The City" (Unreleased version #2, Time Out Of Mind)
11 "Can't Wait" (Alternate version #2, Time Out Of Mind)
12 "Mary And The Soldier" (Unreleased, World Gone Wrong)

Tell Tale Signs - The Bootleg Series Vol. 8 is out 10/7 on Columbia.

lunedì 8 settembre 2008

il vero creatore dell'iPod

dal CORRIERE ONLINE

Il papà dell'iPod? E' inglese
"Lo brevettò già nel 1979"

Apple ora riconosce il suo "contributo" ma nessuna ricompensa


Il papà dell'iPod? E' inglese "Lo brevettò già nel 1979"
LONDRA - Ogni minuto, al mondo, si vendono 100 iPod. Il gadget musicale cult targato Apple ha fruttato alla casa madre miliardi di dollari, eppure il suo inventore non ha visto neppure un penny. Il vero papà del popolarissimo mini lettore di file musicali è Kane Kramer, un inglese che ha lasciato la scuola a 15 anni e oggi, a 52 anni, è costretto a vivere con moglie e figli in una casa in affitto dopo aver dovuto vendere quella di proprietà per difficoltà economiche.

La sua invenzione risale al 1979. La colpa? Non essere riuscito a mettere insieme nel 1988 le 60mila sterline necessarie a rinnovare il brevetto per tutelare la sua creatura. Che, quindi, divenne di proprietà pubblica.

Ora, racconta il Daily Mail, anche Apple riconosce la paternità dell'invenzione in base a nuovi documenti depositati per una causa legale. La casa di Cupertino ha perfino fatto volare Kramer in California perché testimoniasse durante una disputa in tribunale che la vede opposta a Burst.com, che a sua volta sostiene di possedere il brevetto per la tecnologia dell'iPod e chiede quindi ad Apple una consistente fetta dei profitti miliardari.

L'idea dell'iPod, che Kramer aveva chiamato IXI, risale al 1979. Allora in un singolo chip riuscivano ad entrare tre minuti e mezzo di musica, ma Kramer era - giustamente - convinto che la capacità potesse migliorare notevolmente. Brevettò in tutto il mondo la sua scoperta e mise in piedi una società per sviluppare l'idea. Ma nel 1988, racconta sempre il Daily Mail, dopo la rottura del board, non riuscì a racimolare la cifra necessaria a rinnovare il brevetto. Il resto è storia, a diversi zeri.

Ora Kramer sta negoziando con Apple un compenso per il copyright che detiene sul disegno originale del lettore, praticamente identico all'iPod con la mela morsicata. Finora, però, ha ricevuto solo un compenso per la consulenza legale fornita ad Apple. E un iPod regalatogli dall'azienda di Cupertino, che però si è rotto dopo otto mesi. Ma lui uno nuovo non se lì ancora potuto permettere.

(8 settembre 2008)

CALO DI ASCOLTI PER RADIO DJ

DEEJAY, IL MEA CULPA DI LINUS - IL NOSTRO MODO DI FARE RADIO (“COMPLESSO E MOLTO PARLATO”) COMINCIA A NON ESSERE PIÙ COMPETITIVO – RTL E RDS PUNTANO TUTTO SULLA SEMPLICITÀ E SUI GRANDI SUCCESSI…


Claudio Plazzotta per “Italia Oggi”



© Foto La Presse

Linus non scappa di fronte alla débâcle di ascolti di Deejay (-14% a 4,8 milioni nel giorno medio) e Capital (-20% a 1,5 milioni, raggiunta da m2o). E confessa tutte le sue difficoltà nel capire i nuovi pubblici della radio e nel portare avanti un tipo di palinsesto «complesso e molto parlato», mentre altri, pigliando probabilmente una scorciatoia, puntano tutto sulla semplicità e sui grandi successi.

