giovedì 31 luglio 2008

sinistri cinesi - le olimpiadi della censura

“La censura è snervante, dissuasiva, efficace”
Giovedì, 31 Luglio 2008

manifesto.jpg“Non è stato facile mandare avanti questo blog durante i miei ultimi giorni a Pechino. Soprattutto, non è stato facile trovare la pazienza per scrivere due righe, caricare una foto (e riuscire a pubblicarla) nella speranza di non trovare la pagina bianca subito dopo aver cliccato su “pubblica post”. La censura è snervante, dissuasisva, efficace. Tutto ciò di cui hai bisogno funziona poco e male, la normalità è un’eccezione e a poco a poco riesce a toglierti la voglia di comunicare con il mondo. Io che ormai ero alla fine, la censura l’ho lasciata vincere, preferendo girare per la città piuttosto che cercare, per ore e ore, l’ennesimo espediente da hacker sfigato dell’ultim’ora”. Michele, un ventiquattrenne italiano che per alcuni mesi ha studiato in Cina e ha tenuto il suo blog Michele in Cina, descrive così il potere banale, quotidiano, avvolgente della censura.

Il comunicato di Amnesty - Ora però l’hanno scoperta anche i giornalisti stranieri. E perfino il Comitato Olimpico Internazionale, che forse avrebbe potuto farsene un’idea già da un po’. Ieri c’è stata una dura protesta di Amnesty International di cui dava conto Federico Rampini, nel suo Estremo Occidente, su Repubblica.it, il diario più approfondito e competente di quanto avviene nella capitale cinese in questi giorni. Le dichiarazioni del Cio e di Amnesty hanno dato vita una lunga scia di proteste e denunce sul web, forse anche meno di quanto fosse lecito aspettarsi.

20080731_artefatti.jpg“Ci hanno ingannati” - “Sulla libertà di stampa la Cina ha ingannato il mondo per sette anni” scrive Blogosfere-Pechino 2008. Sulla stessa linea 4mj : “La promessa fatta dalla Cina al CIO, secondo la quale almeno la stampa internazionale avrebbe avuto accesso ad internet senza limitazioni, non è stata mantenuta, infatti la censurà ci sarà per tutta la durata dei giochi“. E Hai Sentito. “Pechino colpisce ancora. La scure della censura ha colpito i media stranieri”.

Appelli e vignette- Contro la censura si può disegnare, come fa Gianfalco, o indignarsi e chiamare al boicottaggio come fa BioGiannozzi o dare il proprio contributo spiegando nel dettaglio tecnico i meccanismi che permettono di filtrare/bloccare la comunicazione web - che peraltro sono adottati in molti altri paesi del mondo, anche retti da democrazie - come fa Sismi-Blog (Sismi?).

L’infelice battuta di Frattini - Della “infelice ironia del ministro Frattini“ parla Jimmomo, Il ministro degli esteri, che dovrà essere a Pechino per la cerimonia inaugurale e ieri ha detto: “Temo che per un giornetto o due i miei diritti umani (le ferie!) siano a rischio in agosto“. Sul nostro ministro e le scelte del governo, piove sarcasmo - Fraticel Frattini - anche da Ideateatro. Così come The Instablog afferma “Da Pechino nessun passo indietro, i siti internet restano oscurati. Da giornalista scrive Man of Higland: “Secondo quanto affermano i giornalisti che da alcuni giorni lavorano al Main Press Centre e all’International Broadcasting Centre nella zona olimpica della capitale cinese, sono regolarmente bloccati anche i siti di dissidenti, esuli tibetani, e gruppi religiosi non graditi al governo di Pechino“.

L’ipocrisia del Cio - Durissimo con il Cio e “la corsa contro il tempo per far apparire le olimpiadi di Pechino uguali alle altre” il blog specializzato sull’oriente 1972. Cosi come Passi nel deserto dice che “spariranno anche i siti di amnesty” (ciò che è regolarmente avvenuto Ndr).

E anche parlar di sesso è proibito? - Ma non è questione di soli giornalisti: protesta ZioBudda, un blog di informazione tecnologica, LuigiBoschi (”la censura rimane”). Il Blog Censurato rilancia il manifesto di Amnesty International che riproduciamo qui sopra. LadyCleopatra si addolora che tra gli interdetti ci sia anche il parlar di sesso: “Il ” bon-ton” dei pechinesi recita tre argomenti tabù: sesso, religione e politica. E’ quanto raccomanda il bollettino affisso per le vie di Dongchang: centralissimo quartiere della città, sede dei prossimi giochi Olimpici.”

(a cura di vittorio zambardino)

Questo post è stato completato alle 12 del 31 luglio 2008

Per la discussione si prega di leggere le avvertenze

Immagini: in alto, Amnesty International. In basso, Artefatti.

Indirizzo permanente del post | 6 commenti

LA CINA SINISTRA: CADE LA MASCHERA

LA CINA CENSURERÀ INTERNET DURANTE LE OLIMPIADI - IL CIO: "QUESTA È LA CINA, SIAMO IMPOTENTI" - OSCURATO ANCHE IL SITO DELLA BBC – “LE E-MAIL DEI GIORNALISTI VERRANNO MONITORATE DURANTE I GIOCHI?”…


Marco Mensurati per “la Repubblica”

La Cina censurerà Internet durante le Olimpiadi. La grande maschera è caduta. E nonostante il Comitato olimpico internazionale (Cio) si sia prontamente chinato a raccoglierne i pezzi, ormai alla favola delle Olimpiadi libere non ci crede più nessuno.

Contestazione pro Tibet
f. La Stampa

Nei giorni scorsi gli osservatori internazionali, guidati da Amnesty International, avevano accusato le autorità cinesi di aver cominciato a oscurare molti siti in vista delle Olimpiadi. La prima replica era stata imbarazzata: «Forse sono solo problemi tecnici». Invece ieri, dopo le pressioni esercitate da tutto il pianeta, è arrivata la piena confessione della Cina: «Durante le Olimpiadi - è la dichiarazione ufficiale del portavoce del comitato organizzativo, il signor Sun Weide - forniremo un accesso a internet sufficiente per il lavoro dei giornalisti». Un goffo eufemismo, per altro in contraddizione con le garanzie fornite al Cio in fase di assegnazione dei Giochi, per annunciare la censura.

Una prima lista nera di siti che verranno oscurati era stata divulgata - e mai smentita - all´inizio della settimana. Questi siti - secondo il "Centro cinese per i contenuti internet illegali" - «contenevano informazioni illegali e dannose». Per lo più si trattava di testate giornalistiche e culturali collegate con il movimento spirituale Falun Gong, fuorilegge in Cina perché «cultore del malvagio».

Ma ieri si è appreso che anche altri siti verranno oscurati per tutto il periodo olimpico: come quelli di Amnesty international, della Bbc, di Deutsche Welle (una radio tedesca), e dei giornali Apple Daily (Hong-Kong) e Liberty Times (Taiwan). Censurati anche i portali di molti gruppi cristiani tra i quali quello del Pontificio istituto missioni estere (pime.org).

«La nostra promessa era di permettere ai giornalisti di usare internet per il loro lavoro durante le Olimpiadi - ha aggiunto Sun Weide - e noi abbiamo assicurato questa possibilità a sufficienza». Il tutto mentre ieri la Camera degli Stati Uniti approvava una risoluzione nella quale chiede al governo cinese di porre fine alla violazione dei diritti umani, cessando anche il proprio sostegno ai governi del Sudan e della Birmania.

All´insegna della più totale impotenza, la reazione del Cio, schiacciato tra il tradimento della Cina e le pressioni della comunità internazionale. In una intervista al South China Morning Post, il portavoce Kevan Gosper annaspa disperatamente, chiede scusa, e poi si rifugia in una dichiarazione solo apparentemente ambigua: «So che è stato raggiunto un accordo tra il Cio e gli organizzatori per bloccare alcuni siti. Se avete frainteso quello che in questi anni ho sempre detto circa l´accesso libero alla rete durante i Giochi, allora chiedo scusa. Non sto facendo una retromarcia. Ci sarà accesso pieno, aperto e libero per consentire ai giornalisti di seguire le Olimpiadi. Ma non possiamo garantire l´accesso a siti legati alle attività correlate o a qualsiasi altra cosa succeda in Cina». Il fatto è che nessuno ha mai frainteso nulla.

I vertici del Cio avevano sempre dato assicurazioni ai media internazionali. La retromarcia c´è stata e come. E Gosper ha anche ammesso di aver insistito perché la decisione venisse comunicata al mondo con più giorni di anticipo. Ma come Gosper stesso ha ricordato nella sua intervista, «qui abbiamo a che fare con un paese comunista che usa la censura. E quindi non puoi aspettarti niente di più di quello che loro sono disposti a darti». Considerazione indiscutibile e decisamente sinistra se si considera che alla successiva domanda «le e-mail dei giornalisti verranno monitorate durante le Olimpiadi?», il portavoce ufficiale del Cio si è rifiutato di rispondere


Dagospia 31 Luglio 2008

martedì 29 luglio 2008

TIRO A MANCINO di Andrea Marcenaro

19 luglio 2008

Quando Nicola Mancino si acquattò ben bene mentre Severino Citaristi, vale a dire quello che nella Dc gli pagava le campagne elettorali, finiva travolto da decine di inchieste per corruzione, si pensò che Mancino fosse un sepolcro imbiancato. Quando Mancino fece il suo cursus honorum e si trasferì alla testa del Csm, vale a dire della stessa logica e della stessa cultura che avevano travolto Citaristi, si pensò che Mancino fosse un sepolcro imbiancato due volte. Quando, ieri mattina, Mancino ha voluto far sapere dalle colonne di Repubblica che una riforma della giustizia in effetti ci vuole, basta che non tocchi l’obbligatorietà dell’azione penale, o la separazione tra accusatori e giudici, e che non sfiori il diritto dei magistrati a disciplinare loro stessi, si pensò che Mancino fosse un sepolcro imbiancato tre volte. Quando subito dopo, vale a dire nel primo pomeriggio, Mancino ha protestato perché il titolo di Repubblica (“La politica non tocchi i poteri dei pm”) presentava in forme estremizzate le sue riflessioni, ci si è chiesti se sul pianeta ci sarà biacca sufficiente.

la reclusa non si scusa

Cogne: «Franzoni uccise con razionale lucidità»
La Cassazione motiva la condanna a 16 anni

Annamaria Franzoni

ROMA (29 luglio) - Annamaria Franzoni uccise con «razionale lucidità» il figlioletto Samuele, di 3 anni e 2 mesi, la mattina del 30 gennaio del 2002, nella casa di Cogne. Lo sottolinea la Cassazione con la sentenza 31456, depositata oggi, che contiene in 50 pagine, le motivazioni in base alle quali i Supremi giudici hanno confermato la condanna a sedici anni di reclusione nei confronti della donna. Secondo la Suprema corte, è da escludere, «al di là di ogni ragionevole dubbio» che ad uccidere Samuele sia stato un estraneo. I giudici di piazza Cavour sottolineano che «una volta dimostrato l'assoluta implausibilità dell'ingresso di un estraneo nell'abitazione e la materiale impossibilità che costui possa avere agito nel ristrettissimo spazio di tempo a sua disposizione, e una volta esclusa, come esplicitamente fa la sentenza di merito, ogni responsabilità da parte del marito dell'imputata e del figlio Davide, unica realistica e necessitata alternativa residuale è quella della responsabilità della sola persona presente in casa nelle fasi antecedenti la chiamata dei soccorsi».

domenica 27 luglio 2008

no comment

GB, 1/3 studenti islamici: sì omicidio per fede

Sondaggio tra i giovani delle università britanniche. I due quinti giudicherebbero condivisibile la "sharia" nel corpus legislativo del Regno Unito

dal "Corriere" Online

LA DOPPIA MORALE DI SINISTRA

SINISTRA, AVVERSARI E GIUDICI

La doppia morale


di Angelo Panebianco

Ma perché la cifra stilistica della sinistra italiana deve essere per forza il doppio standard, la doppia morale? Prendiamo l'ultimo caso in ordine di tempo. Il governo utilizza una norma vigente per dichiarare lo stato d'emergenza di fronte all'afflusso dei clandestini. Dalla sinistra partono bordate: razzismo, xenofobia, autoritarismo, intollerabile clima emergenziale. Quella norma però è stata in passato utilizzata anche dal governo Prodi.

Come mai all'epoca nessuno fiatò? Come mai nessuno di quelli che oggi strillano accusò quel governo di razzismo e xenofobia? Perché i «sacri principi», quali che essi siano, devono sempre essere piegati alle esigenze politiche del momento? Non è forse un modo per dimostrare che in quei principii, utili solo come armi da brandire contro l'avversario, in realtà, non si crede affatto? La spiegazione più ovvia, più a portata di mano, quella che rinvia l'esistenza della doppia morale, del doppio standard, alle persistenti scorie lasciate in eredità al Paese dalla vecchia tradizione comunista, è insoddisfacente: spiega troppo o troppo poco. Certo, è vero, nella tradizione comunista il doppio standard era la regola. Per i comunisti esisteva un fine superiore, una nobile causa al cui raggiungimento tutto doveva essere subordinato e piegato. Il ricorso continuo alla menzogna, ad esempio, era giustificato dal fine superiore. Così come il doppio standard.

Si pensi alla sorte di certi leader democristiani: Fanfani, Andreotti, Cossiga. Su di essi il Pci riversò a più riprese ogni genere di accuse, spesso anche quella infamante di essere registi di trame paragolpiste. Però, se il vento cambiava , quei registi occulti delle peggiori trame si trasformavano in amici e «compagni di strada»: il giudizio politico-morale su di loro dipendeva dall'utile politico del momento. E la capacità di intimidazione culturale del Pci e delle forze che lo fiancheggiavano era tale da non rendere necessario rispondere a una domanda che, del resto, solo pochi osavano porre: ma come è possibile che oggi strizziate l'occhio a un tale che fino a pochi mesi fa accusavate dei più infami misfatti?

Qualcosa del genere, d'altra parte, accade ancora. Si pensi al caso di Umberto Bossi del quale non si è ancora capito se si tratta di un leader xenofobo e parafascista, praticamente un delinquente, una minaccia per la democrazia, oppure di una costola della sinistra, uno con cui, magari, si può essere disposti a fare un po' di strada «federalista» insieme. O meglio, abbiamo capito benissimo: Bossi continuerà ad essere, alternativamente, l'una o l'altra cosa a seconda di come evolveranno nei prossimi anni i suoi rapporti con Berlusconi. Dicevo che non ce la possiamo cavare tirando in ballo solo la tradizione comunista. Sarebbe sbagliato e anche ingiusto verso molti ex comunisti.

Tra i comunisti c'erano molte persone serie, rigorose, di qualità. Queste persone, quando presero atto che la superiore causa era un vicolo cieco, o un'impostura, cambiarono registro. Misero da parte quella doppia morale che, ormai, ai loro stessi occhi, non aveva più alcuna giustificazione morale e politica. Spesso, questi ex comunisti, rimasti all'interno dello schieramento di sinistra, sono tra le persone migliori in cui ci si può imbattere, quelle con cui anche liberali come chi scrive possono trovare punti di incontro e affinità, con le quali, comunque, non capita mai di provare quel fastidio che si può invece provare quando si incontrano certi esponenti, politici o intellettuali, della sinistra mai-stata-comunista. I quali, spesso, continuano, imperterriti, a usare il doppio standard e la doppia morale.

La sinistra attuale è un amalgama informe che mescola brandelli della vecchia tradizione comunista con tic e cliché culturali di derivazione azionista e del cattolicesimo di sinistra. Queste ultime due componenti sono, forse, ancor più responsabili della prima nell'alimentare oggi quel mito della superiorità antropologico- morale della sinistra che continua a giustificare il ricorso al doppio standard e alla doppia morale. Tutto ciò è bene esemplificato dagli atteggiamenti dominanti a sinistra sulle questioni di giustizia. Il «pieno rispetto» per la magistratura e la regola secondo cui «ci si deve difendere nei processi e non dai processi» sono nobili principi che vengono sempre invocati quando nei guai ci sono gli avversari di destra. Ma se in graticola finiscono esponenti della sinistra (a patto, naturalmente, che non siano «ex socialisti») la musica improvvisamente cambia. Diventa legittimo attaccare i magistrati e persino difendersi «dai processi».

Personalmente, ho forti perplessità sui comportamenti tenuti, nell'esercizio delle loro funzioni, da magistrati come la Forleo e, soprattutto, De Magistris, ma non sono affatto sicuro che ad essi si possano attribuire più scorrettezze di quelle imputabili a certi magistrati che in passato si occuparono di Berlusconi e di altri nemici della sinistra. Si guardi a come opera il doppio standard nelle valutazioni di processi e procedimenti giudiziari a seconda che vi siano coinvolti amici o nemici. Se, poniamo, viene scagionato un imprenditore «amico» si plaude all'impeccabile comportamento dei magistrati e non ci si impegna certo in «analisi» minuziose con lo scopo di fare le bucce ai risultati delle inchieste. Altrimenti, come ha giustamente osservato Pierluigi Battista sul Corriere due giorni fa, lo spartito cambia, il doppio standard impera. Questi signori, sempre impegnati a stilare pagelle e ad assegnare brutti voti a quelli che definiscono «sedicenti» liberali, non hanno mai capito che indice di liberalismo è usare un solo criterio, un solo metro di giudizio, sempre lo stesso, per gli amici e per gli avversari, e che fare un uso così platealmente strumentale dei principi significa non avere alcun principio. Quando qualcuno di loro finalmente lo capirà, avremo, e sarà un bene per il Paese, qualche esponente in meno della genia dei «moralmente superiori» e qualche liberale in più.

27 luglio 2008

GIUDICI ROSSI IN ERBA VERDE


GIOVANI TOGHE CRESCONO. NEL PD
Da Il Giornale - Giovani aspiranti toghe crescono. E giusto per mettere in chiaro subito da che parte stanno, ecco che la tessera, quella politica, la prendono con il dovuto anticipo. L’esempio? La prima tesserata del Pd in Veneto è giovanissima, ha appena 20 anni. È una bella
ragazza, si chiama Alessia Pittelli, è iscritta a giurisprudenza e indovinate un po’ cosa vuole fare dopo la laurea? Ma il magistrato, che domande. «Questa tessera - spiega Alessia - è un impegno che prendo verso il partito e verso il territorio». L’idea che l’avvio della sua carriera politica e il suo sogno di indossare la toga siano incompatibili neanche la sfiora. Del resto, perché dovrebbe? Con tanti giudici-politici in giro...

da DAGOSPIA

sabato 26 luglio 2008

TIENANMEN

Le autorità hanno poi fatto ritirare tutte le copie del giornale dalle edicole
Tienanmen, rotto il tabù: prima foto in Cina
Un'immagine scattata durante la repressione contro gli studenti del 1989 buca la censura e finisce su un quotidiano
La foto di Liu Xiangcheng apparsa sul Beijing News
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
PECHINO —Un gruppo di uomini con la maglietta insanguinata.Di spalle, su un carretto a tre ruote. È un'immagine in bianco e nero scattata il 4 giugno 1989, la notte della strage in piazza Tienanmen. Titolo: «I feriti». Il quotidiano tabloidBeijing News, uno dei più diffusi nella capitale, l'ha pubblicata nella sezione «C», pagina 15, e ha infranto il tabù della Cina postmaoista che punisce pesantemente la divulgazione di notizie e commenti sul massacro degli studenti avvenuto 19 anni a opera dei carri armati scesi dalla colline dell'Ovest.

Il fatto è clamoroso. La foto compare, con altre tre dal contenuto «innocente» (un pattinatore al fianco di una statua di Mao, giovani con occhiali da sole e una coppia davanti a un muro di mattoni), a corredo di una intervista effettuata l'11 luglio a un famoso fotografo, Liu Xiangcheng che all'epoca lavorava per l'agenzia Ap e per il magazine americano Time e che coprì i tragici eventi. Un professionista che nel 1991 vinse il premio Pulitzer in occasione del tentato colpo di Stato a Mosca.

Si è trattato dell'errore di un incauto e inesperto redattore? Oppure di una sfida aperta al regime? Lo scivolone involontario non è da escludere: Tienanmen è stata cancellata e rimossa, le ultime generazioni non sanno che cosa accadde nella primavera del 1989. Un blackout culturale assoluto, per quanto assurdo e impraticabile possa apparire, che ha tolto dalla Storia, dalla memoria, dalle discussioni e dalle lezioni qualsiasi riferimento al movimento per la democrazia. È con questo «buco» che sono stati formati i ragazzi nelle università e poi avviati alla professione del giornalismo. E che sia un banale incidente di percorso, che ha comunque ridicolizzato la censura, lo dimostrerebbe la circostanza che nella intervista al fotografo non si fa mai cenno agli eventi del 4 giugno 1989.

Più remota — anche se da non escludere — l'ipotesi di un'aperta contestazione delle rigide regole imposte dai vertici. Proprio nei giorni scorsi il quotidiano di Pechino Xinjing Bao, nome cinese del Beijing News, aveva ricordato che «la libera informazione è un dovere dello Stato e un diritto del popolo». A quindici giorni dalle Olimpiadi è uno smacco per l'apparato della repressione che ha imposto un ulteriore giro di vite: negli aeroporti la polizia fruga nei bagagli dei turisti in arrivo quando i raggi X, installati prima delle uscite, segnalano la presenza nelle valigie e nelle borse di libri e di giornali in quantità eccessiva. L'ossessione che entri materiale «proibito» è oltre i livelli di guardia. All'apparenza la Cina ha avviato l'operazione sorriso ma, nella realtà, le misure di controllo del dissenso sono state inasprite. Incredibilmente, l'immagine dei «feriti», ha bucato la rete protettiva ed è finita in edicola. Le «guardie rosse» hanno agito a posteriori «ripulendo» tutte le rivendite della edizione già stampata. Lavoro extra. Tolta pure la pagina dal sito Internet. In compenso, segno che la beffa ha colpito, la foto e l'articolo hanno preso a circolare nei blog.