«I dati Audiradio non sono belli, anzi. Da primi che eravamo siamo stati superati da Rtl 102,5 e Rds, con Rai Radio 2 subito dopo di noi. Era già successo circa un anno fa e, in misura ancora più netta, anche una decina di anni fa», si confessa Linus (direttore artistico delle radio del gruppo Espresso) sul suo blog, «ma per il nostro orgoglio non è una grande consolazione. Come non lo è ripeterci che sono radio completamente diverse da noi, molto più facili da ascoltare, e non solo nel senso della programmazione. Ognuno ha sicuramente la ricetta magica pronta in tasca, ma i panni sporchi si lavano in famiglia e soprattutto non è, credo, nel singolo dettaglio il vero problema. Quello che emerge in maniera sempre più netta, e che più mi deprime, è la sensazione di inevitabilità che spinge la radio, nel senso generale, assoluto del termine, verso modelli a cui culturalmente faccio fatica ad appartenere».

Linus, infatti, ha sempre creduto in una radio molto parlata, in cui la musica interrompe un flusso di parole. E non il contrario. Da qui la ricerca di tanti personaggi, che poi si sono imposti pure in tv. E basta scorrere il palinsesto di Deejay per accorgersi che, al mattino, per esempio, si susseguono nomi come Platinette, Fabio Volo, Linus e Nicola Savino, Il Trio Medusa. Artisti di spettacolo, e non dj o conduttori nel senso tradizionale del termine.
«In tutto il mondo, ormai, sopravvivono due modi di fare radio», prosegue Linus, «quella col classico morning show molto giornalistico dalle sei alle dieci e quindi una quasi ininterrotta sequenza di successi musicali, che al massimo si differenziano per epoca o per genere, e quella completamente parlata, la cosiddetta talk radio.


È così da vent'anni in America e da dieci almeno in tutta Europa. In questo, storicamente, Radio Deejay ha rappresentato finora una magnifica eccezione, l'esempio peggiore da seguire, il cavallo di Troia per una certa concorrenza, quel modo di arrivare al successo contro tutte le logiche e le statistiche. La sensazione», chiosa con un certo scoramento il direttore di Deejay, Capital ed m2o, «è che questo modo di fare cominci a non essere più competitivo, almeno in termini assoluti. È come se una radio da sola non potesse più reggere il peso di tanti contenuti, e probabilmente è anche normale e giusto che sia così. La nostra vita è già così affollata da non reggere una colonna sonora così incalzante, chiassosa e ridanciana. Le cose cambiano, cambieremo anche noi. Speriamo in meglio».

Pasquale Di Molfetta, vero nome di Linus, compirà 51 anni in ottobre. Può essere che un suo piccolo errore di tiro sia stato pensare veramente che la radio stia diventando un mezzo solo per persone mature. Come spiegava a ItaliaOggi appena un anno fa, «Deejay ha un pubblico over 30 e Capital deve rivolgersi ad ascoltatori più maturi, 40-50enni». Non è detto, tra l'altro, che se gli ascoltatori sono più anziani, si debba puntare per forza su conduttori maturi: personaggi come Guido Bagatta o Massimo Cotto, su Capital, per esempio, lasciano perplessi in molti.

Va sottolineato, infine, come gli equilibri della ricerca Audiradio sugli ascolti siano spesso influenzati da una campagna pubblicitaria azzeccata. Negli ultimi tempi Rtl 102,5 ed Rds hanno puntato molto sui media tradizionali, tv-stampa-affissione, mentre la comunicazione delle radio del gruppo Espresso ha spinto tanto sul web. Che sarà pure il mezzo del futuro. Ma che per il momento, quando si tratta si promuovere dei brand, non ha ancora dimostrato tutte le sue potenzialità.


Dagospia 08 Settembre 2008

Memories

Ecco come le canzoni dei Beatles
fanno riaffiorare ricordi ed emozioni

di ALESSIA MANFREDI


Ecco come le canzoni dei Beatles fanno riaffiorare ricordi ed emozioni
IN PRINCIPIO era la madeleine. Ora arrivano i Beatles: con l'aiuto della loro musica, gli scienziati cercano di far luce su come funziona la memoria e cosa permette a un ricordo sepolto di riaffiorare alla mente. "Blackbird", "Michelle" o "Hey Jude" sono gli 'ami' usati in uno studio scientifico molto particolare, per ripescare dal passato esperienze ed emozioni legate, appunto, all'ascolto di un brano.