Fabio Cavalera
26 luglio 2008

le olimpiadi "democratiche"

Pechino, fotografano code per biglietti Olimpiadi:
giornalisti allontanati, un reporter in manette

Persone in fila per comprare il biglietto a Pechino (foto Andy Wong- Ap) PECHINO (25 luglio) - Giornalisti e fotografi di Hong Kong sono stati allontanati con la forza dalla polizia di Pechino mentre documentavano le lunghe code davanti alle biglietterie olimpiche. Un fotoreporter è stato arrestato.

venerdì 25 luglio 2008

HIRST THE FIRST – IL PIÙ ESPLOSIVO ARTISTA CONTEMPORANEO SCAVALCA MERCANTI E CRITICI E GALLERIE E MIRA DIRETTAMENTE ALL’ACQUIRENTE: I SUOI LAVORI ALL’ASTA – LA VERA VALUTAZIONE DELL’ARTE È IL DENARO…


Germano Celant per “L’espresso”
da "DAGOSPIA", il meglio sito che ci sia

Damien Hirst con il suo ultimo lavoro 'The Golden Calf'

La notizia, seppure veicolata tramite il rassicurante sito Web di Sotheby's, Londra, è esplosiva. L'artista inglese Damien Hirst (1965), quotato come Bacon e Freud, metterà in settembre all'asta i suoi recenti e inediti lavori con l'intento di evitare qualsiasi mediazione ed entrare in diretta con l'acquirente.

L'idea è proporre la vendita senza la verifica critica ed espositiva, ma anche senza interferenza di filtri, mercantili e teorici, che possono giocare su altri valori che non siano, in questo momento storico, la vera valutazione: il denaro.

UNA VOLTA SI SCRIVEVANO LE POESIE, ORA PRENDI IL PROZAC. ESSERE UMANI È UNA MALATTIA, CI SPIEGANO… Filippo Facci per “Il Giornale”
Ogni tanto cercano di spiegarti che i grandi uomini erano dei grandi malati: da quel depresso di Ippocrate sino a Klaus Kinski, attore che il Corriere online, l’altro ieri, spiegava esser stato fondamentalmente uno schizofrenico e uno psicopatico. Non che non lo fosse: il problema è la tendenza a interpretare la natura umana solo in chiave biologica. Abbiamo letto di tutto, ormai: il pessimismo di Leopardi era un problema di neurotrasmettitori, la sensibilità di Tchaikovskij una somma di fobie omosessuali, Van Gogh del resto era epilettico, Churchill era un depresso patologico, Paganini aveva la sindrome di Ehiers-Danlos, Rachmaninov quella di Marfan eccetera.

Ma lasciando da parte le personalità di spicco (secondo Aristotele tutti gli uomini eccezionali erano melanconici) la medicalizzazione dell’esistenza non risparmia nessuno di noi: ogni dinamica sentimentale è stata chimicamente misurata in termini di serotonine, endorfine, vasopressine e ossitocine; il mal d’amore altro non sarebbe che un disturbo ossessivo-compulsivo. Una volta si scrivevano le poesie, ora prendi il Prozac. Le tristezze e le inquietudini creative, quelle che fanno porre i grandi interrogativi della vita, quelle che nei secoli hanno spinto alla ricerca dell’arte e della scienza (e perché no, anche di Dio) ormai sono voci del Dizionario psichiatrico. Essere umani è una malattia, ci spiegano.

mercoledì 23 luglio 2008

L'ORIGINE DEL MALE

di ENZO BETTIZA
La più lunga, la più ambigua, la più protetta latitanza in contumacia dell’ultimo dopoguerra jugoslavo è giunta alla fine. Sarebbe infatti esagerato dire che Radovan Karadzic sia stato all’improvviso scoperto e arrestato dalla polizia di Belgrado. Il Nerone di Pale, il poeta e psichiatra per l’infanzia Radovan Karadzic, che declamando versi si godeva l’intermittente sparatoria dei cecchini sui bersagli umani di Sarajevo, è stato abbandonato al suo destino.

Lo hanno abbandonato i governanti serbi ormai logorati sul piano internazionale da una finzione durata al di là del sostenibile: lo hanno quindi semplicemente spogliato dell’immunità, assicuratagli per tredici anni dall’ex capo dello Stato Kostunica, in attesa di estradarlo come merce di baratto al tribunale per i crimini di guerra dell’Aja.

Il nuovo presidente occidentalista, Boris Tadic, dai cui uffici sarebbe partita la notizia dell’«arresto», ne ha ritmato la comunicazione sui passi che il ministro degli Esteri di Belgrado espletava intanto nelle principali capitali europee. Insomma, la testa del maggiore dei criminali serbi, il vero responsabile del genocidio di Srebrenica e dell’urbicidio di Sarajevo, in cambio di un'imminente apertura alla nuova Serbia da parte dell’Unione Europea. Non a caso siamo alla vigilia di un importante vertice intergovernativo a Bruxelles e non caso, in questi stessi giorni, gli ambasciatori serbi stanno rientrando nelle sedi occidentali abbandonate per protesta dopo la proclamazione d'indipendenza del Kosovo. L’isolamento internazionale cominciava a incidere troppo sulla già lacera borsa politica ed economica di Belgrado.

Però non tutta l’Europa sembra accingersi ad accettare a tempi unanimi e concordi le pratiche dell’estradizione. Il responsabile della diplomazia europea, Solana, pare incline a dare cauto ascolto alle eccezioni sollevate in merito dal gruppo dei Paesi nordici, schierati alle spalle dell’Olanda gravemente macchiata, all’epoca di Srebrenica, dall’indegna e quasi complice inerzia dei suoi caschi blu che prima dell’eccidio brindavano in divisa Onu col generale Ratko Mladic. C'è chi ricorda ancora la foto, scattata il 12 luglio 1995, in cui si vede il capo del corpo olandese, Ton Karremans, in procinto di avvicinare il bicchiere di sljivovica a quello del massacratore in tuta mimetica che agiva agli ordini del presidente Karadzic. Scandalo morale e crisi politica provocarono poi le 500 medaglie elargite dal governo dell’Aja ai soldati del contingente che non impedirono la strage di ottomila musulmani bosniaci. Ora molti temono che nuovo scandalo e nuova crisi, ai danni dell’Olanda, possano emergere proprio al tribunale dell’Aja dalla testimonianza di un personaggio pericoloso, incontrollato e ricattatorio come Karadzic. Sembra di capire che i nordici, perciò, cerchino di guadagnare tempo, sostenendo che non basta trascinare alla sbarra internazionale un solo responsabile, il solo mandante Karadzic, non accompagnato dall’esecutore militare e manuale del genocidio. Secondo taluni sarebbe addirittura Mladic il principale colpevole dell’orrore.

Ma si tratta di sofismi di lana caprina, che hanno poco valore storico e poca probabilità di realizzarsi subito nei fatti. Sarebbe come dire, con le dovute proporzioni s’intende, che era quasi più importante colpire Himmler prima di Hitler o Beria prima di Stalin. Nello specifico caso balcanico era Karadzic la mente e Mladic il braccio del male. Era il poetico e superlativo montenegrino Karadzic, interlocuore privilegiato di Mitterrand, del mediatore di Dayton Holbrooke, del ministro britannico Owen, perfino del Nobel Wiesel sopravvissuto ai lager nazisti, era lui lo stratega della morte sul viale dei cecchini nei 43 mesi d’assedio di Sarajevo. Era lui l’ideatore della mattanza di Srebrenica. Era lui che confidava agli amici che un «Turco», un islamico di Bosnia, vale assai più da morto che da vivo. Era insomma Radovan Karadzic, sostenuto dal defunto Milosevic e servito dal forse defunto Mladic, il promotore delle ecatombi più spietate che l’Europa ricordi dalla fine della seconda guerra mondiale.

L’uomo che oggi vediamo in sandali, con la lunga barba bianca da monaco ortodosso, non era comunque un criminale comune: citava a memoria i sonetti di Shakespeare, affascinava le donne, incantava i negoziatori occidentali col suo inglese fluente e impeccabile. Un mostro mellifluo, un attore sanguinario, un folle machiavellico mascherato di volta in volta da politico realista e da profeta? Addirittura un santo, se dobbiamo credere all’opinione di una certa Chiesa oltranzista serba. Diversi servizi occidentali hanno raccolto prove sufficienti per sostenere che, dal 2003, la Chiesa ortodossa avrebbe assunto l’onere di sostenerne la latitanza. La gerarchia religiosa avrebbe inviato a suo tempo questo messaggio alle docili autorità di Belgrado: «D’ora in poi dimenticatevi che esiste. Lo proteggeremo noi, nei nostri monasteri, fino all’estinzione dei suoi giorni. Allora gli costruiremo un mausoleo dove la gente potrà venire a venerarlo come eroe del popolo serbo». Nessuno ricorda più che il vero Karadzic degno di venerazione, al quale l’Encyclopaedia Britannica dedica mezza pagina, si chiamava Vuk: visse nella prima metà dell’Ottocento, fu filologo romantico, padre della letteratura serba, unificatore e semplificatore degli alfabeti serbi e croati, spirito d’unità culturale e non d'odio razziale fra i popoli jugoslavi.

Invece, il falso Karadzic, non si sa bene se da medico o da paziente, è finito sotto altro nome in una clinica secondaria per malati mentali, fino a ieri dimenticata dalle autorità serbe e ignota al mondo intero. Non è da escludere che potremo rivederlo presto alla sbarra dell’Aja, perfettamente sbarbato, in doppiopetto scuro, al posto del prigioniero Milosevic che lo temeva e lo nominava il meno possibile. Si capisce perché nell’attesa tanti olandesi tremino.

ALDO GRASSO RICORDA GUIDO ANGELI

a fil di rete
Morto Guido Angeli, re della televendita
Testimonial del mobiliere Aiazzone, ha imposto gesti e slogan diventati proverbiali come «Provare per credere»

A 77 anni è morto il più famoso televenditore: il 21 luglio è infatti scomparso a Firenze Guido Angeli, l'uomo del «provare per credere». Dopo aver esercitato diversi mestieri — dal gestore di alberghi e locali notturni al mercante d'arte e di antiquariato — era approdato per caso in televisione nel 1983, contattato da un amico gallerista che doveva piazzare con alcune televendite (la trasmissione si intitolava «Aggiudicato») una partita di quadri dell'800. Notato dai dirigenti di Rete A, gli fu proposta la conduzione di «Accendi un'amica», contenitore di spazi commerciali in onda dalle 8 del mattino alle 15. È in questo contesto che incontra il mobiliere Giorgio Aiazzone, di cui divenne subito il testimonial. Con gli spot per la ditta biellese di mobili, Angeli ha imposto gesti e slogan diventati proverbiali, come i pollici alzati e le battute «Provare per credere», «Dite che vi manda Guido Angeli», «Aiazzone, è la scelta più Biella del mondo».

Resta memorabile l'orazione funebre che Angeli ha tenuto su Rete A (martedì 15 luglio 1986, ore 23.30) per commemorare Aiazzone, scomparso in un incidente aereo: ottanta minuti eccessivi, debordanti e macabri in uno studio con una sedia vuota al centro investita da un fascio di luce che, riflettendosi sulla cromatura del bracciolo, conferiva alla scena un vago senso di soprannaturale. L'orazione era introdotta dall'immagine di un'aquila che solca il cielo sopra un mare in tempesta. La commemorazione è stato uno spettacolo intenso e commovente per gli ammiratori di Aiazzone, un punto di svolta nella storia delle veglie notturne per i massmediologi, un nuovo modo di raccontare la morte in differita. Tempo fa era apparso in tv, a «Matrix» di Enrico Mentana per una puntata dedicata alla storia delle tv locali. Diceva di aver chiuso con la tv, cercava di godersi la pensione, in un paesino della Toscana.

Aldo Grasso
23 luglio 2008

martedì 22 luglio 2008

kinski

a 26 anni il primo ricovero

Klaus Kinski era malato mentale

Scoperta la cartella psichiatrica del grande attore tedesco: Definito dai medici «pericolo pubblico»

Klaus Kinski in «Fitzcarraldo»
Klaus Kinski in «Fitzcarraldo»
BERLINO - Il leggendario e geniale attore tedesco Klaus Kinski era schizofrenico e psicopatico. A 17 anni dalla sua morte sono state scoperte le cartelle cliniche della star del cinema. Anticonformista, cinico e rissoso anche fuori dallo schermo, Kinski era solito denigrare con linguaggio assai colorito il cinema in genere, i critici, il pubblico e anche il proprio lavoro. Per anni ha sofferto di depressione, è stato definito un personaggio folle e problematico. Già a 26 anni fu ricoverato per un breve periodo in una struttura per cure mentali. Ora dagli archivi di un ospedale berlinese sono venute alla luce le sue cartelle cliniche. Sono stati pubblicati, infatti, i documenti storici di circa 100 mila pazienti dell'allora «Städtische Irren- und Idioten-Anstalt zu Dalldorf», letteralmente «struttura cittadina per pazzi e idioti di Dalldorf». Tra il 1880 e il 1960 tra i pazienti c'era anche Klaus Kinski. Sui documenti, che risalgono ai primi anni Cinquanta, compare il suo nome di battesimo, Klaus Nakschinski.

TENTATO SUICIDIO - Per i medici già allora era chiar che quell'uomo era «un pericolo pubblico» come pure un genio. Dalla prima pagina della sua cartella si legge: «Diagnosi temporanea: schizofrenia. Definitivo: psicopatia».
Il giovane attore durante questo periodo sarebbe stato perdutamente innamorato di una dottoressa di 24 anni più vecchia. Gli psichiatri annotano: «Secondo il suo racconto i due si amano profondamente».
La donna, invece, avrebbe avuto solo un affetto materno per Kinski. Il giovane attore, allora disoccupato, colto dalla disperazione e dalla gelosia tentò il suicidio assumendo tre fiale di morfina. Sopravvisse, ma tre giorni dopo assunse nuovamente una dozzina di compresse di sonnifero. Più di una volta si scagliò ferocemente contro la donna, gesto che che indusse a classificare Kinski come «pericolo pubblico». Tuttavia, quella che è considerata una stella di prima grandezza della storia cinematografica non si definì mai un «pazzo». Kinski morì nel 1991 per un arresto cardiaco.

Elmar Burchia

sabato 19 luglio 2008

iPhone users- dal BLOG di F. Cella

L'iPhone per uomini single

Scritto da: Federico Cella alle 17:02

iphone_mano.jpgA una settimana dal lancio mondiale dell'iPhone 3G, con relativi deliri altrettanto mondiali e tuttora code fuori dai negozi della Mela negli Stati Uniti, Nielsen ha pensato di fare una ricerca sull'utilizzo dello status symbol di Apple in Europa. Dove gli iPhonici - 2 e 3G - sono circa 1,1 milioni, pari allo 0,3% degli utenti di telefonia mobile nel continente.
Per il 73% sono uomini - rispetto al 51% sul totale utenti di telefonia, il che confermerebbe la famosa «questione unghie» -, il 66% ha meno di 35 anni (il totale è invece del 32%) e il 40% sono single.
Delle caratteristiche del cosiddetto Melafonino, il 74% degli utilizzatori usa il lettore Mp3, il 64 la funzione Wi-Fi e il 54% la fotocamera. Più interessanti i dati che differenziano l'uso del telefonino che fanno gli iPhonici dagli altri utenti mobili: il 63% accede a Internet (5 volte in più), il 25% guarda video (8 volte in più), il 55% riceve e invia mail (9 volte), il 15% gioca online (2 volte).
Infine, alla domanda sul perché ci si è fatti prendere dalla febbre per il telefonino più scivoloso sul mercato - ma il 3G è meno sfuggente del precedente -, il 35% ha risposto che l'ha scelto per le peculiarità tecnologiche e funzionali, il 26% per il marchio Apple e il 29% per il design del telefonino. Il 100% perché fa figo averlo, ma questo ultimo dato deriva da una mia ricerca personale.

venerdì 18 luglio 2008

barbie vs bratz

dal "corriere online"

Barbie mette ko le Bratz
Risarcimento miliardario in vista. Le "creature" disegnate da Carter Bryant potrebbero sparire dal mercato
LOS ANGELES
Barbie e Bratz nemiche per sempre, al punto di finire in tribunale. Una giuria californiana ha dato ragione alla Mattel che aveva accusato un suo dipendente, Carter Bryant, di aver partorito le Bratz - divenute rivali della bionda pin-up - mentre lavorava ancora per il colosso dei giocattoli. �Il verdetto�, ha commentato il numero uno della Mattel, Bob Eckert, �non � una vittoria solo per la nostra azienda ma per tutte quelle che credono nel fair-play�. La giuria ha anche stabilito che realmente Isaac Larian, capo della Mga Entertainment (poi produttrice delle Bratz), ebbe �contatti� con Bryant mentre lavorava per la Mattel.

La Mga Entertainment, che produce la Bratz, ha provato a difendersi: Bryant ha lavorato per la Mattel tra il 1995 e l�aprile del 1998 e di nuovo tra il gennaio 1999 e il settembre del 2000: durante gli intervalli avrebbe pensato e disegnato la bambola rivale.

IL SONDAGGIO MAI PUBBLICATO

da "Dagospia", er mejo sito che ci sia

‘PANORAMA’-SCOOP: ECCO IL SONDAGGIO-CHOC CHE FU NASCOSTO A RUTELLI
2007: PER 7 ROMANI SU 10 LA CITTÀ ERA A PEZZI, IL GRADIMENTO A VELTRONI A PICCO
DAGOSPIA PUBBLICA IL DOCUMENTO IPSOS CHE IL SETTIMANALE NON HA PUBBLICATO




1 - ECCO IL SONDAGGIO TENUTO SEGRETO CHE CONDANNAVA RUTELLI: GRADIMENTO A PICCO PER VELTRONI E CAPITALE RIDOTTA AI MINIMI TERMINI
Carlo Puca per “Panorama”


La caduta di Romano Prodi, le dimissioni da sindaco di Walter Veltroni, il bagno di sangue di Francesco Rutelli. Ancora: i veleni, le risse di questi giorni, i rischi di scissione del Partito democratico. A voler essere colpevolisti, tutto potrebbe dipendere da un dettaglio in grado di spiegare la storia recente del centrosinistra italiano: un documento di 58 cartelle del gennaio 2008. Un sondaggio della Ipsos, per la precisione.

S’intitola «L’analisi di trend del biennio 2006-2007» ed è stato commissionato dal Comune di Roma al tempo della giunta veltroniana. Consegnato in Campidoglio nel gennaio 2007, è rimasto occultato per mesi al Pd, nascosto a Prodi e persino al candidato Rutelli. Panorama è riuscito a scovarlo in un armadio dimenticato da tutti, anche dagli uomini di Veltroni. Era fra vecchie carte invece che sul sito del comune, come da prassi, poiché commissionato dall’assessorato alla Cultura con delega alla comunicazione. Quella di Ipsos, insomma, è una ricerca che poteva essere pubblica ma non lo è stata. Chissà perché.
Unica certezza sono i numeri, che denunciano lo stato del rapporto tra Veltroni e i suoi (ex) elettori romani: a dicembre 2007, rispetto al 2006, la fiducia verso l’amministrazione comunale era crollata di 20 punti secchi. In appena 24 mesi. Una catastrofe.

Nel sondaggio, a bocciare il leader del Pd è la totalità delle categorie, dai disoccupati (meno 36 per cento) agli impiegati (meno 14). Ma pure la totalità dei quartieri, dal centro (meno 28 per cento) a Ostia (meno 15). In generale, il 58 per cento dei cittadini dichiara di avere «poca o per nulla» fiducia nell’amministrazione. Il 51 per cento dei romani aggiunge pure di non sentirsi sicuro. Insomma, tra il sindaco e i romani si era rotto qualcosa. Anzi, si era rotto tutto.

I 'bastonati' Cicciobello e Walterloo
© Foto U.Pizzi

La conferma più netta arriva da una domanda, la seguente: «Pensando al 207, lei ritiene che rispetto al 2006 Roma sia…». Risposte: peggiorata (48 per cento), negativa come nel 2006 (22), positiva come nel 206 (10), migliorata (18). Riassumendo: nel dicembre 2007, il 70 per cento dei romani riteneva la capitale ridotta ai minimi termini. Altro che edonismo veltroniano. Altro che modello Roma.

Si tratta di un giudizio grave se rapportato a un sindaco rieletto a furor di popolo dopo 5 anni di splendida luna di miele con la città. Nella primavera 2006, per riconquistare il Campidoglio all’allora Walterissimo bastò il primo turno. Ottenne il 61,4 per cento dei voti, contro il 37,1 di Gianni Alemanno. Il quale ha dovuto attendere appena 2 anni per la rivincita. Stando al sondaggio, quasi una passeggiata di salute.

Ora per un attimo entriamo nel campo dei sospetti. Secondo la ricostruzione di Panorama, una prima versione, parziale, del documento Ipsos viene consegnata agli uffici del comune a metà gennaio 2008. Quattro, cinque giorni al massimo e arriva il 19 gennaio. E’ un giorno «epico» per Veltroni. A Orvieto, all’assemblea dell’associazione LibertàEguale, spara, secondo Rosy Bindi, due bombe sul governo Prodi. Con la prima ribadisce, accalorato, che il dialogo con Berlusconi è indispensabile: «C’è molta gente che mi dice: sta’ attento a Silvio! Ma non si può approvare una legge elettorale senza il concorso di Berlusconi».

La seconda bomba è ancor più fragorosa: «Qualunque sarà la legge elettorale, il Pd correrà da solo, senza l’apparentamento con altri partiti». Apriti cielo.
Dal comunista Franco Giordano alla stessa Bindi, decine di esponenti dell’Unione di governo accusano: «Walter si sta preparando alle elezioni». Dopo arriverà la pistola fumante di Clemente Mastella. Ma ancora oggi, a 5 mesi dal lutto, gli orfani di Prodi accusano il «traditore» Veltroni.

Goffredo Bettini
© Foto U.Pizzi

Il 13 febbraio il leader del Pd si dimette da sindaco per candidarsi alle politiche. Insieme al suo (W)alter ego Goffredo Bettini offre il Campidoglio a Rutelli, che accetta e perde. Tre settimane fa Bettini lo scarica («A Roma abbiamo sbagliato candidato»), salvo poi «precisare» il suo pensiero. Ma il messaggio è arrivato a tutti, chiaro e forte.
Eppure, secondo il sondaggio Rutelli è arrivato alle elezioni da sconfitto annunciato. L’apparenza mediatica, i bagni di folla veltroniani, il sistema di potere sembravano garantirgli una vittoria ampia e sicura. E invece la città reale, quella dell’Ipsos, era da un’altra parte.

Ma a Rutelli il sondaggio era stato consegnato? «No, non ne sapevamo niente», giurano i suoi fedelissimi che, sospettosi, attendono «la pubblicazione della rilevazione per capire meglio al faccenda». Né conoscevano la ricerca i prodiani. Gente che però non si stupisce. Basta guardare le date, suggeriscono, «per capire che Veltroni è fuggito da Roma per salvarsi da disastro mediatico». Dissesto finanziario compreso.