Sono oltre tremila i ricordi musicali messi insieme finora dai ricercatori (l'esperimento è ancora in corso), descritti da persone provenienti da 69 Paesi diversi, che condividono su www.magicalmemorytour.com - il sito dedicato allo studio sponsorizzato dalla British Association for the Advancement of Science (BA) - le loro sensazioni più intime e personali. Come quelle di 'Female 63' che dall'Australia racconta come vivendo nel Nuovo Galles del Sud, "dove non succedeva granché", l'ascolto dei Beatles abbia cambiato la sua vita per sempre. "Io e la mia amica mettevamo su i dischi ogni sabato pomeriggio prima di andare alla Woolshed dance. I nostri preferiti cambiavano spesso, ma Eleanor Rigby e All my loving c'erano sempre".

O 'Female 46', che dall'Inghilterra del Sud-est, rivela che Michelle è la prima canzone in assoluto che ricorda. "Avevo tre anni, ed ero con mia madre e mia sorella in un negozio di Feltham High Street. Iniziano a suonare Michelle e io ricordo che pensavo che era una musica bellissima e che mi emozionava. E' la prima canzone che ricordo di aver ascoltato e ricordato. Ed è ancora una delle mie preferite".

"Da tempo si sa che la musica aiuta a ricordare eventi precisi della propria vita, ma questi sono i primi dati precisi che abbiamo che lo dimostrano" racconta a Bbc la dottoressa Catriona Morrison, psicologa cognitiva dell'Università di Leeds che insieme al professor Martin A. Conway ha coordinato lo studio, i cui risultati preliminari vengono presentati questa settimana al British Association Science Festival non a caso a Liverpool.

I ricordi emersi riguardano ambiti vastissimi, ed in generale sono sempre positivi. Ai partecipanti è stato chiesto di comunicare il primo pensiero che veniva loro in mente ascoltando una canzone dei Beatles, un album, un concerto, o relativo ad un membro del gruppo. Le memorie sono arrivate in modo egualmente distribuito da uomini e donne, dai 17 agli 87 anni. Spesso, con il ricordo riaffioravano precise sensazioni, odori, suoni.

E così le canzoni della band che ha segnato in tutto il mondo un'epoca, in modo trasversale, amata dai giovani ma anche dai loro genitori, possono aiutare i ricercatori a comprendere qualcosa in più su come funzionano i ricordi. Una delle teorie più seguite nel campo della memoria è che la difficoltà a far riaffiorare un ricordo dipenda dal fatto che non è stato "registrato" in modo corretto. Ma il fatto che la musica riesca a riportare alla mente eventi molto lontani nel tempo suggerisce invece che il problema non stia tanto nell'archiviazione del ricordo, ma nel suo recupero, spiega la dottoressa Morrison.

Ancora non è stato scoperto se certi tipi di musica sono più efficaci di altri a far riaffiorare il passato: di sicuro la band di Liverpool si è rivelata un ottimo punto di partenza.

(8 settembre 2008)

venerdì 5 settembre 2008

L'INSOPPORTABILE MINA' VAGANTE (E VACANTE) DELLA TV ITALIANA SIGNORILMENTE LEGNATO DA ALDO GRASSO

da DAGOSPIA, er mejo sito che ci sia!!!