Il risultato è il tutti contro Veltroni: prodiani, rutelliani, dalemiani, ché intorno a Massimo sono anni che si cristallizzano i nemici di Walter. L’Ultima rissa è andata in onda il 14 luglio, al seminario di Italianieuropei sulla legge elettorale. Un pretesto per contarsi in vista di un congresso sempre più certo. Mas, visto il quadro, a essere incerta è la sopravvivenza del Partito democratico: non serve l’Ipsos per certificarlo.

LE CIFRE DELLA CATASTROFE VELTRONIANA
Da “Panorama”

Uno dei grafici allegati al sondaggio della Ipsos. Composta da 50 cartelle, la ricerca segnala il malcontento dei romani verso Veltroni.

-13% Soddisfazione per i servizi del comune
-5% Viabilità e traffico
-7% Assistenza agli anziani
-8% Operato dei vigili urbani
-8% Mense e refezione scolastica
-9% Parcheggi pubblici
-9% Attività culturali
-9% Cura e manutenzione del verde
-9% Cura monumenti luoghi artistici
-10% Scuole pubbliche comunali
-11% Cura e manutenzione della città
-15% Anagrafe e sportelli di municipio



UN ALTRO OMICIDIO A ROMA


A parte l'oggettiva, spaventosa, altissima percentuale di immigrati che delinquono impunemente nel nostro Paese, mi chiedo come sia possibile imputare di OMICIDIO COLPOSO un individuo che in città, a 160 all'ora, consapevolmente "brucia" una serie di semafori rossi. Tutto questo grida vendetta, gli innocenti falciati da questa gente brutale, e poi oltraggiati da imputazioni come questa, gridano due volte vendetta.

giovedì 17 luglio 2008

ACCORDO YOU TUBE - LIONSGATE


da "Dagospia", il meglio sito che ci sia :-)

4 - ACCORDO YOUTUBE-LIONS GATE PER CLIP DI FILM SU WEB…
(Ansa) - YouTube ha siglato un accordo con il produttore cinematografico Lions Gate Entertainment che consentira' al sito di condivisione video di pubblicare alcuni spezzoni di film. Ad annunciare l'accordo, ieri sera, e' stato Eric Schmidt, amministratore delegato di Google, societa' che controlla YouTube. Gli spezzoni dei film conterranno messaggi pubblicitari e mostreranno il collegamento al sito Internet dove poter acquistare l'intera pellicola. ''Lions Gate e' l'esempio interessante di una compagnia che cerca di raggiungere i suoi fan su Internet e, al contempo, di monetizzare'', ha detto Schmidt ai giornalisti durante una conferenza. L'ad di Google ha aggiunto che sono in corso trattative per concludere accordi della stessa natura con altre case cinematografiche.

mercoledì 16 luglio 2008

diritti d'autore

La Ue cambia il diritto d'autore
copyright esteso da 50 a 95 anni


La durata del diritto d’autore per gli artisti passerà dagli attuali 50 anni a 95: lo ha annunciato la Commissione Europea, adottando una serie di riforme del sistema di copyright.

La Commissione ha proposto di applicare lo stesso trattamento ad autori ed interpreti delle opere musicali, in modo da garantire agli artisti un reddito regolare anche durante la vecchiaia. Il termine di 50 anni, infatti, non garantiva le performance da teenager di musicisti e attori che perdevano protezione proprio nell’ultima e meno produttiva fase della loro vita. Ma un termine più lungo garantisce meglio anche e soprattutto i produttori discografici, assicurando un reddito extra a un mercato messo sempre più in difficoltà dalla duplicazione selvaggia via internet.

La Commissione ha deciso anche di equiparare la protezione garantita ai co-autori di un’opera, come ad esempio i componenti di un’orchestra o i partecipanti a una collaborazione musicale. In parallelo a questi provvedimenti, la Commissione Europea ha adottato una «Carta Verde sul diritto d’autore nell’Economia della Conoscenza»: si tratta di un documento di ampio respiro, pensato per rispondere all’esigenza di bilanciare il diritto pubblico alla libera circolazione della conoscenza con il diritto degli autori e artisti a veder riconosciuto il valore della propria opera. Questo documento costituirà la base del dibattito di lungo termine sulle politiche di copyright, in modo da strutturare una piattaforma legale per risolvere i controversi problemi della pubblicazione scientifica, dell’incoraggiamento alla creazione di nuove opere d’arte e della loro diffusione.

«È un piccolo tesoretto economico, ma anche un riconoscimento culturale»: così Jimmy Fontana, autore e interprete di successi memorabili negli anni Sessanta come Il Mondo, commenta la decisione dell’Unione Europea di allungare il copyright. «Sarebbe il caso di rinascere per poterseli godere questi diritti d’autore - scherza Fontana, al secolo Enrico Sbriccoli -. Certo è un grande aiuto, anche se gli eredi non è che possano vivere con questo. Io non sono al livello dei grandi. Dall’ultima classifica che ho visto, però, le mie canzoni se la battono con Via con me di Paolo Conte».

telepresenza

L'allarme del garante: «Rischio derive
da You Tube e social network»

E sulle intercettazioni Pizzetti dice: «Anomalia tutta italiana»

Francesco Pizzetti (lapresse)
Francesco Pizzetti (lapresse)
ROMA - Il Garante per la privacy Francesco Pizzetti nella Relazione Annuale al Parlamento mette in guardia dalle possibili insidie di Internet, puntando il dito sul rischio di derive che possono nascere soprattutto da YouTube e Social network; reti che si diffondono sempre di più e attraverso le quali si scambiano milioni di dati ma che i giovani usano con spensieratezza e inconsapevolezza. Un mondo che "è la frontiera più avanzata" della protezione dei dati personali.

LA RETE - Il Garante ha sottolineato che insieme alle altre Autorità europee, monitora attentamente il continuo svilupparsi di nuovi servizi ed opportunità sulla rete. E se da un lato l’Authority promuove le innovazioni, come quelle promosse da Google, quali la localizzazione geo-satellitare, la detenzione in siti protetti dei dati sanitari degli utenti, l`archiviazione in siti dedicati di tutto il traffico mail degli utenti. Dall’altro spiega: «Ne vediamo però anche le possibili derive». «Assistiamo - avverte il Garante - con vigile attenzione al diffondersi di Youtube e dei nuovi Social Networks, quali, tra i tanti, Myspace, Facebook, Asmallworld, che consentono a milioni e milioni di persone di scambiarsi notizie, informazioni, immagini, destinate poi a restare per sempre sulla rete».

RISCHI PER I GIOVANI - E questa diffusione e scambio di dati «può determinare in futuro, specie nel momento dell`accesso al lavoro, rischi anche gravi per giovani e giovanissimi, che spesso usano queste tecnologie con spensieratezza e inconsapevolezza». Di fronte a queste nuove sfide e criticità il garante sottolinea la necessità di indicazioni chiare: «Sentiamo il dovere di dare al più presto su tutte queste novità indicazioni chiare, anche per consentirne agli utenti un uso più attento e informato». E tra le ’insedie’ più temibili e non più solo futuribili, il Garante annovera il diffondersi della cosiddetta "pubblicità comportamentale", che utilizza la navigazione in Internet per inviare pubblicità mirata sulla base di gusti, interessi e comportamenti personali; o il geomarketing che, sfruttando il controllo satellitare, è in grado di seguire spostamenti e offrire in ogni località i prodotti e i servizi preferiti. «È - conclude Pizzetti - il mondo affascinante e difficile in cui viviamo», "è il mondo del cybercrime", "il mondo di una libertà virtuale senza confini", "è il mondo della ipervelocità", e «per l’Autorità di protezione dati è la frontiera più avanzata. Quella sulla quale dobbiamo trovare ogni giorno il giusto punto di equilibrio».


INTERCETTAZIONI - In precendenza il Garante si era scagliato contro il fenomeno delle intercettazioni telefoniche definito «una anomalia tutta italiana». Così il garante per la Protezione dei dati personali, Francesco Pizzetti, nel suo intervento a Montecitorio. Le intercettazioni raccolte durante le indagini e «oggetto di pubblicazione e di diffusione al di fuori dei processi» sono, secondo Pizzetti, «oltre che strumento di indagine una delle forme più invasive della nostra sfera personale» che «incidono pesantemente su quella libertà di comunicazione che l'art.15 della nostra Costituzione considera un diritto fondamentale, comprimibile solo con atto motivato dell'autorità giudiziaria». Il garante è quindi convinto della necessità di limitare il diritto di cronaca e saluta come un intervento positivo il ddl sulle intercettazioni nel quale «è stato dato al garante il potere di imporre la pubblicazione dei provvedimenti volti a censurare comportamenti scorretti da parte della stampa». Si tratta «di un potere che avevamo chiesto da tempo e che consideriamo efficace», ha sottolineato Pizzetti.


PROBLEMA GIUSTIZIA - Francesco Pizzetti ha poi lanciato l'allarme sulla situazione degli uffici giudiziari: «Le verifiche svolte al Tribunale di Roma, anche se circoscritte alle Sezioni civili e del lavoro, ci hanno confermato che la protezione dei dati negli uffici giudiziari è ancora quasi all'anno zero». Da qui gli interventi del garante che chiede protezione per i dati e risorse per la tutela effettiva dei diritti dei cittadini. «La nostra Autorità - spiega ancora Pizzetti - si è misurata più volte col tema della giustizia. Il primo aspetto che ci interessa da vicino è se e come sono protetti negli uffici giudiziari e da parte di tutti gli operatori della giustizia, i dati dei cittadini. Si pensi a quanti dati delicati e sensibili possono essere contenuti in una causa di separazione o in una controversia ereditaria o in un'azione di interdizione o in una causa di lavoro. Per non parlare poi dei dati raccolti nelle indagini giudiziarie o trattati nei processi penali». Sempre in tema di giustizia il presidente segnala il provvedimento adottato da pochi giorni «che mette ordine in uno dei settori più delicati delle attività processuali: quello degli ausiliari e dei periti del giudice». Qui a suo avviso «occorrono regole precise sui temi di conservazione; sulle modalità con le quali devono essere conservati o distrutti; sui casi e i modi in cui è lecito incrociare fra loro informazioni raccolte in attività peritali diverse e su delega di autorità giudiziarie differenti». Auspica quindi che questo provvedimento «insieme al codice deontologico di imminente approvazione sulle investigazioni difensive possa portare ordine in quella che sinora è stata una zona franca priva di regole».

IMPRONTE - Dal Garante arriva anche un «fermo e chiaro invito alla moderazione» nell'uso delle impronte digitali e dei dati biometrici che «si va diffondendo a macchia d'olio, sia nel mondo del lavoro sia in altri ambiti», perchè sono «potenzialmente lesivi della dignità delle persone» e quindi non vanno usati «secondo criteri discriminatori».

ciao

il ritorno di Donna

A 59 anni Donna pubblica un album fresco, potente e divertente con tanti produttori diversi e un brano indimenticabile: Stamp Your Feet
*****



il sistema delle Coop

Lettera a Dagospia

Lettera 12

Caro Dago, finalmente le COOP stano restituendo alla collettività alcuni milioni di euro, nella sola Emilia Romagna si parla di 20 milioni, ancora pochissimi. I furbetti del carrellino, finanziatori delle feste dell'Unità e di molto altro, per fare pressione su Tremonti si sono inventati 3 milioni di soci nella sola Emilia Romagna che di abitanti ne ha soli 4 milioni. In pratica - secondo Paolo Cattabiani, presidente Legacoop Emilia Romagna - il 75% dei residenti nella regione è socio Coop. La verità è che, nonostante il triangolo della morte e le intimidazioni, quasi la metà dei cittadini emiliano romagnoli sono contro il sistema delle coop. Il trucco per reclutare soci inconsapevole è semplice: i compagni hanno galoppini in ogni dove e ogni associazione la fanno affiliare alla Legacoop. Esempio, se sei un donatore di sangue e ti iscrivi all'AVIS (che da statuto dovrebbe essere apolitica) automaticamente ti ritrovi socio della Legacoop. http://www.avis.it/bologna/usr_view.php?ID_SEZIONE=35&ID=446 . Membro della Cooperativa Donatori AVIS.
Durex

domenica 13 luglio 2008

WENDERS VS FASSBINDER

Wenders: a differenza di Fassbinder, che è istinto drammaturgico puro, Wenders "fa" il teatro, racconta il cinema ma non va oltre. I registi cinefili o sono bravissimi (Tarantino, Hitchcock, Truffaut) o sono noiosi (Wim), oppure partono bravissimi e diventano noiosi (Argento), perchè alla lunga prevale in loro la saccenza. L'unico film che mi piace veramente di Wenders è quello straziante documentario su Nicholas Ray, "Nick's Movie" ( "Lampi sull'acqua", in un differente montaggio).

oddpeople




http://www.myspace.com/oddpeople

Roberto D'Agostino: ricordo di Gianfranco Funari

da "dagospia"

FU-NARI (IN GLORIA)
di Roberto D’Agostino

Di avvenimenti inspiegabili ne succedono di continuo. Gina Lollobrigida espone una scultura all'Expo di Siviglia. Michael Jackson scopiazza una mazurka di Al Bano e Romina. Un pizzicarolo si sveglia e si sorprende presentatore-intrattenitore-giornalista-esperto di comunicazione-agitatore politico davanti alla telecamera. Funari, non un nome di persona diventato simbolo, ma una denominazione naturale, oggettiva. La forza dell'intestino.

Può essere un prodotto crudele della Natura, una esorbitante creazione dello spirito del tempo, un reperto delle tradizioni popolari, specchio deformato dell'Italia che ci circonda. L’impatto di Funari sul televisore suscita un sorprendente "big bang" celebrando le mitiche nozze, spesso invocate ma sempre eluse, fra Intrattenimento e Politica, gigionismo e Sora Lella.


Il Bokassa del talk-show, dicono gli esperti, ha mutato l'Ordine Videologico: l'informazione e il commento da "mi addormento con il Tiggì", mummificato dai tempi delle Tribune politiche di Jader Jacobelli, marmorizzato dal bla-bla di tanti mezzibusti e mezzecalzette, vien giocata su tutti i tasti, sopra e sotto le righe, dal nostro Masaniello catodico.

L'informazione politica in Tv di Vespa e di Biagi, di Curzi e di Minoli, viene colpita e affondata da una precipitosa senilità con l'arrivo del Santoro all’acqua pazza. Quando tribuneggia, tra un politicante e una fettina di prosciutto crudo (sponsor del programma), è veramente difficile stabilire se è un presentatore pazzo o un pazzo che si crede presentatore.

Con lo stesso ritmo di quelli che fanno "Uh!" nelle orchestre cubane, maltratta le donne, zittisce gli uomini, provoca i gay, azzera democristi, corregge i demosinistri, slega i leghisti. Ha lo stile necessario per disinibire gli animi, a farli essere spudoratamente quelli che sono, baricentro della nostra miseria culturale. Funari? E il guinzaglio dov'è?
Ogni rovescio, si sa, ha la sua medaglia. Lo stile "funarimbolico" è flagellato dall'opportunismo romano-caciarone, un "Vieni avanti, Pasquino" che srotola un catalogo illustrato del populismo da bar, breviario televisivo della demagogia da tram. La sua maschera da ripulito mago della porchetta, da "Suino, dunque sono", raggiunge poi l'intollerabile (per un animo animale) togliendosi dai denti la mortadella, senza l'ausilio dello stecchino; o quando spiaccica il crudo di Parma sul vetro della telecamera. Il Ministero della Sanitê dovrebbe allertare la popolazione tutta: Funari fa male, digli di smettere.

Di più: arriva come sponsor la mortadella, e Funari raggiunge il Sublime: intanto perché, rispetto al borghese prosciutto, rappresenta un prodotto alimentare pop-prolo; secondo: trasforma la telecamera in una telecucina di un coatto con una fame atavica. Una tesi condivisa anche dall'antropologia, ramo delle scienze naturali che studia l'origine dell'uomo: "Funari è un tipo che farebbe diventare volgare anche un mazzetto di violette", commenta l'insigne studiosa Ida Magli.
Sfiorando "Er Funaro" col telecomando, si capisce che il mitico "Blob" ha perso. Ha vinto il mortadellaro di Italia Uno. Tutto ciò che trabocca dal suo programma, quel mix di quiz e di politicanti, rappresenta un vertiginoso "Blob" dal vivo, crudele e irresistibile nemesi televisiva delle mascalzonate di Ghezzi & Giusti. Si spiega questa Samarcanda all'amatriciana? E come si spiega il "funarismo", ultimo stadio della blob-crazia?
Lisciando il pelo ai vizi italioti, Funari ha dato una riconoscibilità allo spettatore medio: la bocca aperta sul cortile di casa è una vera e propria incarnazione del Tele-paese sommerso. Non basta. Il segreto del suo successo è nel corpo ("C'io 'no stomaco alla zuava"), nella voce sguaiata, nel dire ("l'umanità mi piace tanto") e nell'ammiccare ("Ma che cazzo ne sanno..."), scoprendo l'acqua calda e l'ombrello aperto.

Dicono: parla un italiano approssimativo. Macché: Funari, oggettivamente, parla con le mani. Con una gestualità che farebbe invidia a un vigile urbano, tratta le opinioni dei suoi ospiti come gli americani hanno trattato Hiroschima. Il Rugantino catodico se la spassa con fragorosi "se vedemo", "me pija 'n'attacco isterico", "si è parlato che", "me venga a trovare, che mangiamo un cappuccino insieme". Ci mancherai, mi mancherà.

47 coltellate


Caso Alinovi, il segreto in quel diario

Il 15 giugno 1983 Francesca viene uccisa. Pochi giorni dopo l'arresto del pittore Ciancabilla. Oggi è libero

di EMANUELE TREVI

COME TANTE STRADE MEDIEVALI DELLE CITTÀ ITALIANE, ANCHE VIA DEL RICCIO NEL CUORE DI BOLOGNA DAL PUNTO DI VISTA DELLA FORMA E DELLE DIMENSIONI CORRISPONDE PIÙ A UN VICOLO CHE A UNA VIA VERA E PROPRIA. A UN CERTO PUNTO, LA CARREGGIATA SI RESTRINGE ULTERIORMENTE, CON UNA IRREGOLARITÀ CHE FA PENSARE PIÙ ALL'OPERA DELLA NATURA CHE AL LAVORO DEGLI UOMINI. FINESTRE DELLE CASE, DA UN LATO E DALL'ALTRO, SI FRONTEGGIANO IN UNA FORZATA PROMISCUITÀ.

Esattamente un quarto di secolo fa, la sera del 15 giugno del 1983, era stato impossibile per i pompieri parcheggiare la loro vettura sotto le finestre aperte dell'appartamento al secondo piano di via del Riccio 7, abitazione di Francesca Alinovi. Era uno di quei giorni afosi e soffocanti in cui anche le pietre delle vecchie case e le colonne dei portici, a Bologna, sembrano trasudare come corpi vivi. A sollecitare l'intervento dei vigili del fuoco, dopo tre giorni di attesa ed ansietà, erano stati due vicini di casa ed intimi amici di Francesca Alinovi, il disegnatore Marcello Jori e sua moglie. Era dal pomeriggio di domenica 12 che Francesca, notissima critica d'arte e organizzatrice di mostre, oltre che insegnante al DAMS, aveva fatto perdere le sue tracce. Non si era presentata, lei di solito molto precisa con i suoi molteplici impegni, a vari appuntamenti di lavoro, né era stato possibile raggiungerla al telefono. In genere, quando i pompieri devono effettuare un simile intervento, è comprensibile che non ci si aspetti niente di buono. Ma la scena agghiacciante che si trovarono di fronte gli uomini penetrati nella casa di via del Riccio era di quelle che superano di gran lunga la più pessimistica delle previsioni.

La casa degli orrori
Nel salotto del piccolo appartamento Francesca Alinovi giaceva in una pozza formata dal suo stesso sangue, la testa nascosta da due cuscini. A mo' di macabra firma, o di patologico congedo, completava l'orribile quadro una rosa di plastica rossa. Quello che videro i pompieri e poi gli agenti della squadra mobile di Bologna accorsi a via del Riccio, per quanto tremendo, non è ancora nulla rispetto all'orrore che si nasconde nel linguaggio — di necessità ferreo nelle definizioni e distaccato da qualunque emozione soggettiva — dell'autopsia. Un orrore che comincia dal numero delle ferite «da arma di punta e taglio» (forse un normale coltello da cucina) riscontrate sul corpo della vittima: ben quarantasette distribuite tra il volto, il torace, il collo, e le braccia impiegate in un estremo tentativo di difendersi. Ma c'è qualcosa di peggio che emerge dal referto: quasi nessuna di queste innumerevoli ferite può essere considerata mortale. Nella maggior parte dei casi, la lama, o meglio la sua punta, era penetrata di pochissimo (circa un centimetro) nel corpo della vittima, come per lasciarle tutto il tempo, in un gioco più crudele della stessa violenza, di rendersi conto di quello che le stava succedendo. Alla fine, un colpo al collo danneggiò la giugulare, e Francesca morì di una specie di edema, soffocata dal suo stesso sangue e forse dai cuscini che la coprivano.

L'amante assassino
Nata a Parma nel 1948, Francesca Alinovi non aveva ancora trentacinque anni al momento della morte. Le indagini della squadra mobile e del magistrato incaricato furono eccezionalmente rapide, se si pensa che sono bastati pochi giorni per arrivare all'arresto di colui che, per lo stato italiano, è il responsabile (senza complici) del delitto: il pittore pescarese Francesco Ciancabilla, all'epoca dei fatti un ragazzo di ventitré anni, legato alla Alinovi da un rapporto intricato e contraddittorio, che durava già da un paio d'anni tra crisi, riconciliazioni, litigi anche violenti. Oggi Ciancabilla è un uomo libero, che ha pagato il suo debito con la giustizia (quindici anni per omicidio preterintenzionale) dopo aver trascorso da latitante una decina d'anni tra Brasile e Spagna. Assolto in primo grado, quando il vecchio codice penale ancora contemplava l'«insufficienza di prove», non ha mai smesso di dichiararsi innocente.