E ALLA FINE, MINÀ ESPLOSE CONTRO ALDO GRASSO – IL MIO LINGUAGGIO TELEVISIVO SARÀ INSOPPORTABILMENTE KITSCH MA SEMPRE MEJO DELLA TV TRASH DI OGGI – LA REPLICA: SEI SOLO UN MARZULLO COMPIACENTE…


Dal “Corriere della Sera”


Gianni Minà con la moglie
© Foto U.Pizzi

Lettera di Gianni Minà

Con le puntate dedicate a Tognazzi e Vianello (l'ultima volta che furono riuniti in uno studio televisivo) e a Cassius Clay-Muhamad Ali, ho terminato su Rai Tre la rilettura di alcune puntate di «Blitz», un programma di intrattenimento innovativo che, 27 anni fa, Rai Due mandava in onda nei pomeriggi domenicali. Per l'occasione Aldo Grasso ha ripresentato il solito pezzo di invincibile antipatia nei miei confronti che tira fuori da 15 anni, ogni volta che si occupa del mio lavoro.

E questo nonostante che dal 1998 il fastidio di recensire quello che faccio gli è stato praticamente risparmiato perché, dopo la Rai della Moratti, anche la Rai di Celli e Zaccaria e di tutti i dirigenti di destra e di sinistra succedutisi dopo di loro hanno pensato bene di tagliarmi fuori, senza che il libertario critico del Corriere spendesse mai una parola. E' bastato però che Paolo Ruffini, direttore di Rai Tre, mi invitasse a collaborare dopo dieci anni esatti dall'ultimo programma realizzato, il notturno «Storie», non per varare un'idea nuova, ma solo per recuperare un «materiale storico», perché il malumore di Grasso diventasse incontenibile.

E così, nell'epoca dei tronisti o di trasmissioni che rovistano nell'immondizia della vita, ha sentenziato che quella televisione divulgativa e ambiziosa era kitsch. La tv in cui De Niro recitava in diretta per noi o Fellini accompagnava in studio Mastroianni perché ballasse con la Fracci o il presidente Pertini telefonava in diretta per salutare la sua attrice preferita, Anouk Aimée, quella era una televisione insopportabilmente kitsch. Ma soprattutto lo era il mio modo di presentare e di dialogare con questi protagonisti.

Un malumore così sfacciato si commenta da solo. Ma ora, alla fine di questo lavoro di recupero, ho pensato che non si poteva confondere il pubblico in questo modo, solo per capriccio o perché a Grasso disturba che il pubblico possa avere qualche «confidenza estetica» e non rimanga, invece, prigioniero della tv dei format o dei reality show, tanto cara al modello, per Grasso indiscutibile, della tv di adesso.
Se Rai Tre troverà il tempo e il budget per continuare in questa riproposta di «Blitz», l'illustre critico scoprirà, per esempio, che per raccontare la Sicilia ci azzardammo a ospitare per un intero pomeriggio, in studio, Leonardo Sciascia e, da Mazara del Vallo, a raccontare la vita grama dei pescatori, c'era Pippo Fava, dopo pochi mesi assassinato dalla mafia. Un vero scandalo.

Aldo Grasso
© Foto La Presse

E se avrà pazienza, Grasso scoprirà, magari con orrore, che un giorno stette con noi, per quattro ore, anche Giorgio Strehler con tutti gli attori che avevano reso leggendaria la storia del Piccolo Teatro di Milano così come fece Fabrizio De André, che in tv non ci andava mai, ma condivise con noi la puntata sulla poesia insieme a Joan Baez e Gregory Corso. Perché facevano tutto questo? Per amore del kitsch, ovviamente. Quel kitsch che faceva amar loro una tv di contenuti e non la tv di apparenza che Grasso, spesso, esalta credendola à la page.

Per quanto riguarda, poi, il mio linguaggio, è lo stesso usato, per esempio, quando intervistavo per il Corriere García Márquez o Scorsese, o che ho utilizzato nei documentari che mi hanno permesso, recentemente, di vincere al Festival di Montreal e mi hanno fatto premiare alla carriera a Berlino e Siviglia. Ma forse lì, Grasso non sanno chi è.
Gianni Minà