Quelle strane telefonate
In realtà, è stato un cumulo di indizi, più che una prova vera e propria, ad inchiodare l'imputato a partire dal secondo grado di giudizio. È rimasta famosa una frase dell'avvocato difensore: tante mele non fanno un melone. Ma queste «mele», vale a dire gli indizi incapaci di dar luogo al «melone» di una certezza indiscutibile, formano uno dei capitoli di questa tragica storia più capaci di accendere la passione dei cultori di gialli. Nell'elenco rientrano un orologio a carica automatica, innescata dal semplice movimento del polso; una misteriosa scritta in cattivo inglese trovata sulla finestra del bagno e vergata con una matita da trucco; una serie di telefonate nelle quali Francesca, via via che le ore del pomeriggio di quella maledetta domenica scorrono inesorabili verso l'ora della morte, appare sempre più triste o turbata; un pizzico di cocaina; un asciugamano scomparso; un paio di occhiali da sole… Ho elencato alla rinfusa fatti e circostanze rivelatisi fondamentali assieme ad altri che invece sono risultati del tutto inessenziali. Il fatto è che una storia, qualunque storia, per colpire a così vasto raggio il cuore e l'immaginazione, trascina con sé, come fosse un fiume in piena, le verità più positive e le illazioni più futili, il sublime e il triviale, ciò che ci appare del tutto estraneo e ciò che invece riconosciamo, anche se non vorremmo, simile a noi. Tutto rimescolando in una specie di organismo narrativo ibrido, ormai né vero né falso. In quanto mito sociale e psicologico, ciò che chiamiamo la cronaca nera ha una vita ben differente dagli itinerari dei processi, con i loro gradi giudizio — ed è addirittura inutile ricordare quanto la confusione di questi piani è perniciosa. Di un giudice che ragionasse come un giallista, ci sarebbe poco da fidarsi, insomma, e viceversa. Più ambiguo, necessariamente, è il ruolo, letteralmente intermedio, del giornalista, che lavora sui fatti in quanto tali, ma è pure costretto, più o meno consciamente, a servirsi di schemi narrativi che garantiscano (fin dai titoli) efficacia al suo racconto. Ma le cose del mondo vanno così: in una prima fase (che può durare anni, come nel caso Alinovi) da un qualunque fattaccio si spremono indagini, e poi sentenze. Ma poi, chiusi i faldoni e archiviate le testimonianze e le perizie, quei fatti, quegli eventi ridotti alla consistenza di fantasmi, continuano a vivere nella memoria collettiva, e magari nella fantasia degli artisti, non più per determinarne la verità, ma per ricavarne una morale. E se anche fosse fondata su un errore giudiziario, la storia che si presta a questa ulteriore ricerca di senso, la storia del tragico amore (amour-passion, dicono i francesi) di Francesca Alinovi e Francesco Ciancabilla non sarebbe per questo meno degna di meditazione.

Il diario di una donna di talento
Bella, intelligente, coraggiosa nelle sue scelte Francesca è stata, non c'è dubbio, una persona eccezionale, dotata di un autentico carisma. A dispetto della brevità della sua vita, ha fatto a tempo a lasciare molte tracce del suo talento. Nata quasi alla metà esatta del suo secolo, ne condivideva l'amore per il nuovo, l'intentato, l'avanguardia. Aveva studiato a fondo il Dadaismo, la fotografia sperimentale nel suo incrocio di illusione e realtà, l'arte della performance. Aveva perlustrato a fondo le periferie di New York sulle tracce del talento dei nuovi graffitisti, quando Keith Haring e Basquiat erano praticamente degli sconosciuti. Amava Kerouac, il cinema più visionario, la poesia come forma ultima del destino umano. Si può essere figli del proprio tempo e insieme individui singolari, irripetibili. Un certo grado di fragilità emotiva, e una innata propensione ai legami difficili e alla deriva sentimentale, anziché sminuire, completano e definiscono ulteriormente il carattere di Francesca. Qualcosa, in questo senso, si ricavava già dalle testimonianze rese dagli amici a polizia e magistrati, ai tempi dalle indagini. Da pochi mesi, però, è a disposizione di tutti un documento eccezionale, contenuto nell'ultimo capitolo del libro che Achille Melchionda, l'avvocato di parte civile della famiglia Alinovi, ha scritto ricostruendo, dal suo punto di vista privilegiato, l'intera vicenda (Francesca Alinovi: 47 coltellate, Edizioni Pendragon). Si tratta del diario, contenuto in tre quaderni, che Francesca scrisse durante gli ultimi anni della sua vita, a partire dall'autunno del 1980. Le annotazioni si interrompono a poche settimane dalla morte, e sono tutte caratterizzate da quel singolare miscuglio di intelligenza ed emotività, apertura al prossimo e senso di solitudine, al quale accennavo. Ovviamente, noi leggiamo questa testimonianza alla luce del terribile destino di chi, giorno per giorno, l'ha scritta. Ma chi può dirsi sicuro di non conoscere, almeno in modo inconscio o puramente simbolico, il proprio destino? Ricorre spesso, nelle prime pagine del diario, una specie di ossessione, quella di essere già morta senza accorgersene, come accade al protagonista di un famoso racconto di Lernet-Holenia, «Il barone Bagge». Anche l'abbassamento della vista potrebbe essere un indizio in tal senso: «Ai morti si chiudono gli occhi», riflette infatti Francesca, quando rimangono «rigidi e sbarrati» (come quelli, aggiungiamo noi, di tante vittime di morte violenta). Spinosi e caratterizzati da una sorta di sindrome dell'impossibilità i rapporti con gli uomini, e con grande acutezza introspettiva, le tante soddisfazioni ricevute dal lavoro vengono interpretate come «compensazioni affettive».

Amore a prima vista
E arriviamo al 21 febbraio del 1981, il giorno del primo incontro con Francesco Ciancabilla. È un innamoramento a prima vista per quel ragazzo più giovane di una decina d'anni, un amore «romantico, pittoresco», «da racconti di Pasolini». Una passione al cui scoccare non è estraneo un fortissimo sentimento di identificazione, come se Francesca, suggestionata anche dall'identità di nome con Francesco, si fosse imbattuta in una versione maschile di sé («assomiglia a me bambina, zingaresca e scalza sulla spiaggia di Forte dei Marmi»). Da questa fatidica data, i diari seguiranno fino alla fine il copione universale dell'amore-come-calvario, della passione come malattia, quasi che Francesca si sia trasformata, sulle tracce del suo supposto alter-ego, in una specie di eroina romantica, di Adele H vagante tra i corridoi del DAMS e le gallerie d'arte di Bologna e New York. I litigi sono sempre più spesso violenti. Ma il fatto che più fa soffrire Francesca è la castità che l'altro ha imposto al rapporto, fonte di frustrazione e di infiniti sospetti. Ma c'è una cosa sulla quale Francesca, così lucida anche nello smarrimento, sembra non aver riflettuto abbastanza: Francesco è un aspirante pittore, alla ricerca di un riconoscimento. E dall'altro lato c'è lei, famosa e rispettata. Quando un critico non si limita (come in genere fanno gli accademici) a ricamare sul già noto, ma rischia alla ricerca di nuove personalità, si può dire senza esagerare che si prende una responsabilità tremenda. Attribuendo un talento a qualcuno, si collabora a una specie di seconda nascita, finendo per usurpare un ruolo materno. E se ogni vittima prima o poi finisce per compiere un errore fatale di valutazione, io credo che l'errore di Francesca sia stato l'aver sottovalutato questo aspetto fondamentale di quel legame che tanto la impegnava e tanto la faceva soffrire. In ogni mestiere ci sono dei rischi tipici della professione: quello del critico (e soprattutto, direi, del critico d'arte) consiste, nel momento in cui «scopre» qualcuno, nel formare dal nulla un destino, un'identità. Le eterne favole nere del Golem e di Frankenstein (per non parlare del vecchio Edipo !) stanno lì a dimostrare i pericoli che si annidano in quello che in apparenza è il più nobile, il più generoso dei gesti: essere responsabili, creare e plasmare la vita degli altri. Ai tempi dei processi, quando avidamente leggevo sui giornali ogni novità sul delitto di via del Riccio, ricordo che il dettaglio che mi aveva più colpito (e ho ritrovato nel libro dell'avvocato Melchionda) è una frase pronunciata dalla madre (quella vera) di Ciancabilla, nel legittimo intento di fornire un argomento per la difesa di Francesco: «L'aveva creato lei, come avrebbe potuto ucciderla?». Ebbene, questa domanda dettata dal buon senso è terribile come tutto ciò che esprime una verità in modo del tutto involontario. E credo che stia lì tutto il sugo della storia, o almeno della storia che le indagini e i processi hanno consegnato alla nostra memoria. Proprio perché lo aveva creato, infatti, avrebbe potuto ucciderla. E certo, non voglio con questo dire che i critici, e in generale gli scopritori di giovani talenti, farebbero tutti bene a togliere il loro nome dal citofono, o dotarsi di potenti antifurti e guardie del corpo. Ma a tutto ciò che esplode in un parossismo di violenza e di orrore corrispondono, in una data società, sentimenti affini, molto più diffusi anche se del tutto innocui. È per questo che la cronaca nera è la parte del giornale che, oscuramente, riguarda un po' tutti. E se non proprio tutti, tanti potrebbero testimoniare, guardando un po' a fondo nella propria coscienza, che fardello intollerabile sia quello della gratitudine, e a quali innominabili desideri si accompagni. Il pericolo, bisogna aggiungere, non sta mai nella natura umana in sé, ma nel fare finta che certe cose, sgradevoli e intollerabili solo a pensarle, non esistano.


13 luglio 2008

MORALISTI ASSOLUTISTI

dal Corriere Online

Il moralismo in un Paese solo


di Ernesto Galli della Loggia

È un demone antico quello che martedì scorso è rispuntato sul palco romano di piazza Navona. È il demone che spinge di continuo una parte di Italiani a credere non solo che il proprio Paese è governato (o può esserlo da un momento all'altro se vincono gli «altri») da una masnada di furfanti corrotti, ma che questi furfanti, in fondo, non sono altro che il vero specchio del Paese, o meglio della sua maggioranza. È il demone, appunto, del moralismo divisivo: cioè dell'idea che l'Italia non è un solo Paese, con propensioni, aspetti, caratteri buoni e cattivi, intrecciati inestricabilmente in tutte le sue parti e in certa misura dentro ognuno di noi. No, l'Italia sarebbe invece un Paese con due anime, due morali, addirittura due popoli di segno opposto. Da una parte gli Italiani cattivi (per natura reazionari, prevaricatori e imbroglioni) e dall'altra invece gli Italiani buoni (altrettanto naturalmente democratici, rispettosi della legge e attenti al bene pubblico). Da una parte insomma l'Italia maggioritaria moralmente grigia; e di fronte, a cercare di contrastarla, quella che ama definirsi «l'altra Italia», irrimediabilmente di minoranza.

La rappresentazione di questo modo di vedere le cose è andata in scena nel modo più evidente sul palco di Roma: dove è apparso chiaro, per l'appunto, che l'essenziale era urlare a squarciagola che Berlusconi incarna il massimo degli obbrobri possibili. Dimenticando però che, proprio se un simile figuro non ha dalla sua nessuna buona ragione, tanto più allora vi devono essere però delle buone ragioni se una maggioranza di Italiani lo ha votato. Ma il moralismo serve appunto a vanificare ogni questione politica di tal genere: la maggioranza degli Italiani ha votato Berlusconi? E che problema c'è? Vuol dire che sono fatti della sua stessa pasta, è la prova che sono dei furfanti come lui.

È una storia antica, dicevo, questa del moralismo. Una storia che comincia subito dopo l'Unità, quando lo sdegno per le miserie del Paese e il venir meno delle grandi speranze risorgimentali si tramutano nella messa sotto accusa delle sue classi politiche, del «Paese legale»; che prosegue poi con l'antigiolittismo di tanta parte della cultura nazionale la quale, alla denuncia delle malefatte del «ministro della malavita», associa ora la novità importante della denuncia dell'inadeguatezza morale dell'opposizione socialista, colpevole di essere collusa e di tenergli bordone. Una storia, infine, che fino ad oggi sembrava culminare e compendiarsi nella fiammeggiante predicazione di Gobetti e nel suo culto per le «minoranze eroiche » chiamate a lottare contro tutto e contro tutti. Contro Giolitti, contro Turati, contro Mussolini: tutti colpevoli egualmente, anche se a vario titolo si capisce, di promuovere la «diseducazione» morale e politica del popolo italiano. Considerato peraltro — c'è bisogno di dirlo?— non desideroso di altro.

Sono stati gli scrittori, i poeti, il ceto accademico, gli intellettuali in genere, a svolgere un ruolo centrale nel far sorgere e nell'alimentare questa tradizione del moralismo divisivo. Un ruolo che rimanda al ruolo politico di coscienza della nazione che sempre gli intellettuali hanno avuto in Italia, prima e durante il Risorgimento, e che hanno mantenuto fino ad oggi.

La storia politica italiana specie nel '900 è stata per molti versi, infatti, una storia d'impegno politico degli intellettuali; e questo impegno si è esercitato quasi sempre come denuncia e scomunica dai toni moralistici non di una politica con nome e cognome, ma dell'Italia «cattiva», di «quest'Italia che non ci piace», secondo le parole famose di Giovanni Amendola.

È naturale che farsi alleato un simile atteggiamento, sollecitarlo e vezzeggiarlo, rappresenta una tentazione per qualunque forza d'opposizione. La sinistra italiana ne sa qualcosa. Nel dopoguerra, infatti, il Partito comunista iniziò una politica di stretta alleanza con gli intellettuali, e dunque anche esso fece proprio in misura notevole il moralismo divisivo che nella tradizione italiana caratterizzava il loro impegno. Del resto, un partito antisistema com'era il Pci di allora — sicuro di non poter mai arrivare al governo per vie normali, condannato alla contrapposizione permanente — divisivo lo era naturalmente. Per forza esso doveva alimentare la divisione in «buoni» e «cattivi». Il taglio moralistico che vi aggiunsero gli intellettuali dunque vi fu, e fu certo significativo, se non altro per mantenere viva una tradizione, ma il gelido realismo di Togliatti curò di non farsene prendere mai la mano, di sbarrargli qualunque avvicinamento al terreno cruciale della decisione politica. Dove invece restarono famose le sue «aperture» e i suoi «dialoghi» (perfino con gli ex fascisti).

Le cose sono iniziate a mutare del tutto con Berlinguer. È allora infatti che il discredito progressivo della tradizione comunista e la crisi dell'Urss lasciano il Partito comunista privo sempre più della sua identità storica. Ed è allora che il vuoto ideologico, che nel frattempo diviene progressivamente vuoto politico, comincia inesorabilmente a essere sempre più riempito dall'irrigidimento moralistico. Il quale tende a sua volta a diventare urlo delegittimatore, creazione del nemico assoluto, visto addirittura come frutto di una «mutazione genetica ». Con sempre meno operai e sempre più esponenti del «ceto medio riflessivo » nelle proprie file, suggestionato da spregiudicati gruppi editoriali che ambiscono quasi a dettargli la linea, pressato da giudici di tipo nuovo che considerano se stessi e la giustizia come investiti di una missione etica, e infine condizionato da una stampa straniera abituata a semplificare drasticamente una realtà italiana che nella sostanza non conosce, il Pci non trova di meglio che fare della «questione morale» la sua nuova carta d'identità. Incapace di convertirsi alla socialdemocrazia, al partito di Gramsci e di Togliatti, che pure un tempo non ignorava gli aspri dilemmi della politica, non rimane che presentarsi come «il partito degli onesti»; che affidare le sue speranze alla delegittimazione morale dell' avversario.

Lì avviene il ripudio drammatico e totale di una storia, una rottura sociale e antropologica, quello che potrebbe definirsi il salto verso il moralismo in un Paese (e dunque in un partito) solo. È da quel momento che un nugolo di professori, di giornalisti, di teatranti, di showmen televisivi, di romanzieri, comincia a pensare ormai di essere di fatto il padrone dell'elettorato di sinistra. E, quel che è peggio, in una certa misura lo diventa davvero. L'8 luglio romano ha rappresentato l'esito di questo lungo itinerario. Esso però dovrebbe aver fatto capire definitivamente, a chi non l'avesse ancora capito, che cosa implica alla fine il moralismo divisivo: in una parola la concreta impossibilità della democrazia. Se infatti l'Italia che politicamente non ci piace è fatta di gente moralmente ottusa guidata da un malandrino, è ovvio che la sola possibilità è una lotta all'ultimo sangue, muro contro muro, senza alcun compromesso immaginabile, mai. E se poi si dà il caso che quell'Italia così detestabile vince le elezioni, allora è inevitabile convincersi che la democrazia, un sistema che permette cose simili, in realtà è niente altro che una truffa. Ma è questo che conviene davvero alla sinistra? È questo che conviene al Partito democratico?

il punto di Ludovico Festa

da "il Foglio"
L'analisi di Lodovico Festa

Ora forse si può cominciare a governare, e mandare avanti Bossi

Per Veltroni spazi di dialogo sul federalismo

Il risultato che la congiura mediatico-giudiziaria di luglio sembra avere prodotto è la squallida manifestazione dei pagliacci-forcaioli di piazza Navona. Dunque, ora, si può ricominciare a governare. Naturalmente senza scordarsi che la questione giudiziaria va definitivamente chiusa con una riforma di alto profilo ( improbabile senza un appello di tipo gollista al popolo) e senza sottovalutare non tanto i pagliacci-forcaioli – difficili da prendere sul serio – ma l’ampio rancore sociale da loro rappresentato.

La situazione economico-sociale italiana e il quadro globale dei mercati restano difficili. Non saranno tempi semplicissimi quelli del governo. Servono riforme di sistema e queste senza dialogo con l’opposizione appaiono complicate. Ma non si intravede nel medio periodo una direzione del Partito democratico sufficientemente salda e quindi in grado di offrire una base, per iniziative impegnative. Dell’incapacità caratteriale di Walter Veltroni di affrontare a viso aperto le grandi questioni della politica, si è detto. Alla fine, magari, arriva a posizioni ragionevoli, ma sempre col suo stile vigliacchetto, con la copertura di mitologie che gli devono essere offerte da “tutta la stampa” nazionale, con l’eliminazione di ogni serio contrasto. Contrasti che non riesce a “reggere”: vedi le primarie e l’invito a Pierluigi Bersani a ritirarsi. Oggi non solo si ritrova nel Pd i prodiani impazziti, Arturo Parisi (grande distruttore di politica ma dall’eccezionale inventiva) che arriva a partecipare alla manifestazione dei pagliacci-forcaioli.

E Romano Prodi, con la sua solita arietta ipocrita, che fa lo spettro di Banco. Non solo deve fare i conti con i giustizialisti allevati a lungo (anche da Veltroni stesso) nel suo partito e ora aizzati da Antonio Di Pietro. Non solo ha tra i piedi Massimo D’Alema (il cui esibizionismo parapolitico ricorda sempre di più quello di Francesco Cossiga ma con tanta nobiltà, tanti vent’anni e anche tante cicatrici di meno) che continua a fare giochetti per dimostrare di essere il più “bravo del mondo” o comunque più bravo di Veltroni. Non solo ha questo scompisciato contesto nel “partito”. Ma soprattutto è stato colpito alle spalle dalla Repubblica e non ha ancora capito perché. Se perché si è legato troppo al Corriere della Sera. Perché non ha più, persa Roma, una base di potere reale e a Carlo De Benedetti i profeti non piacciono troppo armati (tipo D’Alema o anche Prodi) ma neanche ormai disarmati (tipo il Veltroni di oggi). Non capisce se c’è stata qualche partita di potere in cui gli veniva richiesta qualcosa (contro Cesare Geronzi?) e lui non l’ha fatta.

Sia quel che sia, non ha più l’appoggio di Largo Fochetti (e quindi anche dell’Unità) e questo lo fa impazzire. E rende più difficile il percorso per stabilizzare le istituzioni italiane. Adesso il presidente del Pd per non finire nel o sotto il carro delle sabineguzzanti, si è inventato il ruolo centrale della Lega: lei sì che avrebbe una vera vocazione (nazionale?). L’incapacità di fare i conti con il sistema politico per quello che si è definito, può provocare guasti. La Lega è un movimento che esprime obiettivi nella maggioranza dei casi non disprezzabili, ma per come si è formata la sua cultura politica e il suo gruppo dirigente ha spesso bisogno di semplificazioni talvolta rudi. E in questo senso, in più d’un caso, avrebbe bisogno di una interlocuzione dialettica da parte delle forze che le si considerano alternative.

E’ una sciocchezza dire che la Lega è forza di estrema destra (vedi l’esagitata Unità), di fatto ha un programma federalista compiutamente democratico: ma non rifugge da un certo estremismo che le rende più difficile esercitare sempre un ruolo centrale. E quando si assume questo compito, proprio per surrogare ad alcuni limiti, talvota eccede nelle mediazioni.
Una matura forza politica di sinistra cercherebbe gli accordi quadro con la controparte maggioritaria, senza naturalmente escludere altri interlocutori.Ma Veltroni forse non è in condizioni di assumersi questa responsabilità: anzi, atterrito dai beppegrillo si mette anche a insultare gratuitamente Gianfranco Fini.

Ben venga, dunque, un ruolo “ponte” di Umberto Bossi, una trattativa sul federalismo fiscale che fa assumere un ruolo di protagonisti ai leghisti, cui tra l’altro spetta la responsabilità ministeriale fondamentale e gestita proprio dal leader del movimento.
Nel dare il via alle danze, propiziate dalla sconfitta della congiura mediatico-giudiziaria e dal buon lavoro preparatorio di Giulio Tremonti, si devono tenere presenti alcuni elementi. Veltroni fa un po’ il ganassa – l’arrogante come si dice a Milano – e si dichiara a favore del federalismo alla lombarda, poi delega ai vari piemontesi, da Sergio Chiamparino a Mercedes Bresso, che fanno aperture differenti da quelle lombarde ma che non dispiacciono ai leghisti. Ma il centrodestra che cerca un accordo quadro deve sapere che le basi dell’accordo vanno fatte con Emilia e Toscana, ancora forzieri di voti, iscritti e soldi per il Pd, ben bene foraggiate da contributi statali che consentono pingui sistemi di welfare.

Pur affidando, poi, questa fondamentale trattativa alle mani di Bossi, quelli del Pdl non devono dimenticarsi di che cosa rappresentano sul territorio e devono prevedere incontri con alcuni dei personaggi chiave della partita: da Roberto Formigoni a Giancarlo Galan, da Gianni Alemanno a Raffaele Fitto. Per non parlare di quell’interlocutore essenziale che è l’“autonomo e popolare” Raffaele Lombardo. Certamente il tutto fatto con lo spirito sincero di aiutare il lavoro di Bossi.

di Lodovico Festa