La risposta di Aldo Grasso
Caro Minà, anche da Gigi Marzullo vanno moltissime persone, pure illustri. Vedo che fra i suoi tanti meriti non elenca la famosa intervista a Fidel Castro, il più grande esempio storico di intervista compiacente.
Aldo Grasso

ps: senza contare le ignobili maradonate (gc)

giovedì 4 settembre 2008

sondaggi e foraggi


da DAGOSPIA er mejo sito che ci sia

NUOVE INTERCETTAZIONI SULLE RICHIESTE DI FAVORI PRODI-OVI-CAVAZZA
IL PIANO DEL PROF: ORGANIZZARE UN SONDAGGIO “CONTRO” WALTERLOO
300 MILA EURO PER EVITARE CHE VELTRONI DOMINASSE LE PRIMARIE DEL PD


Gianluigi Nuzzi per “Panorama” in edicola domani

Qualcuno non la racconta giusta: sugli scambi di favori tra l’industriale farmaceutico Claudio Cavazza, numero uno della Sigma Tau, e l’allora presidente del Consiglio Romano Prodi e su quel finanziamento da 300 mila euro per lanciare le primarie «prodiane» del Partito democratico. Nuove intercettazioni e nuovi interlocutori oggi gettano luce sulle spiegazioni minimizzatrici rese da alcuni dei protagonisti dei colloqui pubblicati nello scorso numero di “Panorama”.

Dai nastri si capisce che Alessandro Ovi, eminenza grigia di Prodi, chiedeva il sostegno di Cavazza come finanziatore di un particolare sondaggio che andasse a influenzare le primarie del costituendo Partito democratico. In altre parole, Cavazza doveva staccare per Renato Mannheimer un assegno da 300 mila euro (e non 280 come erroneamente scritto) per organizzare un grande evento: «Raccogliere 1.000 persone» racconta oggi lo stesso Mannheimer «rappresentative del Paese, farle votare subito per i candidati e farli rivotare l’indomani, dopo aver sentito dal vivo gli interventi dei candidati stessi. È il cosiddetto sondaggio informato inventato da James Fishkin».

Walter Veltroni
© Foto U.Pizzi
Si voleva quindi evitare che Walter Veltroni ottenesse un suffragio bulgaro che avrebbe indebolito la corrente prodiana del partito. Interpellato sul punto, Cavazza nega di netto la circostanza, pur confermando aspetti meno rilevanti. Afferma di non aver mai e poi mai parlato di finanziamenti con Ovi. Quest’ultimo potrebbe quindi aver «millantato». Di sicuro le versioni confliggono. La questione sarebbe irrilevante, come si è affrettato a sostenere Prodi, se tale sponsorizzazione fosse stata a fondo perduto, frutto di un’amicizia trentennale tra il professore e Cavazza.

Ma in procura la pensano diversamente. Ritengono quelle intercettazioni quantomeno «ambigue», come sostiene il procuratore capo di Bolzano Cuno Tarfusser (“La Repubblica”, 31 agosto). Perché collegano la sponsorizzazione del sondaggio informato a una richiesta avanzata da Cavazza a Prodi. L’accusa ipotizza che l’imprenditore, in cambio dei denari, avrebbe sollecitato un favore preciso: la defiscalizzazione della fondazione Sigma Tau, ovvero il suo inserimento nell’apposito elenco predisposto dal ministero dell’Economia per quegli enti non-profit.

L’agevolazione avrebbe fatto risparmiare almeno 1 milione di euro. Insomma, il triplo di quei 300 mila euro chiesti per l’Ulivo-Pd. Così nel fascicolo aperto dalla procura di Roma si ipotizza e si ripete che il finanziamento avrebbe avuto, testualmente, una specifica «contropartita»: appunto la sponsorizzazione in cambio di agevolazioni fiscali. Do ut des? Bisogna capirne di più. Per questo i magistrati di Bolzano si sono liberati di quelle intercettazioni, raccolte in un’indagine per corruzione e riciclaggio, e le hanno trasmesse a Roma ipotizzando il reato riformato dell’abuso d’ufficio, ma senza iscrivere nessuno nel registro degli indagati.

Anche perché l’aiuto che Prodi cerca di concretizzare per Cavazza tramite il suo staff sfuma quando entra nella fase operativa. Ovi cerca di spianare la strada alla fondazione di Cavazza e chiama il sottosegretario all’Economia Massimo Tononi, ma l’elenco delle fondazioni da aiutare è già sulla Gazzetta ufficiale. Troppo tardi. Che si parlasse soprattutto di soldi lo dimostrano le intercettazioni.

martedì 2 settembre 2008

CRIMINALI DELLO SPORT

dal Corriere Online
L'impunità calcistica

di Claudio Magris

Perché né terroristi né bande di rapinatori né gruppi di vituperati zingari, grazie a Dio, non attaccano apertamente i treni, picchiando selvaggiamente i passeggeri e obbligandoli a scendere, causando gravissimi danni a persone e a cose? Perché i seguaci di nessuna setta religiosa, a differenza dei beoti adoratori di una squadra di calcio, non sfasciano, nell'entusiasmo per il loro dio, bar e negozi, rovinando economicamente i loro proprietari e le loro famiglie? E perché, invece, i cosiddetti tifosi, ultrà o come si vogliono chiamare i violenti che escono da uno stadio lo fanno periodicamente?

La ragione è semplicissima: perché i primi verrebbero immediatamente perseguiti e costretti a pagare le conseguenze dei loro atti, mentre invece i secondi, i criminali travestiti da tifosi, possono farlo, sanno di poterlo fare, sanno che nell' epoca moderna lo stadio ha sostituito la chiesa quale asilo per i delinquenti; sanno di restare impuniti o di pagare pene irrisorie per i loro gravi e imbecilli reati. Se una banda di zingari si impadronisse di un treno o se nostalgici delle Brigate rosse devastassero la stazione di Milano, sarebbero perseguiti con adeguata durezza. Se chi negli anni scorsi, come accaduto, ha causato gravissime lesioni a pacifici cittadini, magari provocandone la morte, fosse ancora in galera, nessuno si abbandonerebbe più a tali atti bestiali. Se chi ha distrutto un esercizio pubblico fosse condannato a pagare i danni fino all'ultimo centesimo, venendo così pesantemente e giustamente penalizzato nella sua esistenza, nessuno si scatenerebbe contro persone e cose. Non capisco proprio perché se aggredissi o danneggiassi qualcuno per conto mio sarei chiamato a pagarne di persona, mentre se lo facessi urlando slogan calcistici godrei di una sostanziale impunità.

È giusto, doveroso punire violenze di rapinatori e terroristi, ma occorre punire ancor più duramente chi delinque in nome di una squadra di calcio, con l'aggravante dei motivi futili e abbietti, perché accoltellare qualcuno in nome della Triestina o della Juventus è ancor più spregevole che farlo in nome di qualsiasi ideologia politica. In Inghilterra i delinquenti dello stadio, individuati con un intelligente lavoro di infiltrati, sono stati pesantemente puniti e il fenomeno criminoso è grandemente diminuito.

Si parla tanto di soldati per reprimere la piccola criminalità; è il caso di impiegarli contro questa media e peggiore criminalità, tenendo presente che, se si fanno intervenire i soldati e non le Orsoline è perché reagiscano alle violenze da soldati e non da Orsoline. Psicologi e letterati si affannano a spiegarci che chi spacca la testa di un altro in nome del calcio lo fa perché ha i suoi problemi psicologici, i suoi disagi interiori. È vero, ma ciò vale per tutti; anche i serial killer, gli stupratori, i rapinatori hanno evidentemente i loro problemi e forse non sono stati amati abbastanza dalla mamma. Non è una buona ragione per lasciarli uccidere o stuprare.

Se le violenze del calcio continueranno — e continueranno — sarà perché e soprattutto perché le autorità preposte a garantire in generale la sicurezza dei cittadini, in questo caso decidono, chissà perché, di lasciar correre, di non tutelare i cittadini, diversamente da quel che accade nei confronti di altri malviventi. Ogni governo, sinora, sotto questo profilo, si è comportato irresponsabilmente; ha lasciato fare e certo lo farà ancora.

02 settembre 2008